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La rivoluzione dei commons contro il disincanto del mondo

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Lele Leonardi recensisce “Reincantare il mondo” di Silvia Federici

L’uscita di un nuovo libro di Silvia Federici è sempre un’ottima notizia per la riflessione dei movimenti e le lotte anti-capitaliste: bisogna dunque essere riconoscenti ad Anna Curcio (già curatrice de Il punto zero della rivoluzione) e a Ombre corte per averci messo a disposizione i materiali contenuti in Reincantare il mondo. Femminismo e politica dei commons, da poco in libreria. Il volume è ricchissimo: anche solo una panoramica veloce sarebbe troppo per lo spazio di una recensione. Mi limito dunque a richiamare e discutere tre elementi che ritengo particolarmente utili per la discussione militante sui beni comuni – sul loro sfruttamento e sulle prospettive politiche che aprono.

In prima battuta il testo esprime lo sguardo dei conflitti – in particolare della prospettiva femminista – sul fallimento della globalizzazione. Si tratta di uno sguardo geograficamente molteplice (ci sono l’Europa e gli Stati Uniti, certo, ma anche e forse sopratutto l’America Latina e l’Africa, senza dimenticare il Medio Oriente) eppure teoricamente unitario: a dispetto delle mutevoli forme specifiche, la violenza dell’espropriazione neoliberale è strutturalmente la stessa e come tale rappresenta il maggiore ostacolo all’autonomia dei commoners.

Questo punto è presente nell’analisi di Federici fin dagli anni Novanta, come testimonia l’importantissimo saggio “Le nuove recinzioni”, scritto nel 1990 con il Midnight Notes Collective. Due sono le questioni principali: in primo luogo, si riconosce senza tentennamenti come l’accumulazione originaria non sia un accadimento storico puntuale, dato una volte per tutte, bensì un’esigenza costante del capitale, un fenomeno ricorrente segnato dalla separazione forzosa tra le comunità e i mezzi di sussistenza e riproduzione. In seconda istanza, si situa correttamente l’emergere delle nuove recinzioni nel contesto dell’offensiva capitalistica neoliberale, cioè nell’esaurirsi del cosiddetto patto fordista, che nel corso dei “trent’anni gloriosi” aveva garantito alla classe operaia del “primo” mondo integrazione sociale (welfare e accesso ai consumi di massa) in cambio di obbedienza e subordinazione rispetto alla composizione qualitativa della produzione (cosa, come, dove, quando e per chi si produce).

Di grande interesse e importanza, a questo proposito, è la totale mancanza di nostalgia per il fordismo: “Ogni patto del secondo dopoguerra – il patto socialista, terzomondista e quello stipulato dall’organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico OCSE (tra Europa Occidentale, Nord America e Giappone) – si sta dissolvendo. Ci rifiutiamo di piangerli. Chi infatti li ha annullati se non i nostri fratelli e sorelle proletarie, che in varie parti del mondo hanno desiderato e chiesto di più di quanto fosse stato patteggiato?” (p. 34).

È quindi evidente che l’obiettivo di un nuovo patto sociale non ha nulla a che spartire con la rivoluzione dei commons proposta da Federici. Si delinea piuttosto un quadro in cui alla crisi del fordismo, indotta dalle lotte, segue la ristrutturazione capitalistica basata sull’erosione dei diritti acquisiti dal proletariato: “Non a caso, quel vecchio serpente che è il capitale ha reagito d’istinto, ritornando alle ‘origini’ con un nuovo affondo e il morso delle recinzioni” (p. 34). Di tali, “nuove” recinzioni si sottolinea opportunamente la continuità con le “vecchie”: le loro funzioni sono quelle di porre fine al “controllo comune sui mezzi di sussistenza” (p. 36), di confiscare le terre attraverso il debito, di “fare del lavoro mobile e migrante la forma dominante di lavoro” (p. 37), di operare la “distruzione del nostro patrimonio naturale” (p. 38). Meno attenzione è dedicata alle discontinuità tra “vecchie” e “nuove” recinzioni. Se la violenza del capitale rimane formalmente la stessa, infatti, fenomeni recenti e storicamente specifici come il divenire produttivo della riproduzione sociale, l’emergere di forme cognitive del lavoro e la finanziarizzazione dell’economia mi sembrano evidenziare caratteri inediti.

