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AirBnb, trasformazioni urbane e movimenti sociali: il caso di Barcellona

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Articolo di inchiesta di Paola Imperatore sulla sharing economy

Da anni la città di Barcellona soffre una forte pressione turistica, accentuata dalla recente quanto rapida diffusione di piattaforme digitali come AirBnb, Homeway ed altre che operano nel settore. Nell’ultimo decennio si è sviluppato un importante dibattito nell’ambito accademico e non solo riguardate i presunti vantaggi che la sharing economy e le piattaforme digitali possono apportare. Questo modello è stato a lungo presentato come un’alternativa sostenibile dal punto di vista sociale, economico e ambientale rispetto al modello capitalista. Ciononostante, la realtà che si presenta davanti ci offre un quadro ben differente e inizia ad interrogarci molto profondamente sul modo in cui le piattaforme digitali stanno interagendo con le nostre quotidianità.

Da Uber a Foodora, da Cambridge Analytica a Research Gate, da JustEat a Homeway, le piattaforme digitali stanno modificando numerosi aspetti della nostra vita lavorativa, professionale, abitativa, le nostre attitudini di viaggio, di trasporto, di comunicazione e persino di partecipazione politica.

Tra queste piattaforme AirBnb rappresenta sicuramente una delle più discusse, anche per la sua capacità di simboleggiare un esempio, o meglio l’esempio, di un nuovo modello di sharing economy (The Economist 2013). La piattaforma, lanciata nel 2008 a San Francisco, ha conosciuto nel corso degli ultimi anni una crescita esponenziale del proprio giro di affari: facendo della cultura dell’ospitalità un business, AirBnb ha raggiungo un capitale di 13 miliardi di dollari (Bradshaw, 2014) guadagnandosi una posizione di forza rispetto alle amministrazioni locali che tentano di regolarne l’attività. Ma giorno dopo giorno questo tipo di economia della piattaforma sta mostrando i costi sociali a cui le città sono sottoposte. Prima di andare ad approfondire il caso di AirBnb è però necessario spendere qualche parola sulla sharing economy e soprattutto sulle premesse con cui è nata.

Sharing economy: un’alternativa sostenibile?

La nascita della sharing economy necessita di essere brevemente contestualizzata. Essa fa la sua prima apparsa negli anni ’80 negli Stati Uniti attraverso la formula del time banking che prevede uno scambio di servizi basato non sul denaro ma sul tempo utilizzato. Con tale sistema il tempo di ogni soggetto viene considerato in ugual modo. Nel 1995 con la creazione di E-Bay e Craigslist la sharing economy assume i caratteri che tutt’oggi la connotano. Infatti a partire da questo momento lo scambio avviene attraverso l’utilizzo di software capaci di ridurre i costi e i potenziali rischi della transazione grazie alla costruzione di una reputazione che renda tali “venditori” affidabili. È durante la crisi economica e la recessione del 2009 che però la sharing economy si presenta come un’opzione più attrattiva e utile e si diffonde ad un’ampia sfera di servizi (da quello dei trasporti a quello della ristorazione, da quello educativo sino a quello turistico) conoscendo un grande successo ed una rapida espansione dei settori di interesse.

L’avvento della sharing economy non può essere letto senza tenere conto dell’impianto discorsivo che la sorregge. L’utilizzo di piattaforme digitali per regolare lo scambio e la condivisione di beni e servizi è stato inizialmente salutato con toni trionfalistici sia da studiosi e studiose provenienti da diverse discipline che da svariate amministrazioni locali che in numerosi casi si sono impegnate a promuovere l’idea e l’obiettivo della creazione di “sharing cities”. La sharing economy sembrava promettere un progressivo cambiamento da un modello economico basato sull’iperproduzione e sul consumo ad uno orientato alla condivisione e, di conseguenza, ad un minore consumo di beni, energia e rifiuti. È proprio facendo leva su queste caratteristiche che molte piattaforme, in modo più o meno coerente con la propria attività, si sono fatte pubblicità e si sono accaparrate una fetta di mercato. A questa logica risponde anche AirBnb che deve parte del suo successo alla capacità di presentarsi come un modello sostenibile, collaborativo e comunitario di ospitalità. Tuttavia nel corso del tempo molte problematiche legate alla piattaforma sono iniziate a venire a galla. Di questo processo il caso di Barcellona, che si va a trattare di seguito, è senz’altro esplicativo.

