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E se portassimo l’amaca nel cortile di una scuola?

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Appunti di inchiesta di Anna Curcio su scuola, studenti e lavoro

Dire, da una posizione classicamente perbenista di sinistra, che il comportamento dello studente di Lucca sia da ricondurre a una questione di mala educación in capo a proletari o ceti popolari, non è soltanto classismo, vuol dire non avere la benché minima idea dei processi di trasformazione della scuola, del lavoro e della composizione sociale. La scuola, invece, ha proprio l’involontario vantaggio di essere un efficacissimo punto di osservazione dei cambiamenti che interessano i giovani, le famiglie, i comportamenti. Se dunque, al di là di retoriche demagogiche, spostiamo lo sguardo su ciò che accade quotidianamente nelle scuole e tra i cosiddetti “millennials”, possiamo scorgere comportamenti inediti, che prima di deprecare moralisticamente sarebbe bene comprendere materialisticamente. Ma questo, ovviamente, è un problema che riguarda chi questo mondo lo vuole trasformare, non chi sonnecchia compiaciuto sulla propria amaca ai Parioli.

Per restare su un argomento di scottante attualità nella scuola ma aprendo evidentemente un altro piano di riflessione, un’analoga debolezza nel pensare la scuola a partire dai cambiamenti che l’attraversano può essere registrata in quegli ambienti di “movimento” che sostengono, con frustrata convinzione, che gli studenti che non si oppongono coscientemente all’alternanza scuola-lavoro siano degli emeriti imbecilli, soggetti deboli alla mercé dell’ideologia capitalistica. È come se, per pigrizia o per opportunismo, ci si rassegnasse all’inevitabilità di riutilizzare continuamente i logori arnesi di una cassetta degli attrezzi che non funziona più, rinunciando a inventarne di nuovi all’altezza dei processi dentro cui – ci piaccia o meno – siamo collocati. Anche a costo di dire che sono i nuovi processi a essere sbagliati.

La proposta è qui invece quella di rovesciare il nostro modo di guardare, e cominciare a chiederci se non siano le nostre chiavi concettuali e interpretative a essere sbagliate o quantomeno carenti. Proviamo ad esempio a domandarci: e se l’apparente accettazione dell’alternanza scuola-lavoro o il disprezzo per le regole negli inquietanti comportamenti di Lucca, fossero innanzitutto il segno della perdita di senso della formazione? Così l’alternanza da una parte e l’arrogante rifiuto delle regole dall’altra diventano espressioni (problematiche, perverse o corrotte finché si vuole) di un senso perduto. Del resto, cos’è la formazione se non, con le parole di Romano Alquati, la riproduzione della capacità umana che si fa lavoro e dunque merce, che poi è l’unica cosa che interessa al capitale? In questo senso, la formazione è già lavoro nella misura in cui produce e riproduce merci: la merce-sapere, e soprattutto quella speciale merce che è, appunto, la capacità umana lavorizzata. Una merce, tra l’altro, in Italia particolarmente devalorizzata o in buona misura “rottamata”. Al contempo, l’esperienza formativa è lavoro anche perché è organizzata come lavoro: ne siano misura la valutazione della prestazione, le aspettative rispetto al conseguimento degli obiettivi, la gerarchizzazione del valore convenzionale delle credenziali educative, il ranking della singola scuola e così via.

Per dirla chiaramente: l’impressione è che, nel concentrarci esclusivamente sul lavoro classicamente inteso, abbiamo finito per perdere di vista la lavorizzazione della formazione. E così facendo, nell’attaccare – giustamente – il lavoro nelle aziende, difendiamo – sbagliando – il lavoro nella scuola. Si potrebbe dire, in altri termini, che l’alternanza è lavoro-lavoro. Lo studente conosce la perdita di senso di quello che fa quotidianamente nelle mura dell’istituzione scolastica e spesso, per fuggirne o allontanarsene per qualche ora a settimana, accetta di andare a fare cose (altrettanto senza senso) nelle imprese.

C’è da parte degli studenti illusione di quello che troveranno nelle imprese? Forse per alcuni sì, e qui bisognerebbe approfondire l’inchiesta in casi specifici. Ma complessivamente l’impressione è che l’opzione della fuga temporanea prevalga sull’idea dell’investimento propagandato dalle retoriche aziendaliste. E per converso, sia detto per inciso, la maggior parte delle aziende (fatta eccezione per limitati casi territoriali) utilizzano l’alternanza in funzione parassitaria, cioè per spremere direttamente o indirettamente soldi e risorse allo Stato, più che per estrarre lavoro gratuito dagli studenti (solitamente visti come un ingombro, inutili da formare, incapaci rispetto alle funzioni che dovrebbero svolgere, e neppure licenziabili).