Non che manchino elementi che spingono in quella direzione, a dire il vero. E qui vengo al secondo punto su cui voglio soffermarmi: il ruolo fondativo della critica femminista per una politica rivoluzionaria basata sui commons. Da un lato il volume ripropone alcune delle acquisizioni più preziose del femminismo marxista: l’interesse per il Marx teorico della lotta di classe più che per il Marx progressista visionario; la critica della “cecità” marxiana rispetto al lavoro domestico finalizzato alla (ri)produzione della forza lavoro; l’analisi minuziosa della figura della casalinga proletaria a tempo pieno. Dall’altro lato la riflessione di Federici interroga le sfide contemporanee del femminismo: la prima, in negativo, riguarda una ferma presa di distanza dalla cooptazione neoliberale di parte del movimento femminista a partire dal collasso del patto fordista. Scrive Federici: “Addomesticare il movimento femminista era particolarmente urgente in un momento in cui la contro-offensiva capitalista, dispiegata a livello mondiale in risposta alla crisi nel processo dell’accumulazione della metà degli anni Settanta, doveva smantellare le forme organizzative responsabili della resistenza dei lavoratori allo sfruttamento. È qui che dobbiamo collocare l’intervento delle Nazioni Unite e la prima Conferenza Internazionale a Città del Messico, nel 1975, che segnò l’inizio dell’istituzionalizzazione del movimento femminista e l’integrazione delle donne nei piani di sviluppo del capitale internazionale” (p. 161). È proprio all’incrocio tra questa integrazione delle donne nel processo di valorizzazione e l’emergere delle “nuove” recinzioni che prende forma, a mio avviso, il divenire produttivo della riproduzione sociale (e, quindi, il suo rapporto di prossimità ma non perfetta sovrapponibilità con le “vecchie” recinzioni).

La seconda sfida, in positivo, è quella di collocare la sfera della riproduzione al cuore della rivoluzione dei commons, facendone “il terreno cruciale per la trasformazione dei rapporti sociali”. Si “rovescia così non solo la struttura del valore dell’organizzazione capitalista del lavoro, ma anche il primato accordato alla produzione come terreno di lotta e di organizzazione nell’ottica marxista. Più precisamente, la politica dei commons tende a superare, già a partire dal presente, la separazione tra produzione e riproduzione, e l’isolamento che ha caratterizzato il lavoro di riproduzione nel capitalismo, non in vista della sua riorganizzazione su scala industriale ma per creare forme più cooperative di questo lavoro” (p. 206). Da questo punto di vista l’analisi di Federici risulta inattaccabile: l’abbattimento del neoliberalismo passerà dall’auto-governo delle attività riproduttive, oppure non si darà.

Ultimo punto, per me il più delicato: la relazione tra commons e tecnologia. Ha ragione Anna Curcio quando definisce “problematico”, in Federici, il “rapporto tra anti-modernità e lotta sullo sviluppo” (p. 8). In generale, il libro sembra essere attraversato da un conflitto permanente tra la società del disincanto prodotta dall’egemonia del macchinario e l’esigenza di re-incantamento del mondo da perseguirsi attraverso la centralità della sfera riproduttiva. Questo “scontro”, però, non si presenta allo stesso modo in tutti i saggi. In “Dalla crisi al comune. Lavoro riproduttivo e tecnologia nelle trasformazioni della vita quotidiana”, specialmente laddove si discute del testo curato da Leopoldina Fortunati Telecomunicando in Europa (del 1998), la critica al determinismo tecnologico è netta e il conflitto macchina-riproduzione appare in qualche modo “componibile” a partire da un possibile rovesciamento dei rapporti sociali di (ri)produzione.

In “Marx, il femminismo e la ricostruzione dei commons”, lo spazio di composizione si riduce sensibilmente: da un condivisibile rifiuto sia della fattibilità sia della desiderabilità di un’automazione spinta del lavoro riproduttivo, e da un’altrettanto condivisibile presa in carico dei costi ecologici delle infrastrutture informatiche, Federici sembra far discendere la residualità delle lotte che aggrediscono il piano digitale: “la politica dei commons traduce in parte la concezione di Marx del comunismo, come abolizione dello stato di cose presente. Si può anche sostenere che con lo sviluppo dei commons online e la crescita dei movimenti per il free-software, ci stiamo avvicinando a quell’universalizzazione delle capacità umane che Marx prevedeva come risultato dello sviluppo delle forze produttive. Ma la politica dei commons è una deviazione radicale da ciò che il comunismo ha significato per la tradizione marxista a partire dall’opera di Marx. Tra la politica dei commons e il comunismo ci sono differenze sostanziali, particolarmente evidenti da un punto di vista femminista ed ecologista” (p. 206).

Infine, in “Reincantare il mondo. La tecnologia, il corpo e i commons” la frattura si fa insanabile e il rifiuto delle tecnologie digitali sembra tradire un certo determinismo, come se i rapporti sociali cristallizzati nelle macchine fossero un monolite dato una volta per tutte e non un terreno di scontro la cui posta in gioco è precisamente la direzione dei processi di innovazione: “Anche le tecnologie digitali comportano uno specifico programma sociale e politico, in quanto accelerano il trasferimento delle capacità lavorative alle macchine e sono un’ulteriore tappa nella spersonalizzazione dei lavoratori. Tuttavia perdura l’illusione che l’introduzione dei computer e degli I-phone sia stata un bene per l’umanità, poiché si continua a credere che entrambi riducano il lavoro necessario e aumentino la nostra capacità di comunicare e cooperare” (p. 213).

