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Dall’autoformazione all’autovalorizzazione

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di COMMONWARE

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Radicarsi dentro l’università o abbandonarla? La domanda – che gira in modo ricorrente dentro i movimenti, soprattutto quando non ci sono – rischia di essere fuorviante. Rischia, in altri termini, di portare a una velleitaria scelta tra piccole vertenze prive di prospettive e un’illusoria autorganizzazione priva di rapporti di forza. Dobbiamo perciò trovare le strade per spiazzarla radicalmente, allo stesso modo in cui abbiamo posto il problema di sfuggire al falso dilemma tra europeisti a prescindere e anti-europeisti nostalgici.

Partiamo da un dato di fatto: ad abbandonare l'università, da alcuni anni, sono svariate migliaia di giovani. Del resto, quando sono stati diffusi i dati del Cun, con i 50.000 immatricolati in meno, non ci siamo certo sorpresi. La crisi dell’università globale e la dismissione di quella italiana sono da molto tempo per noi ben più che un’ipotesi: si tratta ormai di una tendenza dispiegata. E nient’altro che sferzante ironia meritano quei rettori che parlano di una Caporetto degli atenei, come se la disfatta non avesse responsabili con nomi e cognomi. E tuttavia, sappiamo altrettanto bene che individuare la tendenza non è sufficiente. Il problema politico è come agire su di essa. Per affrontare la questione, facciamo un passo indietro per poi provare a farne due in avanti.

La battaglia persa...

Se vogliamo trovare un nome per riassumere il punto di arresto dell’Onda, eccolo: meritocrazia. L’errore è stato trattarla come mera ideologia, che bastava decostruire o a cui si poteva rispondere con un’altra ideologia. Come già accennato nello scorso editoriale, invece, il problema era – e in parte è ancora – cogliere l’ambivalenza specifica dell’inquietante claim meritocratico, tra pulsione giustizialista e confusa istanza di classe. Insomma, dopo aver compiuto l’opera di demistificazione e averne afferrato il nocciolo materiale, fatto di precarietà e declassamento, non siamo stati in grado di rimontare quell’istanza in una direzione radicalmente opposta. L’arretramento sulla difesa del pubblico da parte di alcuni pezzi di movimento, anziché rappresentare un allargamento del consenso, è al contrario stato identificato – non senza buone ragioni – con la difesa dei poteri costituiti del pubblico. Così, abbandonate pratiche e parole d’ordine costituenti, il campo è stato occupato dall’invocazione di giudici e manette per vendicarsi di baroni e corrotti.

Nel giro di soli due anni, fino ad arrivare al “No Gelmini” e al 14 dicembre 2010, le cose sono velocemente cambiate, al ritmo di una crisi che morde sempre più ferocemente e di nuovi soggetti che iniziano a prendere parola – quelli che abbiamo definito precari di seconda generazione. Il claim meritocratico ha perso di valore e senso per chi fa difficoltà a pensare che un manipolo di corrotti gli o le abbia rubato il futuro, non fosse altro perché del futuro non ne ha mai avuto nemmeno un racconto. L’uno su cento che lavorando duro e rispettando le regole del gioco riesce a meritarsi carriera e ascesa sociale, il precario di seconda generazione non l’ha mai conosciuto. Al contrario, è circondato da storie di quelli che per il sistema sono “fallimenti”, mentre declassamento e precarietà non sono una possibile amara scoperta ma un sicuro dato di partenza.

In questo breve e intenso lasso di tempo, tuttavia, si è consumata anche quella che dentro le università era stata la pratica centrale di costruzione di autonomia e conflitto negli anni zero: l’autoformazione. Paradossalmente, è entrata in crisi nel momento in cui è divenuta movimento di massa, incarnandosi cioè nel distacco dalle istituzioni pubbliche. A quel punto, però, o quella pratica riusciva a porre una questione di “doppio potere” dentro e contro le università, oppure era ridotta ad arma spuntata. Sappiamo come sono andate le cose. A partire da qui, è chiaro che l’intervento politico nell’università e più in generale sui saperi va probabilmente non solo ripensato, ma reinventato.