AirBnb a Barcellona: qualche numero

Come appena accennato, il caso di Barcellona è esemplare del funzionamento di AirBnb, delle conseguenze sul tessuto urbano e al tempo stesso dei limiti che le amministrazioni comunali possono incontrare nel tentativo di regolarne gli effetti negativi.

Barcellona rappresenta il 4° o 5° mercato (a seconda delle fonti) per AirBnb per numero di annunci. Grazie al lavoro di censimento realizzato dal portale InsideAirBnb è possibile conoscere non solo la quantità ma altresì la tipologia di annunci che vengono offerti sulla piattaforma. Nella città di Barcellona vi sono circa 18.000 annunci, di questi il 78% sono illegali (http://insideairbnb.com/barcelona/), ovvero sono appartamenti affittati ai turisti senza la licenza HUT (habitatge d’ùs turìstic) prevista dal Catalan Tourist Act per tutte quelle allocazioni con uso a scopo turistico.

In certi quartieri il numero di annunci illegali sul totale degli appartamenti offerti aumenta sino a raggiungere il 95% dei casi ne “El Raval” (Arias Sans and Quaglieri Domínguez 2016). Traducendo questo primo dato, circa 2/3 degli introiti derivanti dai turisti che usano AirBnb rimane in mano di privati senza che alcuna tassa di soggiorno o di registrazione dell’appartamento turistico venga versata nelle casse comunali.

Un secondo dato, se vogliamo ancora più rilevante, riguarda chi mette gli annunci, chi mette a disposizione su AirBnb la propria stanza, il proprio appartamento o interi condomini. Più del 50% degli annunci riguarda interi appartamenti i quali hanno una elevata disponibilità, cioè possono “ospitare” durante tutto l’anno.

Questo significa che la maggior parte degli annunci presenti su AirBnb non riguarda lo studente, la lavoratrice precaria, la famiglia in difficoltà ad arrivare alla fine del mese, bensì multiproprietari che hanno l’opportunità di utilizzare una delle loro case per fare profitto sfruttando la pressione turistica. Emerge dunque un’offerta monopolizzata da pochi host, da pochi proprietari o amministratori professionisti in grado di pubblicare sulla piattaforma fino a 150 annunci.

Questo non avviene senza conseguenze nella vita quotidiana dei residenti: sfratti abitativi e gentrificazione sono l’altra faccia della presenza di AirBnb a Barcellona. Questo meccanismo di speculazione economica tramite le cosiddette “accommodation platforms” è stato ben smascherato dalla campagna di protesta contro AirBnb che negli ultimi mesi del 2016 ha preso forma a Barcellona.

#UNFairBnb

È questo il nome dato alla campagna di protesta che ha visto comitati di quartiere, centri sociali e associazioni agire insieme all’interno della rete Assemblea de Barris per un Turisme Sostenible (ABTS) per denunciare il sistema AirBnb. Il ruolo di questa mobilitazione si è rivelato fondamentale per potere mettere a nudo la reale natura della piattaforma in questione, capace di presentarsi agli users nel migliore dei modi.

