Stampa

Macchine e soggettività

on .

Intervista di Loris Narda a Federico Chicchi

Nell’ultimo suo libro (Dello spirito libero, il Saggiatore, 2015) Mario Tronti fa una critica a Marx nel punto in cui il barbone di Treviri prediceva una proletarizzazione di massa dove invece, secondo Tronti, c’è stata una borghesizzazione di massa. Per lui l’errore marxiano fu quello di guardare all’industrializzazione nascente come un terreno di per sé più fertile per la rivoluzione. Guardando col senno di poi alcune conclusioni a cui sono arrivati una parte dei teorici del capitalismo cognitivo possiamo intravvedere uno stesso errore, in cui le innovazioni tecnologiche, fuori da una dimensione di ambivalenza, sono viste come un passaggio che di per sé porta a un gradino superiore della cooperazione sociale, quindi più vicino al comunismo? Come recuperare l’ambivalenza dell’innovazione tecnologica e andare oltre questa impasse?

La cognitivizzazione del lavoro, i processi di trasformazione dell’impresa in senso post-taylorista, la centralità dei saperi nell’estrazione del valore, anche i grandi processi di alfabetizzazione di massa che a partire dagli anni ’60 si sono realizzati nei contesti italiano ed europeo, avevano portato alcune aree critiche ed eterodosse del marxismo ad individuare nel soggetto cognitivo – cioè quel soggetto capace di mediare la relazione Capitale-lavoro mediante un sapere – la presenza di un processo di ri-soggettivazione dell’attività lavorativa così come si veniva delineando a partire dal post-fordismo, dai processi di superamento della fabbrica intesa come luogo distinto dalla società e chiuso, e che invece si faceva ora poroso e aperto proprio perché attraversato dai conflitti della classe operaia. Quest’ultima è oggi evidentemente disorientata e frammentata da una serie di fenomeni che hanno sia una caratteristica tecnologica che una propriamente politica: la tecnologica è che il definirsi di nuove tecnologie di produzione, ma più latamente di estrazione del valore, spiazzano il lavoro operaio rispetto a quella che era la loro tradizionale possibilità di organizzazione politica e cooperativa dei processi di riappropriazione del valore.

Ciò che le nuove macchine sono in grado di realizzare sono forme sofisticate di cattura sociale e di estrazione del valore direttamente nei solchi che il cognitariato aveva messo in campo, queste macchine fanno proprio il potenziale produttivo del lavoro vivo declinandolo lungo linee di potere ben precise, catene di organizzazione sociale della produzione che ben poco lascia all’autonomizzazione della cooperazione sociale. Al contrario quest’ultima è riorganizzata dentro dispositivi molto più complessi che in precedenza. Un primo problema che possiamo sottolineare è il salto di paradigma della tecnologia produttiva e della tecnologia sociale che viene pensato in virtù dell’estrazione immediata del valore, che oggi è radicalmente cambiato rispetto agli ultimi anni del secolo scorso, quegli stessi anni cioè in cui pareva definirsi la centralità del lavoratore cognitivo per come il post-operaismo in generale lo aveva inteso. Questo cambio di paradigma per certi versi rende conto perfettamente di quella quota di valore che nel postfordismo sembrava darsi sotto forma di autonomia sociale. Mi riferisco a quelle forme di autonomia produttiva che sembravano darsi al di fuori del Capitale e che invece si sono dimostrate, sempre di più, interne a un piano di ri-territorializzazione del Capitale, piano che ha ora come finalità quella di pensare non più l’estrazione del valore come spazio di mediazione tra classi, ma come uno spazio di esercizio di forme estrattive di valore che non necessariamente si inscrivono in seno al rapporto salariale. Tale ristrutturazione interna al capitalismo fa saltare la convenzione salariale, cioè il rapporto sociale salariale, come spazio fondamentale della determinazione dell’estrazione formale del valore e fa girare a vuoto tutta una serie di attività che si organizzavano al di fuori del Capitale, declinando questo fuori come un fuori dalla vischiosità della relazione salariale.

In realtà quel fuori è già oggi oggetto di un esercizio organizzato dello sfruttamento capitalistico che si basa sulle nuove tecnologie digitali e delle reti. Quindi la rete si trova ad essere sempre di più uno spazio in cui le forme di autonomia produttiva, si ritrovano ad essere interne alla sollecitazione accumulativa, e interamente ricondotte nell’alveo del mondo capitalistico.