...e la guerra aperta

In questa direzione, è importante capire perché vi è una ancora numericamente contenuta ma crescente tendenza all’abbandono dell’università (trend riscontrabile a livello transnazionale, a conferma che al di là delle peculiarità del caso italiano non stiamo affatto parlando di un’incomparabile anomalia). Cerchiamo di capire, dunque, le ragioni di chi sceglie di stare fuori. Senza dubbio, in una situazione di costante impoverimento, le difficoltà economiche costituiscono una spiegazione: non si tratta solo delle tasse universitarie, ma delle spese legate ai servizi, dalla casa al cibo ai libri. E tuttavia, non crediamo che la spiegazione sia esaustiva, soprattutto che si possa parlare di un ritorno a tradizionali meccanismi di esclusione – il che avrebbe come conseguenza politica una rinnovata battaglia per l’inclusione. Il dato più rilevante è probabilmente che l’università perde di valore innanzitutto per chi vi è incluso, e di conseguenza si smarrisce ogni attrattiva per chi deve decidere se entrarvi o meno. Valore va qui inteso in un doppio significato: a consumarsi è il valore della forza lavoro e il valore in quanto senso dell’esperienza formativa e universitaria. Sul primo aspetto abbiamo più volte insistito, ora dobbiamo mettere altrettanto in rilievo il secondo.

Il Bologna Process ha intensificato i ritmi e polverizzato i saperi, attaccando quelle forme di socialità e circolazione delle conoscenze che non erano un corollario, bensì al centro dell’esperienza universitaria. Il termine neo-taylorismo è perlomeno equivoco, perché richiama l’idea di una continuità lineare che è invece necessario mettere in discussione, politicamente prima ancora che sociologicamente. Su quella supposta continuità, infatti, si adagiano forme di organizzazione e rappresentanza oggi inutilizzabili o a noi apertamente avverse. Detto questo, non dobbiamo cadere nell’errore specularmente opposto, quello cioè di immaginare una funzione per natura espansiva e progressiva dei saperi in quanto tali. Ciò a cui assistiamo è una banalizzazione delle conoscenze, funzionale alla produzione di soggettività conforme prima ancora che alle esigenze della flessibilità lavorativa. O per dirla in altri termini, la produzione dell’“uomo precario” precede e innerva la precarietà. Ecco perché, lungi dall’essere la soluzione, l'inclusione è in realtà il problema.

Ovviamente, dentro questa tendenza complessiva ci sono differenze da inchiestare e comprendere: non è la stessa cosa essere iscritti a una facoltà umanistica oppure scientifica, in un ateneo oppure in un altro, per non parlare della condizione sociale di provenienza. Cosa succederà, però, nel momento in cui le illusioni legate ad alcune specializzazioni (spesso popolate da una composizione proletaria alla ricerca di un riscatto sociale) si scontrano con la materialità dei processi di declassamento e perdita di senso? Ecco che a questo punto potremmo rovesciare la domanda sul perché delle non iscrizioni e chiederci invece perché ancora ci si iscrive a un’università segnata da questa doppia perdita di valore. Le risposte non le conosciamo: magari c’è chi ha deciso di consumare gli ultimi residui del welfare famigliare e chi pensa di poter rinviare di qualche anno il duro confronto con precarietà e disoccupazione, chi conserva qualche speranza di mobilità sociale e chi vuole trovare qualche residuo spazio di socialità e circolazione dei saperi. Non è difficile ipotizzare che a questo livello sia necessario cercare forme di resistenza diffuse, sotterranee e ancora incapaci di essere collettive, da cui dobbiamo partire per reinventare le pratiche di intervento politico.

Siamo così ritornati all’interno dell’università. Come tracciare da qui delle linee di fuga costituenti senza abbandonarla, cioè in grado di comporre chi ha deciso di stare dentro e chi ha deciso di stare fuori?

