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Genealogie e attualità di un lungo viaggio

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Laura Corradi recensisce "Reincantare il mondo" di Silvia Federici

Per parlare del libro di una femminista – in questo caso si tratta di una grande femminista – è buona cosa, come si diceva negli anni ’70 partire da sé …. Leggere questo lavoro di Silvia Federici per me è stato come un lungo viaggio verso casa – seguo e cito i suo scritti da più di trenta anni. Credo che sia importante sottolineare le genealogie del proprio pensiero – sia quelle ascendenti che quelle discendenti – chi non lo fa (e talvolta le femministe faticano a dare riconoscimenti ad altre donne …) mina quel bene comune che è la memoria e compromette il futuro: la possibilità di costruire alleanze forti contro il patriarcato nell’era del neoliberismo economico e della colonizzazione digitale degli immaginari collettivi – un fenomeno che riguarda in modo particolare i/le giovani, alle quali la lettura di ‘Reincantare il mondo’ raccomando vivamente.

Ci sono libri che cambiano la vita – per me il lavoro sulle streghe fatto da Silvia Federici – già ne ‘Il grande Calibano’ pubblicato all’inizio degli anni 80 fu fondamentale per le mie scelte politiche e di studio. Un punto di partenza importante, nel lavoro di Silvia Federici scoprivo una parte sconosciuta del medio-evo, le resistenze del corpo sociale ribelle nella prima fase del capitale – le lotte contro le recinzioni delle terre comuni - e i motivi strutturali della caccia alle streghe, fenomeno che Silvia rivisita in ‘Calibano e la strega’ (Ombre corte 2015) e dal quale ricomincia la sua analisi in ‘Reincantare il mondo’.

E’ da sottolineare la capacità di Silvia, in tutti i suoi lavori, di riportare la discussione critica dei fatti attuali alla loro dimensione storica – e di svelare la tendenza del capitale ad apprendere, sussumere ed inglobare funzionalmente idee e pratiche appartenenti ai movimenti sociali, snaturandole. Come scrive:
“Già dall’inizio degli anni novanta, la Banca Mondiale e le nazioni Unite si sono appropriate del linguaggio dei commons mettendolo al servizio della privatizzazione. Con il pretesto di proteggere la bio-diversità e preservare i “global commons”, cioè il patrimonio comune dell’umanità, la Banca Mondiale ha trasformato le foreste pluviali in riserve ecologiche, ne ha espulso popolazioni che per secoli ne hanno tratto il proprio sostentamento e le hanno rese accessibili a persone che non ne hanno bisogno, ma possono pagare, per esempio, con il turismo ecologico. Da parte loro, le nazioni Unite, sempre appellandosi alla necessità di preservare l’eredità comune dell’umanità, hanno modificato le leggi internazionali che regolano l’accesso agli oceani, permettendo ai governi di concentrare in poche mani l’uso dell’acqua del mare.” (p.119)

Come contrastare tali processi che paiono omni-pervasivi? Cercando di costruire teorie e pratiche antagoniste che non siano facilmente cooptabili ed utilizzabili dai dispositivi del dominio economico e sociale. Federici fa riferimento ad un testo importante di Peter Linebaugh, pubblicato dieci anni fa in California: The ‘Magna Carta Manifesto’ – sarebbe ora di tradurlo - mentre critica giustamente la teoria di Negri/Hardt sui commons poiché “non si interroga sulle basi materiali delle tecnologie digitali usate da Internet e trascura il fatto che i computer dipendono da attività economiche – estrazione mineraria, produzione di microchip, estrazione di minerali rari – che, per come sono attualmente organizzate, sono estremamente distruttive sul piano sociale ed ecologico-ambientale. Inoltre, privilegiando la scienza, la produzione del sapere e dell’informazione, questa teoria non affronta la questione della riproduzione della vita quotidiana. Questo vale, comunque, per tutto il discorso sui commons, che si è preoccupato soprattutto delle condizioni formali della loro esistenza, ma ha fatto meno attenzione alle possibilità che l’esistenza dei commons crea, e alla loro potenziale funzione nella costruzione di forme di riproduzione che ci permettano di resistere alla dipendenza dal lavoro salariato e alla subordinazione ai rapporti capitalisti.” (p. 123)

La parola d’ordine ‘Reincantare il mondo’ – l’ho notato più volte – è anche un compito politico quotidiano per ognuno/a di noi, poiché contrasta quella ‘razionalità weberiana’ dell’uso strumentale di ogni risorsa – che giustifica e incrementa l’individualismo egoista – e che predica il disincanto capitalistico dalla natura come evoluzione del genere umano. ‘Reincantare il mondo’ nella desolazione della sinistra italiana si presenta come un titolo antidepressivo: in quanto attivisti/e, eco-femministe, militanti antirazzisti/e talvolta ci sentiamo affondare in problemi che sembrano senza soluzione.