Sullo sfondo di questo snodo problematico sta la vexata quaestio della cosiddetta dimensione progressista del capitale, che appare spesso (ma non sempre) in Marx e periodicamente si riaffaccia nel dibattito contemporaneo. Volendo semplificare, e rimanendo in ambito post-operaista, si potrebbero indicare le opere di Hardt e Negri come paradigma del progressismo del capitale nel XXI secolo, e quelle di Federici come paradigma della sua critica: i primi sostengono che lo sviluppo capitalistico vada ri-orientato a partire dal suo punto più alto (ci si deve porre “dentro e contro”), la seconda che lo sviluppo capitalistico vada semplicemente rifiutato in quanto fonte di impoverimento sia per chi lavora che per l’ambiente naturale (ci si deve porre “fuori e contro”).

Il tema è molto dibattuto e non può certo essere risolto in una recensione. Mi limito quindi a suggerire che, forse, storicizzando il problema le posizioni potrebbero risultare meno distanti di quanto non appaiano. Probabilmente si dovrebbe prendere atto dell’esaurirsi del nesso lotte-sviluppo elaborato dall’operaismo degli anni Sessanta – che tuttavia, in quel momento, funzionava. Lo schema diceva, grosso modo: dato che il motore dello sviluppo sta nella lotta di classe operaia, l’attacco va portato al punto più alto perché solo da lì sarà possibile reindirizzare la finalità della cooperazione senza depotenziarla. L’esigenza della biforcazione non si poneva dunque alla radice, bensì – per restare nella metafora arborea – al livello del frutto. Bisognerà studiare bene questo passaggio fondamentale perché ho l’impressione che sia solo sulla base del “produttivismo” operaista che qualcosa come un “oltre” la logica del valore è diventato visibile (penso in particolare alle lotte sulle nocività industriali).

In ogni caso, nel contesto post-operaista mi pare esserci consenso rispetto alla constatazione che, tra rifiuto del lavoro (agito) e frantumazione del lavoro (subita), il divenire sempre più eterogenee delle pratiche di valorizzazione renda impossibile stabilire oggi quale punto dello sviluppo sia effettivamente il più alto. La tendenza è l’eterogeneo. Saltata dunque l’immediatezza lineare del nesso lotte-sviluppo – e con essa l’individuazione relativamente agevole del “soggetto rivoluzionario” incaricato della biforcazione – la logica del “dentro e contro” comincia a fare problema. Credo sarebbe opportuno, nella congiuntura attuale, interrogarsi da un lato sulle diverse modalità di stare “dentro” e dall’altro sul potenziale trasformativo del “fuori”. Mi pare che la strada verso un anticapitalismo ecologicamente desiderabile debba passare sia da una coalizione tra i segmenti eterogenei che partecipano alla produzione di valore (dagli operai del manifatturiero ai contadini, fino ai knowledge workers) sia da un’alleanza tra quei segmenti politicamente riuniti e le espressioni del “fuori” (cosmo-visioni indigene, comunità legate all’agricoltura di sussistenza, lavoratori dell’economia “informale”). In altre parole, si potrebbe considerare più attentamente la questione del rapporto tra quei soggetti che scrutano l’“oltre” il valore a partire da ciò che fu il punto più alto dello sviluppo capitalistico e quei soggetti che vedono l’“altro” dal valore da una posizione di (relativa, graduabile) esternità – poiché o non vi sono stati inclusi oppure hanno opposto un rifiuto.

Come sempre accade, un grande contributo non chiude un percorso di ricerca ma apre nuove piste: tocca ai movimenti proseguire l’analisi. In questo contesto, la domanda interessante mi pare la seguente: data la nuova centralità della riproduzione sociale, i diritti della Pachamama e il reddito di base possono salire sulla stessa barca rivoluzionaria? Di certo non per forza d’inerzia: di automatico qui non c’è proprio nulla. Tuttavia la mia speranza è che si possa costruire uno spazio politico capace di fornire una risposta affermativa. E per arrivarci Reincantare il mondo è un passaggio fondamentale, per i mille spunti critici che propone e perché vi si trova una bellissima riformulazione femminista (ed ecologista) del concetto di comunismo: “sostengo che il punto di vista di Marx sul comunismo, in quanto sistema sociale che si oppone alla proprietà privata e basato sull’associazione dei liberi produttori, rappresenta un ideale che nessuna femminista anti-capitalista può contestare. Anche la concezione marxiana di un mondo oltre la divisione sociale del lavoro può essere ripresa dalle femministe, a patto di assicurarsi che tra la caccia al mattino, la pesca nel pomeriggio e il momento della critica dopo cena, rimanga il tempo per condividere le pulizie e la cura dei bambini” (p. 189).