Airbnb infatti si propone come un’opportunità per condividere avventure e vivere “as a local” attraverso l’ospitalità. Tuttavia quello che connota questo tipo di ospitalità è la sua intrinseca natura monetaria. La piattaforma è stata capace di mettere a profitto la cultura dell’ospitalità trasformandola in un mercato appetibile nel quale i lavoratori sono free contractors che giocano e si divertono. A tal proposito, facendo un rapido giro per la pagina web della piattaforma, saltano immediatamente all’occhio una serie di slogan relativi al lavoro dell’host infarciti di propaganda neoliberista: “abbi uno spirito imprenditoriale”; “sii audace e pensa in modo originale”; “sii curioso, chiedi aiuto e dimostra capacità di crescere” e così via. A questo impianto retorico va aggiunto il discorso incentrato sul valore della comunità. La compagnia infatti si definisce come una comunità globale, un movimento, un team che lavora insieme e per l’interesse della comunità AirBnb. Di questa costruzione retorica fanno parte sia la politica degli Home Sharing Club (gruppi creati dalla compagnia per riunire gli hosts nelle varie città e utilizzarli come strumento di lobbying contro le amministrazioni locali che vogliano regolamentare la compagnia mettendone a rischio i profitti) sia l’idea del cittadino AirBnb, che trova una propria sezione dedicata: “AirBnb citizen”. L’utilizzo della parola cittadino richiama infatti all’inclusione in una comunità, all’appartenenza ad essa. Tuttavia la contraddizione appare evidente: la stessa compagnia che parla di comunità, quella virtuale rappresentata da AirBnb, distrugge giorno dopo giorno le comunità reali, quelle rappresentate dai quartieri, quelle che abitano e tessono relazioni nei territori. Ma accanto a questa narrazione basata sui valori dell’aggregazione e della condivisione, snaturati e messi a profitto da AirBnb, vi è una politica comunicativa volta ad evidenziare I benefici sociali ed economici che la piattaforma sta apportando nei contesti in cui opera.

Guardando allo specifico caso catalano, AirBnb si propone come una alternativa al problema del turismo intensivo, o meglio come parte della soluzione nella misura in cui attraverso la propria attività contribuisce a distribuire i benefit economici nelle aree meno visitate e a garantire una fonte di reddito alle classi medie che permetta loro di arrivare alla fine del mese.

Adottando questa strategia discorsiva, la compagnia vorrebbe presentarsi come un modello sostenibile di turismo capace di incontrare le necessità degli abitanti e di contribuire ad una redistribuzione della ricchezza. È dunque questa retorica della piattaforma “of the people, by the people and for the people” che la campagna messa in atto a Barcellona va a scalfire, accusando AirBnb di fare socialwashing. La decostruzione della narrazione fatta dalla piattaforma rappresenta uno dei primi obiettivi della campagna di protesta, come mostrano una serie di azioni dal nome #DesmuntantAirBnb (smontiamo AirBnb). Dietro alle azioni, che rivendicano il diritto all’abitare messo a dura prova dalle speculazioni turistiche che stanno progressivamente trasformando la città, vi è un lungo e accurato lavoro di raccolta di dati e informazioni che permettono di individuare i casi che in qualche modo possono dirsi simbolici del funzionamento di AirBnb. Così, gli/le attivist* di Abts, fingendosi turisti interessati ad alloggiare in una delle stanze offerte sulla piattaforma, si sono inseriti in una delle tante case trovate negli annunci che erano collegabili a multiproprietari o amministratori professionisti e da lì hanno fatto partire importanti azioni di denuncia.

La prima finalità era quella di mettere a nudo un sistema che non è fatto per l’infinità di persone che vivono in condizioni di precarietà e cercano un modo per arrotondare lo stipendio, né pensato per ridurre l’impatto ambientale e sociale del turismo di massa, ma che si presta ad essere un ulteriore strumento speculativo a favore di pochi, dei soliti pochi. Sono i multiproprietari che da AirBnb traggono il maggiore profitto, potendo godere di un regime fiscale particolarmente favorevole se non, come avviene nella maggior parte dei casi, eludibile. Inoltre sono proprio coloro che mettono più annunci (e chiaramente chi ha più case potrà metterne di più) che godono di maggiore visibilità nel sito, riducendo ulteriormente le possibilità di chi usa la piattaforma per fini non speculativi. Da qui il nome #UNFAirBnb, capace di porre il focus sulla natura estremamente iniqua della piattaforma.