La composizione tecnica e la composizione politica che oggi ci troviamo di fronte sono fortemente intrecciate e il monito panzieriano a considerare la progettazione delle macchine produttive in seno al capitalismo come macchine che difficilmente si prestano ad un uso non orientato alla produzione di profitto e di valore di scambio va tenuto bene in mente: c’è una sorta di strutturazione intrinseca della tecnologia produttiva che è difficilmente ri-orientabile in modo qualitativamente differente, anche perché c’è un vincolo della produzione e della macchina tecnologica interna al Capitale che difficilmente la rende trasferibile su piani nuovi e di effettiva e qualitativa autonomia produttiva.

Ma c’è un altro problema, e cioè che la stessa progettazione tecnologica se negli anni ’90 si dava, per certi versi, secondo forme che il capitalismo non era ancora in grado di controllare del tutto, oggi sono invece immediatamente ricondotte dentro il suo piano di funzionamento. Questo rende quella ambivalenza di cui parlavi paradossalmente un problema nel problema, nel senso che se prima l’ambivalenza era un problema perché non si riusciva a capire come fare a trasformare le reti di produzione in reti autonome e cooperative sganciate dalle finalità immediatamente capitalistiche, e se ne osservava la profonda ambivalenza perché c’era uno spostamento rispetto alle tecniche tradizionali e l’apertura verso scenari di attività sociali nuove (pensiamo per esempio alla sharing economy e al peer to peer), cioè questa ambivalenza che si dava nelle esperienze che si facevano a partire dai nuovi bisogni sociali che si determinavano, oggi questa ambivalenza è già, in quanto tale, in gran parte se non interamente prodotta, sollecitata e costituita dalla macchina capitalistica.

La stessa ambivalenza è un prodotto del Capitale che sfrutta questa imprecisione della codificazione dei comportamenti come spinta per la valorizzazione produttiva, in virtù della più ampia libertà di determinazioni possibili che l’ambivalenza mantiene aperte. Oggi insomma ci troviamo di fronte a una logica precisa che tiene aperta e non risolve l’ambivalenza soggettiva di chi agisce sui mercati, tale logica è quella dello sfruttamento che potremmo definire come biopolitico e governamentale.

Mi sembra di poter dire un po’ provocatoriamente che la rivoluzione copernicana di cui parlava Tronti e che negli anni di “Lenin in Inghilterra” sembrava potersi descrivere in modo molto chiaro, oggi sia definibile non tanto come un ribaltamento ma come un giro completo che ci ha di fatto riportati al punto di partenza.

Oggi il problema più grosso è capire come tornare a giocare l’ambivalenza dentro una situazione asfittica, o quasi, chiusa dentro un controllo diffuso, soft e/o violento al contempo, delle pratiche politiche, sociali ed economiche, dove l’egemonia capitalistica sembra veramente in una fase di grande forza, seppur resti caratterizzata da tante linee di frattura interne, che sono però, in un certo qual modo, anche molto più difficili da governare e connettere tra loro.

Forse oggi il problema è ritrovare una dimensione analitica laddove certe tendenze del capitalismo cognitivo a volte sembra abbiano costruito più una retorica di quelle che sono le dimensioni di trasformazione degli ultimi quarant’anni? Panzieri faceva questa critica ai sindacati degli anni ’60 che dicevano agli operai: “non fate le lotte, stiamo tranquilli perché il perfezionamento della macchina porta di per sè più vicini al socialismo”, mentre Panzieri diceva che è falso perché la macchina viene sviluppata in determinati modi, ne vengono sviluppate certe facce piuttosto che altre, la sua ingegnerizzazione interna ha che fare con il controllo della dimensione disciplinare, e in questo non avere niente di oggettivo Alquati negli ultimi dei suoi lavori pone molto l’accento sul fatto che lo sviluppo delle macchine gestito dal Capitale lavora all’impoverimento della capacità umana e all’incremento della capacità macchinica, cioè sviluppa la macchina perché è una forma di produzione che non può sfuggire al controllo e invece dell’intera capacità umana in un qualche modo potenzia anche lì solo quello che interessa nella dimensione produttiva. Ci può allora essere un potenziamento della propria capacità ma con una diminuzione della ricchezza e quindi della varietà delle proprie capacità umane e questo ha che fare con la dimensione della macchinizzazione del lavoro cognitivo, la frontiera che oggi supera la dimensione della macchinizzazione del lavoro manuale, che va avanti anche quella. Ad esempio in dibattiti contemporanei come il tentativo di rilocalizzazione di industrie manifatturiere negli USA di Trump, anche nelle migliori delle ipotesi non riporteranno mai nulla che sia nemmeno paragonabile a quello che era la classe operaia ben pagata che aveva certi termini anche di inclusione sociale. In un lavoro come quello che fa Salvatore Cominu in Italia in particolare, ma come tendenza più generale, viene messo in evidenza che molte volte il lavoro cognitivo più che essere qualcosa di creativo è qualcosa che impoverisce, è qualcosa di seriale, è qualcosa di proceduralizzato che non ha niente a che fare con la dimensione inventiva della capacità umana. Nelle trasformazioni degli ultimi 5-10 anni come si possono inquadrare queste trasformazioni?

