Stampa

Attaccare il governo della crisi

on .

0. Il goffo tentativo dell’uscente governo Pd di presentarsi come baluardo democratico di fronte all’avanzata neofascista – nonostante l’estrema indulgenza e in alcuni casi la diretta connivenza con le organizzazioni della destra radicale – è stato spiazzato dalle intense settimane di mobilitazioni antifasciste nelle settimane a cavallo delle elezioni del 4 marzo. Le piazze e i cortei hanno cioè in buona misura scavalcato il tentativo di legittimazione politica con cui la dirigenza democratica pensava di riconquistare il consenso elettorale, spacciandosi come forza antifascista responsabile.

In questo breve lasso di tempo abbiamo, intendendo con questo “noi” chi si è speso nella battaglia antifascista, costruito un piccolo patrimonio di mobilitazione che non può essere disperso ma che al contrario va alimentato e rilanciato. Questo patrimonio ci sembra infatti necessario ma non sufficiente. Attaccare il governo della crisi, è questo il compito che ora abbiamo di fronte. È questa l’indicazione che possiamo trarre dalla tornata elettorale che ha espresso, in forme ambigue e inquietanti a volte con tratti nazionalisti e razzisti, un rifiuto che è risultato maggioritario contro l’establishment neoliberale, in linea d’altronde con una più ampia tendenza europea. Questo esito elettorale non produrrà certamente nessuna rottura nell’architettura europea – con il M5S a coprire il ruolo di forza neocentrista pur con qualche contraddizione – ma è altrettanto vero che un rifiuto, ancorché sul piano elettorale, così ampio e generalizzato della stabilità neoliberale ci segnala l’apertura di uno spazio di azione potenzialmente ampio, ci consegna una condizione necessaria ma ovviamente non sufficiente per una politica antagonista. Allo stesso tempo ci costringe a guardare in faccia la “nostra” incapacità di fare i conti con la composizione sociale prodotta dalla crisi che si è espressa con questo voto.

1. Troppo spesso per orientarci davanti alle manifestazioni reazionarie e razziste, di questa composizione sociale, ricorriamo alla dialettica consunta tra destra e sinistra, oppure a quella ancora più logora tra autoritarismo e democrazia. Categorie che se da un lato non sono mai appartenute al “nostro” armamentario teorico-politico, dall’altro hanno esaurito la loro capacità interpretativa: se non per noi sicuramente per pezzi consistenti di composizione sociale. Peggio ancora, il loro uso condiziona la scelta dei nostri posizionamenti politici costringendoci a schierarci con uno dei due poli dialettici e quindi ad adottare una razionalità da frontismo democratico. Da cui la radicalità delle pratiche di piazza non consente certamente di sfuggire. Oggi il nostro problema è invece il governo della crisi alimentato continuamente proprio dalla dialettica tra fronte democratico e opzione reazionaria. Occorre quindi prima di tutto spezzare la logica frontista perché è funzione del governo della crisi, è cioè parte del problema e non della soluzione.

2. Quando diciamo governo della crisi indichiamo un dispositivo politico di frammentazione e mobilitazione della composizione sociale, che insiste anche su una linea del colore. Da un lato della linea si posizionano gli impoveriti, dall’altra i poveri razzializzati. I primi, vengono mobilitati e si mobilitano contro i secondi nell’illusione di potersi tutelare da un ulteriore declassamento. Per sabotare il governo della crisi occorre quindi trasformare questo dispositivo di separazione e di mobilitazione reazionaria in un elemento di ricomposizione. E tuttavia per farlo bisogna liberarsi della logica frontista e dell’antirazzismo umanitario che paradossalmente, anche se con un segno diverso, contribuiscono a riprodurre la stessa frammentazione della composizione sociale. In prima battuta è quindi necessario evitare una lettura superficiale e banalizzante del “populismo” leghista e cinquestellato, tipica della sinistra supponente ma altrettanto cadaverica, perché rischiamo di consegnare i corpi sociali che hanno subito il declassamento della crisi ai nostri nemici. Il “populismo” (parola che usiamo semplicemente per intenderci, avendo già più volte evidenziato la sua vacuità), con marcate differenze tra quello leghista e quello del M5S, come abbiamo spesso scritto è anche l’espressione politica della lunga crisi di mediazione del ceto medio. Dopo la fine del blocco socialista, il “salario dell’ideale” che fissava la sua co-appartenenza politica alla classe capitalistica, ottenuto sostanzialmente tramite rendita politica (svalutazioni competitive, premio previdenziale, negligenza benevola in materia fiscale, protezione dell’impiego, ecc.) è diventato un costo non più sostenibile, se non addirittura inutile con la fine del ciclo di lotte sociali e operaie che ha reso superflua la sua funzione di mediazione del conflitto di classe. Oggi, ciò che resta di questo pezzo di società sta lentamente scomparendo sotto i colpi della crisi. Allo stesso modo chi a partire dagli anni Ottanta e Novanta aveva alimentato la propria strategia di arricchimento e “cetomedizzazione” cavalcando il progetto di diffusione della proprietà e della forma-impresa (contraltare dell’erosione delle garanzie pubbliche) si sta scontrando con la fine di questo modello neoliberale. L’ascesa dei movimenti “sovranisti” o “populisti” ha molto a che fare con l’autodifesa di questi ceti, e tuttavia ritenere che queste frazioni di composizione sociale siano definitivamente catturate dentro il dispositivo proprietario o che siano ontologicamente di destra, è un errore strategico che non ci possiamo permettere. D’altro canto non si può pensare la soggettività politica in termini troppo rigidi e deterministici: in via generale perché il dispiegarsi della lotta apre sempre forme inedite di soggettivazione; in via particolare perché abbiamo di fronte fenomeni sociali fluidi e aperti ed una composizione ambivalente, fortemente pragmatica e post-ideologica. E d’altronde cosa può succedere se la proprietà per cui si mobilitano questi pezzi di composizione sociale non può essere ripristinata? È questo l’ordine dei problemi che ci dobbiamo porre se vogliamo rendere gli smottamenti prodotti dalla crisi un’opportunità politica, se vogliamo sottrarre territori sociali alle destre.

