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Quando i vincitori scrivono la storia dei vinti

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Un commento di Anna Curcio e Gigi Roggero su “Black Panther”

Che la storia la scrivano i vincitori, è una verità troppo nota per essere ripetuta. Soprattutto, è una verità che descrive solo parzialmente il nostro presente. Non ci credete? Andate a vedere le ultime produzioni del mondo Walt Disney. Un tempo, nel vivo dello scontro di classe, la divisione tra bene e male era netta, chiara, prevedibile: da una parte della barricata i buoni, dall’altra i cattivi. Maccartismo e cortina di ferro. Biancaneve e la strega cattiva. La bella e la bestia. E anche se non è direttamente targato Walt Disney, Anastasia e i truculenti bolscevichi. Poi, caduti i muri e proclamata la fine della storia, ma soprattutto invertiti i rapporti di forza tra le classi. E così si scopre che Malefica, la cattiva per eccellenza delle favole della tradizione europea, sta in fondo combattendo il re cattivo; quando non è proprio buona è semplicemente perché il re è proprio cattivo. Non è più necessario dare la caccia alle streghe: ora bisogna arruolarle nell’esercito dell’immaginazione al potere. Il potere del capitale, ovviamente.

Però non basta. L’industria della comunicazione si spinge più in là, penetra nel cuore profondo dei ghetti americani, al centro delle sue contraddizioni, dove aleggiano i suoi più truci fantasmi, e da lì prova a rovesciare di segno il significato di lotte e rivolte. Ecco Black Panther, un fumettone prodotto dai Marvel Studios e distribuito da Walt Disney. Un’operazione geniale. Una geniale operazione di guerra. Già, perché la guerra non si conduce solo combattendo frontalmente il nemico: a quello ci hanno pensato a suo tempo il programma Cointelpro dell’Fbi, gli assassinii, la droga. Né semplicemente puntando a decimarlo, attraverso le incarcerazioni di massa e le continue esecuzioni per strada da parte di poliziotti democratici. La guerra la si conduce, anche e forse soprattutto, recuperando il nemico alla propria narrazione, edulcorandone le istanze, frammentandolo per sussumerne una parte contro un’altra parte. Ecco, Black Panther è questo: la nostra storia riscritta dai vincitori.

La trama è densa e articolata, di grande effetto, a tratti perfino avvincente. Chi vuole conoscerla lo vada a vedere, su un livello filmico il fumettone merita. Noi qui la facciamo breve e ragioniamo su un altro livello, tutto politico. Perché da cima a fondo, è tutta politica la sostanza del film. Non a caso inizia a Oakland nel 1992, al tempo dei riot di Los Angeles, e a Oakland finisce ai nostri giorni, quelli infiammati dalla rabbia di Black Lives Matter. In mezzo, la storia di un luogo mitico, Wakanda, la riformulazione normalizzata dell’utopia del black power, e la storia di uno scontro, tra il re pantera nera T’Challa e l’usurpatore Erik. Wakanda è una nazione che vive nascosta nel ventre dell’Africa per custodire il preziosissimo vibranio, metallo immaginario dalle straordinarie possibilità, lascito dello schianto di un meteorite (come se fosse sempre e solo la natura a rendere potenti i neri). Agli occhi del mondo poverissima, Wakanda è dunque estremamente ricca. L’ambiente incontaminato cela una metropoli futurista che combina innovazione e tradizione, una società che apparentemente rovescia gli stereotipi di genere: la difesa del regno, ad esempio, è affida a fiere guerriere dotate di una speciale armatura che mescola la magia hi-tech del vibranio con i colori e l’estetica del supposto folclore africano. All’origine dello scontro l’uccisione da parte dell’ex re, genitore di T’Challa, del padre di Erik: questi, inviato dal suo sovrano nei luoghi della diaspora era diventato “estremista”, al fianco delle rivolte afroamericane. Aveva cioè “tradito” l’autarchica Wakanda, perché riteneva intollerabile che si possa restare chiusi nella propria isola felice mentre negli Stati Uniti e in giro per il mondo i neri vengono sfruttati e ammazzati come cani. Aveva così sottratto del vibranio alla sua nazione per armare gli afroamericani nella lotta per la propria libertà. È questa la strada portata avanti da Erik, il bambino cresciuto con la rabbia del ghetto nell’anima e l’insegnamento del padre nella testa. Per seguire quella strada, è disposto a tutto: a formarsi militarmente nel ventre della bestia, a uccidere, a passare dall’inferno. Sempre avendo chiaro chi sono i nemici, sempre avendo chiaro qual è l’obiettivo, sempre avendo chiaro che non ci sarà pace possibile se non facendo la guerra alla guerra.