Così, se chiedi a uno studente: “ma lo sai che l’impresa ti sfrutta e si arricchisce con il lavoro che tu presti a titolo volontario?” Non è detto che la risposta sia sempre quella di stampo lavorista che suggerisce il senso comune, almeno quello “di movimento”: “lo faccio per acquisire competenze e se lavoro bene poi possono essere assunto”. Al contrario e in modo comunque diverso dalla tradizionale etica del lavoro, le risposte sono più spesso: “almeno in azienda ho l’impressone di fare qualcosa di immediatamente utile”, “andando in azienda spezziamo la monotonia e la scuola diventa un po’ più sopportabile”, “con le ore di alternanza la mole di studio soprattutto in alcune materie si riduce notevolmente”. Oppure, come mi è capitato (più per curiosità di ricerca che per convinzione) incalzando una brillante studentessa di terza superiore di un istituto tecnico sulle supposte virtù del sapere critico offerto dalla scuola messo in discussione dalle ore in azienda, puoi sentirti rispondere quasi a mo’ di sberleffo “ma se quest’anno dovrò studiare per la terza volta nella mia vita la rivoluzione francese, più che sapere critico vedo tante nozioni continuamente ripetute”. Ora, senza nulla togliere alla portata rivoluzionaria degli eventi del luglio 1789, come dare torto a considerazioni di questi tipo?

Pur nella loro semplicità, le risposte degli studenti restituiscono un quadro diverso da quelle letture che nell’accettazione dell’alternanza scuola-lavoro vedono soggettività assoggettate al capitale, incapaci di resistere alla servitù, sfruttati e contenti. Dalle loro parole emerge qualcosa di molto diverso, un’istintiva messa in discussione della scuola così com’è. Attenzione, non si sta parlando di un’opposizione consapevole ed esplicita, di quelle che piacciono al pigro “noi” di movimento. Si sta tentando di scavare sotto la spessa coltre dell’apparente accettazione, provando a indagare se lì si agitano possibilità e comportamenti aperti a molteplici direzioni.

Quanto al tema della gratuità che ha orientato finora le parola d’ordine dei gruppi di movimento (con risultati piuttosto modesti), se la formazione è già lavoro e la scuola è la fabbrica della riproduzione delle capacità soggettive umane per il lavoro, lo studente che a scuola produce la sua capacità al lavoro sta già lavorando gratuitamente. Insistere esclusivamente sulla gratuità del lavoro nei progetti di alternanza rischia di direzionarci verso un atteggiamento sindacale che punta soltanto a valorizzare la vendibilità sul mercato della nostra merce peculiare, la capacità-attiva-umana. Ma se non ci caliamo nella dura ambiguità dei comportamenti concreti, finiamo per rifugiarci ancora una volta nelle inutili convinzioni dell’autoreferenzialità. E l’alternanza realtà-ideologia è deprecabile quanto quella scuola-lavoro. Tra l’altro, il precetto per cui il lavoro va pagato è tanto moralmente bello quanto storicamente falso: sono sempre state le lotte e il ricatto dei lavoratori a imporre al padrone di pagare in modo più o meno caro l’estrazione di plusvalore.

Va anche detto che i millennials, che qualche anno fa definimmo “precari di seconda generazione”, sono una figura che con il lavoro per come lo abbiamo conosciuto ai tempi del suo rifiuto di massa ha ben poco a che fare, nel bene e nel male. Nel senso che se tuo padre lavora in fonderia e tua madre fa i turni di notte in fabbrica per trent’anni, hai ben chiaro il senso della fatica e della violenza del lavoro; ma quando l’universo del posto fisso e del lavoro è qualcosa di molto più sfumato e cresci in una famiglia precaria, leggi la fatica e la violenza piuttosto dentro l’insicurezza che accompagna la discontinuità del lavoro. E le potenziali espressioni di rifiuto assumono altre caratteristiche.

Allora, sia detto ancora a scanso di equivoci, non si tratta di assumere questi comportamenti come immediate espressioni di rifiuto e conflitto (così come, del resto, non si può enfatizzare i pochissimi ancorché meritevoli esempi di opposizione esplicita all’alternanza come paradigmi di un movimento che non c’è). Il punto è che se la linea retta per attaccare l’alternanza lavoro-lavoro non funziona (quella che sostiene che non si può lavorare gratis), è indispensabile tracciare una curva che passa per comportamenti ambigui, confusi, perfino inquietanti. E lì dentro iniziare a individuare le possibilità di rovesciamento. Non solo perché i comportamenti giovanili, nella loro apparente insensatezza, riflettono la mancanza di senso di questa società e della scuola, ma soprattutto perché negandoli o ignorandoli si rischia di perdere di vista la loro politicità intrinseca. D’altro canto, il rifiuto del lavoro non è mai stato espressione immediatamente antagonista e priva di ambiguità: è sempre stato il suo divenire forma collettiva e organizzata dell’autonomia di classe a trasformare quella politicità intrinseca in forza rivoluzionaria esplicita.