Situarsi sulle frontiere

L’autoformazione era pensata e praticata dentro un’università in cui la tendenza alla crisi era già leggibile ma non del tutto compiuta. Era situata nel colpo di coda dell’espansione delle istituzioni formative, delle terminali promesse di mobilità sociale, degli ultimi pezzi e poi via via brandelli di illusione. Ora la sfida rimane per certi versi la stessa: dobbiamo andare oltre la divisione tra produzione, trasmissione, circolazione e consumo dei saperi. Non serve declinare il tema in termini ideologici – per esempio con la trita questione della frontalità o meno delle lezioni, o della forma geometrica della disposizione in un’aula di chi parla e di chi ascolta, come se l’orizzontalità fosse un dato di partenza e non la posta in palio, come se il capitalismo non si sviluppasse attraverso la produzione di ineguaglianze e gerarchie. Il problema è allora costruire un nuovo processo di cooperazione e produzione dei saperi, fondato sul comune. A cambiare sono però le coordinate dentro cui questo problema si colloca. Il processo di cooperazione deve estendersi sul piano metropolitano e utilizzare l’università come luogo di intensificazione politica. Deve, soprattutto, rompere e rovesciare la perdita di senso dell’esperienza formativa.

Facciamo un’ipotesi, da sostanziare di sperimentazioni e approssimazioni pratiche: il compito è passare dall’autoformazione all’autovalorizzazione. Dobbiamo quindi dare forma organizzativa ai saperi prodotti in modo cooperativo, costruire nuovo senso dell’esperienza formativa nel suo complesso, aggregare in spazi comuni chi è all’interno e chi è all’esterno dell’università (perché non vi entra o la abbandona, oppure perché ne è uscito e si trova a fare i conti con l’inutilità di un pezzo di carta acquisito in mezzo alle macerie). Come una studentessa e un medico precari, un ricercatore e una laureata che campano di lavoretti, un operaio cognitivo o di fabbrica, un artista e una smanettona che all’università non ci sono mai andati, costruiscono uno spazio comune in cui valorizzare e ripensare i propri saperi, crearne di nuovi, mettere collettivamente in discussione le collocazioni che occupano nella gerarchia tecnica del lavoro? Passare all’autovalorizzazione significa non più solo mettere in discussione le forme di organizzazione della conoscenza dentro un luogo determinato, l’istituzione universitaria, ma affermare che tanto quelle conoscenze quanto quel luogo sono ormai svuotati. Non significa esclusivamente produrre nuovi saperi, ma rifiutare quelli esistenti, la banalizzazione attraverso cui si veicola l’assoggettamento. Significa, ovviamente, porsi immediatamente il problema della riappropriazione di reddito e welfare. Come già era per l’autoformazione, anche in questo caso il prefisso “auto” è pregno di ambivalenza, dentro il rapporto storicamente determinato tra retorica neoliberale e autonomia della cooperazione, tra individualismo e comune. Dobbiamo collocarci all’interno di questa ambivalenza, scioglierla dentro la formazione di autonomia, combinare rottura e processo costituente. Ecco, forse, la strada con cui possiamo immaginare di ricomporre in positivo la critica radicale alla meritocrazia.

Tutto ciò, per tornare alla questione iniziale, non lo si può fare stando esclusivamente dentro l’università, difendendo cioè le ultime vestigia di un pubblico ormai completamente privatizzato; non lo si può certamente fare stando fuori, abbandonando così uno spazio di condensazione della forza lavoro e di possibile applicazione della forza. Ecco perché dobbiamo situarci sulle frontiere tra università e metropoli. Queste frontiere sono già state rese porose dalla circolazione del sapere vivo e dei dispositivi di cattura del capitale. Queste frontiere possono divenire il luogo della costruzione di autonomia. Qui si possono aggregare le linee di fuga verso l’esterno e accumulare forza per colpire all’interno, e viceversa.

“Dove loro distruggono, noi costruiamo” recita lo slogan dell’Ex-Cuem di Milano. Ecco, è esattamente questa la strada.