Ma le azioni appena illustrate non sono servite solo a smascherare i meccanismi che fanno di AirBnb, così come di molte altre piattaforme digitali, un business appetibile. Ad esse va riconosciuto il merito di aver contribuito a mostrare le lacune legate all’applicazione della normativa esistente sulla piattaforma. Infatti, nonostante l’Ajuntamento de Barcelona preveda un sistema di ispettorato che vigili su eventuali irregolarità da parte della piattaforma, tale sistema è fortemente depotenziato da tutta una serie di limiti che tralascio soffermandomi solo su uno di questi: affinché l’ispezione abbia luogo, devono essere coloro che alloggiano ad aprire la porta agli ispettori. Dal momento che AirBnb istruisce i suoi ospiti rispetto a questa evenienza indicando di non aprire la porta, il sistema di ispezione viene fortemente svilito della sua capacità di intervenire. L’ABTS, attraverso queste azioni di protesta, è invece riuscito dall’interno dell’appartamento a far intervenire l’ispettorato e a denunciare tali professionisti della speculazione. Inoltre questa mobilitazione èriuscita anche a portare a galla la questione relativa all’utilizzo illegale della licenza HUT (habitatge d’ùs turìstic) negli annunci. In questo senso il ruolo di attivisti/e locali si è rivelato centrale nel mostrare le reale natura della piattaforma.

Accanto alle azioni di denuncia è inoltre bene ricordare la presenza, da diversi anni, di una più ampia attività di sensibilizzazione della comunità locale rispetto alle criticità del turismo di massa. Basti pensare alla campagna StopCreuers contro le grandi navi da crociera, la campagna NoEnsFaranFora contro la gentrificazione ed altre lotte intrecciate a questa mobilitazione. La campagna di protesta contro AirBnb e le altre accommodation plaftorms si inserisce in un più ampio discorso di rivendicazione della città sempre più sottoposta ad un processo di sottrazione e capitalizzazione di spazi e attività. Barcellona giorno dopo giorno sta cambiando il volto e i volti che la attraversano. Un dato esplicativo di questo processo ce lo offre il quartiere Gotico, ad oggi abitato per metà da residenti e per metà da turisti. Una cifra che sembra però in continua trasformazione a favori di quest’ultimi (Cocola-Gant 2016). Interi quartieri stanno modificando la loro geografia: il Blai (strada centrale del barrio di Poble Sec) è diventato un susseguirsi di bar che vendono tapàs e sangria, nonostante entrambe le cose non facciano parte della tradizione culinaria barcellonese ma siano diventati un must per ogni turista. La Rambla è diventata una patetica passerella in cui fare a spintoni tra camerieri vestiti con “tipici indumenti spagnoli” che invitano a provare la “tipica” paella e grupponi di turisti in posa per un selfie. La Boqueria, storico mercato a lato della Rambla, è divenuta una vetrina. Park Güell è stato recintato e l’accesso ad alcune aree del parco è subordinato al pagamento di una quota. I mezzi di trasporto sono sovraffollati. La stessa toponomastica della città va a modificarsi cancellando, almeno nell’immaginario, l’esistenza di alcuni quartieri inglobati dentro un più generico Gotico, un Born, o uno di quei quartieri che richiamano visitatori.

Sempre più strade, piazze e quartieri stanno cambiando: là dove vi erano spazi di socialità e aggregazione per coloro che li vivevano oggi si vanno sostituendo luoghi di consumo, fatti a misura per l’intrattenimento del turista.

Nonostante una strategia comunicativa volta a presentare AirBnb come un modello di turismo sostenibile, volto a redistribuire ricchezza a favore delle aree più periferiche della città e delle classi meno abbienti, questa mobilitazione ha costretto a fare i conti con una realtà ben diversa da quella confezionata e presentata al pubblico e ha mostrato come AirBnb sia l’ennesima piattaforma orientata all’accumulazione di capitale.

Il caso di Barcellona è da una parte esplicativo del modo in cui il capitalismo digitale agisca, dall’altra però offre spunti di riflessione che ci interrogano e prospettive di lotta ad un modello, quelle delle piattaforme, capace di trovare nuovi spazi di profitto che si traducono per noi in nuovi spazi di sfruttamento e sottrazione.