Come va a finire, spoiler o no, è facilmente intuibile: T’Challa vince, grazie anche al grottesco aiuto di un agente della Cia convertitosi alla causa dei buoni. Perché sì, ammette Walt Disney, gli Stati Uniti hanno fatto un po’ di marachelle, ma alla fine si può perdonare tutto per vivere felici e contenti. Erik muore rifiutando la clemenza, come molti suoi antenati che si sono gettati in mare preferendo la morte alla schiavitù – queste le sue ultime parole. E così la parabola è pronta al lieto fine: il re T’Challa torna a Oakland per aprire un centro umanitario nel palazzo un tempo abitato dal piccolo Erik e da suo padre. Perché sì, in fondo Erik e suo padre avevano qualche ragione: il Wakanda non può vivere nell’isolamento della propria ricchezza e deve condividere le proprie risorse, aiutare gli altri a casa loro come si dice oggi. Però la via giusta per farlo non è quella della rottura ma è quella dei diritti, non le armi ma una cultura pacificata, quella dei vincitori, non la lotta a morte contro il nemico ma l’integrazione, non la conquista dell’autonomia ma l’accettazione della democrazia. Così, edulcorata dalla rabbia e ribaltata di segno, anche la storia delle pantere nere può essere recuperata dalla magnanima narrazione imperiale. E mentre i neri continuano a essere ammazzati per strada, gli afroamericani devono pazientare e aver fiducia nel progresso dei diritti umani.

Il Wakanda, improvvisamente, diventa la metafora degli Stati Uniti. Non quelli di Trump, ma quelli di Obama. Non del “Make America Great Again”, ovvero del “Wakanda First”, ma dello “Yes We Can”. Non del razzismo esplicito, ma del subdolo linguaggio post-razziale: quello dell’antirazzismo umanitario che lascia intatti i rapporti di dominio e di potere tra le classi e lungo la linea del colore. Le aperture di T’Challa per la condivisione della ricchezza del Wakanda si limitano al piano formale dei diritti, conservando ipocritamente celati i processi di sfruttamento, i dispositivi di gerarchizzazione e il carattere strutturante del razzismo in America e in tutto il globo. La pantera nera che il film ci consegna è il supereroe umanitario che ha sconfitto l’idea di armare il popolo nero per la conquista degli spazi negati. Non è certo il nostro eroe, se mai ne avessimo bisogno.

Insomma, nel film i buoni e i cattivi non sono spariti, come sembrerebbe da una prima lettura superficiale. Si ripresentano su un livello differente. Il buono ha incorporato il cattivo, lo ha sconfitto fino al punto dal cancellarne la storia. Ci vogliono far credere che i vincitori siano tali perché così conviene addirittura ai vinti. Noi non conosciamo altro modo di scrivere la nostra storia che quello di vendicarla. Noi non conosciamo altro modo di combattere la narrazione dei vincitori del passato che quello di combattere il nemico di oggi che narra. Noi siamo i vinti che scrivono la storia, nel momento in cui agiamo concretamente per rompere quella formidabile macchina di cattura e colonizzazione della soggettività che da alcuni secoli si chiama capitale. Un noi che si definisce nel processo rivoluzionario e non è definito dalla linea del colore.

E ci viene alla mente uno slogan sovrapposto a un documentario delle pantere nere in cui scorrevano le immagini di carcere e assassinii: il nemico che tortura è un nemico debole. Ecco. Walt Disney è la continuazione della tortura con altri mezzi. Dagli occhi di quel bambino di Oakland davanti al cadavere del padre non sono uscite lacrime, ma solo rabbia e determinazione: per non vivere in schiavitù, per sognare e combattere fino alla fine, per fargliela pagare. Per scrivere la nostra storia nel presente.