3. In seconda battuta, l’attacco al governo della crisi è necessariamente subordinato al superamento dell’antirazzismo umanitario. Di fronte alla violenza dei confini sui corpi dei e delle migranti, di fronte alle retoriche razziste della destra e dei nuovi “populismi”, abbiamo reagito battendoci per allargare le maglie dell’accoglienza, in alcuni casi addirittura disponendo progetti dal “basso” per i rifugiati e le rifugiate. O ancora muovendoci sul piano dei diritti, come nel caso dello ius soli. Oggi questo approccio non è più sufficiente, se mai lo è stato, per ribaltare i rapporti di forza perché ha manifestato tutti i suoi limiti. Non ci ha infatti permesso di sottrarci alla logica volutamente emergenziale del governo delle migrazioni; ha contribuito a riprodurre la stessa differenziazione istituzionale tra rifugiati e migranti che invece proprio la nostra produzione teorica e la nostra pratica politica avevano già da tempo positivamente contribuito a dissolvere. Questo antirazzismo è in fondo funzionale allo stesso governo della crisi perché riproduce la separazione tra poveri razzializzati e impoveriti presentando, specularmente al razzismo, i primi come vittime dei secondi. Il soggetto razzializzato è in questo modo vittimizzato e inferiorizzato, diventa la figura centrale di una militanza che stratifica e gerarchizza tra chi dà e chi riceve solidarietà. E soprattutto è un antirazzismo che disincarna i migranti dalle condizioni materiali di esistenza, che non nomina la razza o se lo fa la riduce a banale vizio ideologico, che assume il punto di vista liberale e mistificante dell'uguaglianza astratta. Occorre cambiare radicalmente registro e nominare la razza perché struttura materialmente le gerarchie di classe. Bisogna cioè portare al centro del discorso antirazzista non più i diritti ma la lotta per migliori condizioni di vita per migranti e non perché è l’unico modo per ricomporre ciò che il capitale segmenta lungo la linea del colore. Nominare la razza significa dunque farne il punto di innesco di lotte contro il governo della crisi, assumerla come una parzialità forte in grado di comporsi con altre forze. D’altronde il razzismo materialista della Lega di Salvini vince proprio perché aggancia con un segno reazionario la razza ad una illusoria “lotta” contro l’impoverimento.

4. Ci sembra dunque che molte delle categorie dialettiche che oggi utilizziamo siano in buona misura esaurite o comunque inadeguate per comprendere e intervenire nella fase attuale. Spesso finiscono addirittura per schiacciarci sulla difesa di un supposto meno peggio, fagocitati dalle “urgenze” continuamente prodotte dalla cronaca politica e mediatica del quotidiano. Per esempio, di fronte all’urgenza reazionaria del “populismo” dobbiamo attestarci su sinistre posizioni democratiche. Come se l’attacco al Partito Democratico fosse un lusso che di questi tempi non ci possiamo più permettere. Come se il problema fosse semplicemente la reazione e non il governo democratico della crisi, l’effetto e non la causa. Ciò ci porta inevitabilmente ad assumere una posizione subalterna alla sinistra istituzionale, o a quello che ne rimane – “codismo”, lo si sarebbe chiamato in un tempo lontano. Una posizione che punta alla sopravvivenza e riproduzione del ceto politico (in questo caso il nostro), indifferente alla materialità della composizione sociale e di classe, perché troppo dura e ambigua per le nostre forze e capacità. Una posizione, tra l’altro, che si riempie la bocca di europeismo e internazionalismo, senza accorgersi che quello che sta avvenendo in Italia è – come già accennavamo all’inizio – all’interno di una linea di tendenza europea e internazionale. Bella o brutta che sia, qui siamo. Hic Rhodus, hic salta – diceva il barbone.

Sia detto per l’ennesima volta, a scanso di malevoli equivoci: soffermarci come continuamente facciamo sulle ambiguità delle espressioni soggettive di classe, non significa affatto giustificarle o accettarle, né tanto meno assumerle come programma politico. È ovvio che il “popolo” non ha sempre ragione. Il punto, però, è che non ci pare che sia vero il contrario, cioè che ad aver sempre ragione siano le nostre convinzioni indipendentemente dalle espressioni soggettive di classe: questa si chiama ideologia, malattia che diventa particolarmente diffusa e contagiosa nel momento in cui le bussole politiche impazziscono. Una prospettiva rivoluzionaria, allora, non può che ricostruirsi a partire da questa capacità di comprendere le ambiguità storicamente determinate, collocarvisi all’interno, e agire una linea di radicale rovesciamento. Con la tranquillità del metodo, la pazienza del progetto, l’inquietudine della ricerca.