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Indipendenza è una parola nuova

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Introduzione del pamphlet di Lanfranco Caminiti “Perché non possiamo non dirci «indipendentisti»”

Sono passati settant’anni dallo Statuto siciliano, ed ecco la prima dichiarazione di principio: l’autonomismo siciliano è cosa morta. È solo un punto di partenza. Richiamarsi alla storia del popolo siciliano verso la libertà può riverberarti di gloria, ma bisogna essere all’altezza del loro coraggio e della loro intelligenza. Del loro animus. Per essere degni eredi di una lunga storia, dobbiamo reinventarci tutto. È questo il compito: costruire nuove parole, riempire di nuovi significati parole antiche. Scrivere il nuovo vocabolario della lotta del popolo siciliano per la libertà. Molte parole si sono logorate, per l’uso e l’abuso che ne è stato fatto, su tutte: autonomismo. La storia, intorno a noi, è cambiata. Il mondo, intorno a noi, è cambiato. È cambiata la forma dell’economia, sono cambiati gli scenari geo-politici. È cambiata la Sicilia.
Indipendenza, è una di queste parole nuove. E non basta lustrarla amorevolmente perché luccichi di nuovo.
Qui vogliamo soffermarci soprattutto su un primo modo di intenderla. Indipendenza non è solo un percorso e una prospettiva politica, è anche un qui e un adesso. Noi vogliamo impegnarci per costruire giorno dopo giorno una sottrazione del nostro modo di vita agli imperativi imposti dal capitale, a quelle sottili e invasive forme di condizionamento che governano le nostre vite: nei rapporti tra gli individui, nel rapporto uomo-donna, nella relazione con la città, il paesaggio, la natura, nell’alimentazione, nella formazione personale, nel rapporto con la comunità, nel lavoro. Dobbiamo difendere le nostre vite dall’incuria, dallo spreco, dall’abbandono, dalla pochezza cui ci vogliono costringere le aziende a massimo profitto e nullo valore – e possiamo farlo. Possiamo farlo se sappiamo intessere le nostre giornate di cura, di attenzione, di sensibilità, di cultura verso noi stessi e verso gli altri, i diversi, verso il territorio e l’ambiente, verso le relazioni personali e umane, verso le cose e le persone che ci stanno intorno. Non potrà esserci mai indipendenza e libertà politica, se la nostra stessa vita rimane dipendente e schiava delle forme orribili che ha assunto il capitale. Quando noi ci battiamo contro le discariche, contro le privatizzazioni dei servizi essenziali, contro lo sfruttamento insensato di risorse naturali, contro lo sfregio delle cementificazioni selvagge, è contro la dipendenza delle nostre vite dalle merci, dai consumi e dagli stili di vita imposti dal capitale che ci battiamo. E lo possiamo fare solo provando a modificare qui, adesso, il nostro modo di vivere. Non è che se mangiamo più arancine e beviamo meno coca-cola siamo più «indipendentisti». Però, possiamo provare a esserlo sottraendoci e opponendoci alle dipendenze che le relazioni del capitale ci impongono. È una grande battaglia culturale questa – se intendiamo «cultura» non per polverose carte ma come «modo di vivere». E senza battaglia culturale nessun percorso di lotta politica può avere anima. Non possiamo solo alimentarci di disprezzo verso i nuovi conquistadores e i sempiterni reggicoda: dobbiamo essere animati da passione. Perciò, per «cultura indipendentista siciliana» non intendiamo un menu di cose già scritte da cui poter scegliere questo o quell’antipasto, miti fondativi, storie millenarie, sovranità mai esistite. Noi vorremmo che la Sicilia diventasse un grande «laboratorio culturale indipendentista» – un cantiere a cielo aperto, curioso, attento, intrecciato ai percorsi e alle iniziative che altri territori vanno compiendo.

E qui veniamo all’altro modo, per noi, di intendere indipendenza come parola nuova, percorso attuale e moderno. Abbiamo dunque iniziato la nostra ricerca politica e sociale lì dove una ricerca politica non può che, poi, finire: il nostro territorio. La difesa dei territori si impone perché è sui territori che si manifestano le «micidiali» trasformazioni del modello capitalistico, le sue dinamiche interne, palesi o invisibili che siano. Quando diciamo che l’autonomismo è cosa morta, lo diciamo pensando a quel ciclo economico e storico che è stato il capitalismo di Stato, la forma propria assunta in Sicilia, dal dopoguerra e lungo i Gloriosi trent’anni dall’industrializzazione di monopoli protetti, dalla trasformazione dell’agricoltura, dalla crescita e diffusione dei consumi – fenomeni complessi e contraddittori, in cui si trovano insieme emigrazione e scolarizzazione, sacche di povertà e aumento delle aspettative di vita, partecipazione sociale e corruzione invasiva. L’autonomia politica avrebbe potuto e dovuto «trattare», con lo Stato e i monopoli, i flussi di risorse, gestire con oculatezza gli investimenti, governare gli introiti fiscali – nell’interesse dell’Isola. Così, non è mai praticamente stato. La Sicilia è rimasta ai margini dello sviluppo ma più che mai, nella sua storia, «vincolata» all’Italia.