Come sociologa del corpo, sicuramente la parte che ho apprezzato di più è quella in cui Silvia Federici critica modalità accademiche alquanto ingessate e propone una rimaterializzazione del discorso attorno al corpo:

c’è comunque un’altra forma di impoverimento, meno visibile ma ugualmente devastante, che la tradizione marxista ha ignorato. È la perdita di poteri autonomi, individuali e collettivi. Mi riferisco a quel complesso di bisogni, desideri e capacità che si sono sedimentati in noi attraverso milioni di anni di sviluppo evolutivo in stretto rapporto con la natura e che costituiscono una delle principali fonti di resistenza allo sfruttamento. Mi riferisco al bisogno di sole, vento, cielo, al bisogno di toccare, sentire gli odori, dormire, fare l’amore, stare all’aria aperta invece di essere circondati da pareti chiuse (tenere i bambini chiusi in quattro mura è ancora in molte parti del mondo una delle principali sfide per gli insegnanti).”

Ma l’originalità del lavoro di Silvia Federici sta nel modo in cui è riuscita a declinare il dibattito sui commons in termini femministi – a partire dalle lotte delle donne, specialmente nelle Americhe e in Africa. Ma per quello che posso testimoniare, anche in India e nel sudest asiatico si vivono percorsi molto simili. Le sue lunghe ed appassionanti narrazioni connettono in maniera agile e, permettetemelo, incantevole, eventi del passato ed elementi presenti in cui si intravede il futuro – gli errori (anche strategici) commessi dai movimenti femministi e il loro superamento – in situazioni rurali ed urbane di mezzo mondo, dando a chi legge la possibilità di tracciare ponti e immaginare nuove possibilità – con una attenzione sempre allertata affinché le lotte per i nostri commons non danneggino quelle di altri popoli, avvertenza che spesso nelle teorie e nelle pratiche prodotte da compagni/e in area nord-atlantica non è tenuta in dovuto conto.

La separazione della produzione dal consumo ci induce a ignorare le condizioni in cui è stato prodotto quello che mangiamo, indossiamo o usiamo per lavorare, il loro costo sociale ed ecologico e il destino delle popolazioni sulle quali scarichiamo i nostri rifiuti. In altre parole, dobbiamo superare lo stato di diniego e irresponsabilità in cui oggi viviamo riguardo alle conseguenze delle nostre azioni, dovuto al modo distruttivo in cui è organizzata la divisione del lavoro nel capitalismo, altrimenti la produzione della nostra vita diventa inevitabilmente produzione di morte per altri. Come nota Mies, la globalizzazione ha peggiorato questa crisi, aumentando la distanza tra quello che viene prodotto e quello che viene consumato, e quindi aumentando, nonostante l’apparente crescita dell’interconnessione globale, la nostra cecità rispetto al sangue versato per il cibo che mangiamo, il petrolio che usiamo, i vestiti che indossiamo e i computer con i quali comunichiamo. La prospettiva femminista ci insegna a superare questa inconsapevolezza per dare inizio alla ricostruzione dei nostri commons. nessun comune è possibile infatti finché non rifiutiamo di vederci separati dagli altri. Se la nozione di “commoning” ha un significato, deve essere quello della produzione di noi stessi come soggetti comuni. Questo è il modo in cui dobbiamo intendere lo slogan “non c’è ‘commons’ senza comunità”. La comunità deve però essere intesa non nel senso di una realtà segregata, un raggruppamento cioè di persone unite da interessi esclusivi e separate dagli altri, come nelle comunità fondate su base religiosa o etnica. “Comunità” deve essere intesa come una qualità dei nostri rapporti, come principio di cooperazione e di responsabilità: tra di noi e rispetto alla terra, le foreste, i mari, gli animali.” (p. 126-7)

In una recensione non si possono affrontare le molteplici questioni trattate nel libro – ma vorrei concludere elencandone alcune che ritengo di particolare rilevanza: la centralità del lavoro di riproduzione, sia a livello economico che politico; la necessità di un discorso strategico in campo femminista di fronte alla crisi globale del sistema del profitto – che tende a produrre guerre; l’immiserimento materiale e simbolico di ampi strati di popolazione, fino agli etnocidi di interi gruppi, dovuti alle politiche economiche neoliberiste nel mondo; e l’urgenza di creare ovunque legami solidali di lunga durata perché ‘non ci sono commons senza comunità’.