Noi proviamo a capire le buone intenzioni di chi oggi pensa che la questione sia «riconquistare» autonomia, tornare al dettato originario dello Statuto, rinvigorirne il senso e le prospettive. Però, intanto, intorno a noi si è completamente modificata la «forma» del capitale e quella dello Stato. Oggi non ci sono più investimenti da gestire, flussi di risorse da governare, industrie da allocare, scuole e ospedali da costruire, edilizia popolare da favorire, quartieri da disegnare, città da ingrandire, infrastrutture da pianificare. Qui c’è solo il deserto. Qui, come altrove, la forma assunta dal capitale è quella della rapina, del rastrellamento – soprattutto di quella parte destinata alla riproduzione sociale – e della polarizzazione «medievale» tra ricchi e poveri, tra nuovi «baroni» e nuova «plebe». All’omologazione – distorta, quanto si voglia, ma reale – alla «nazionalizzazione» economica di ogni regione d’Italia, e alla funzionalizzazione di questa nazionalizzazione, il capitale ha scelto oggi di concentrarsi in alcune aree e abbandonare completamente altre. Come la dismissione di una fabbrica, la Sicilia è stata dismessa. Il binomio «sviluppo e democrazia» che ha funzionato per i Gloriosi trent’anni è proprio imploso. La Sicilia rimane «vincolata» all’Italia solo per «via politica» e non più per «via economica». E la via politica non ha più il supporto della via economica, e perciò è un simulacro di democrazia e non può che tradursi in una forma di dominio, di controllo ferreo, militare. Siamo ai margini della vita economica e siamo ai margini della vita democratica. A cosa potrebbe mai servire «maggiore autonomia»? Per salvare, ricostruire, immaginare l’economia dell’Isola dobbiamo conquistare l’indipendenza politica. Qui non c’è più un «modello di sviluppo» – quello inseguito per decenni dalla sinistra – che industrializzando l’Isola avrebbe democratizzato la vita siciliana. Qui non c’è più un «modello» da rimodulare, adattare, plasmare sui bisogni e le risorse della Sicilia. Qui, c’è il resto di niente. Solo l’indipendenza politica dell’Isola potrà far rinascere economicamente la Sicilia.

Quello che crediamo fondamentale è proporre una nuova idea di indipendenza che parta dai processi dal basso; un’idea genuina che parta dai territori siciliani e che sappia riconfigurare un nuovo rapporto con la forma-Stato così come l’abbiamo conosciuta nel XX secolo. Un’idea proiettata nel futuro più che mutuata dal passato. Le «nuove politiche» stanno distruggendo risorse economiche e paesaggistiche; stanno impoverendo territori e tessuti sociali e culturali; disperdendo tradizioni e forme di vita sociali e comunitarie.

Povertà, miseria, emigrazione sono solo alcuni degli effetti nocivi di questi modelli; a cui va aggiunta la completa devastazione del nostro territorio misurabile non soltanto dal punto di vista paesaggistico ma anche sui terribili effetti sulla salute e sul benessere delle popolazioni coinvolte. Non meno importanti sono le conseguenze dell’incessante attività che gruppi economici e politici portano avanti in materia di cancellazione della memoria e del nostro patrimonio culturale: l’interiorizzazione, ormai diffusissima, della «subalternità» ai civili dominatori del Nord ne è la più terribile espressione.

Occorre un profondo mutamento di prospettive. Sociale e politico.

In un’epoca in cui il potere decisionale si sposta sempre più lontano dai luoghi su cui poi esercita il proprio controllo, l’uso e l’abuso; si concentra nelle mani di pochissime istituzioni internazionali; e si configura come potere «esecutivo» frutto di continue emergenze e stati d’eccezione; in questa fase diviene urgente rilanciare una politica che dal basso affermi una chiara e determinata volontà: decidere. Riprendersi, riconquistarsi il potere di deliberare modi, forme e fini della propria esistenza e di quella della comunità cui si appartiene. Poter determinare questa propria esistenza sui territori che abitiamo è ciò che chiamiamo indipendenza.

Chi abita un territorio, urbano o extraurbano che sia, deve potere partecipare direttamente alle decisioni che riguardano economia, modelli di sviluppo, vocazioni produttive; sono sempre gli abitanti che devono poter decidere sul riconoscimento e la valorizzazione del proprio patrimonio culturale, storico e ambientale.

Autodeterminarsi significa recuperare la possibilità di determinare modi e tempi del vivere in nostri luoghi senza alcuna omologazione imposta; è, quindi, il modo in cui le comunità escono dal giogo del comando, ritrovano il diritto ad auto-narrarsi e ad auto-valorizzarsi, ad autodifendersi. È, infine, il modo per ritrovare il legame speciale e unico con i luoghi che si abitano: un legame in cui questi non siano mercificati e schiavi di prezzi di vendita.

forme politico-organizzative nuove da costruire: nuove perché nuovi sono i terreni in cui il principio dell’autodeterminazione così come l’istanza di autogoverno potranno trovare una concretizzazione.