Credo che il paradigma del capitalismo cognitivo possa e debba essere messo in discussione, ma prima occorre fare chiarezza su alcune questioni di fondo. Una di queste è l’indubbio e stringente rapporto che esiste tra la formazione e l’automazione della produzione in fabbrica e quindi per dirla altrimenti come si determina la questione del controllo del lavoro produttivo.

La macchina viene introdotta come mezzo di produzione fondamentale a partire dai primi del ’900, ma è un processo che va avanti per molti decenni, non solo per una questione legata alla produttività che comunque rimane una questione centrale (cioè la macchina permette in senso marxiano di spostare l’estrazione del valore sul lato del plusvalore relativo), ma non bisogna pensare che questo sia l’unico motivo per cui le fabbriche vengono progressivamente ripensate secondo una logica del controllo della macchina sul lavoro vivo. Certo, questo processo ha come scopo quello di aumentare la produttività ma è fondamentale per istituire in seno al Capitale un nuovo soggetto consumatore, che in quanto tale è interno e consustanziale al regime fordista di accumulazione. Questa è una chiave di lettura fondamentale per leggere le trasformazioni sull’aumento della produttività nei trenta gloriosi. L’aumento della produttività permette infatti di aumentare la redistribuzione in generale, di far sgocciolare quote di ricchezza verso la classe subalterna, di governare, attraverso il Welfare e la garanzia del salario a tempo indeterminato, quello squilibrio che Marazzi chiamerebbe lo “squilibrio intrinseco del ciclo economico capitalistico”.

Il fordismo lo risolve sfruttando l’aumento continuo della produttività del lavoro in fabbrica, come i regolazionisti hanno messo bene in luce. Lo spostamento dell’investimento sul Capitale fisso in quella fase storica del capitalismo ha questo principale obiettivo. Ma pensare che questo obiettivo sia slegato e non sia invece intrinsecamente legato al fatto che questo produce un effetto di controllo e disciplinamento ortopedico, minuzioso e dettagliato, da un lato su quelle che sono le abilità sociali del lavoro operaio dentro la fabbrica, e dall’altro sulla geometria quantitativa e qualitativa della domanda sociale dei beni, sarebbe un’ingenuità.

Diciamo che la taylorizzazione e la macchinizzazione dei processi ha sì lo scopo di aumentare la produttività, ma allo stesso tempo ha lo scopo di aumentare il controllo della produzione capitalistica sul lavoro, perché altrimenti la forza-lavoro sarebbe capace di resistere alle forme di cattura che dentro la sussunzione si producono, resistere anche perché in quella fase storica c’era la possibilità di creare coalizione e di creare resistenza operaia sulla base delle linee di condivisione delle forme di esercizio del potere disciplinare.

Se noi cominciamo a leggere la questione relativa alla macchina come una questione che non è unicamente giocata sul piano dell’economia della produzione ma anche sul controllo della produzione, delle sue finalità, e quindi che ha un orientamento che è economico in quanto politico e politico in quanto economico, se noi non leggiamo questo nesso con la dovuta attenzione rischiamo di perdere anche il senso di questa ulteriore trasformazione, cioè quella del passaggio dalle macchine di tipo meccanico e seriale alle macchine di tipo digitale e cognitivo; la vera questione sul piano della produzione e del controllo è che le tecnologie digitali arrivano a tracciare i corpi, i movimenti dei corpi, le intenzioni dei corpi, le attese dei corpi con una precisione fino a pochi anni fa inimmaginabile.

Quindi se questo nesso è ciò che caratterizza lo spirito del capitalismo, cioè il rapporto tra controllo, normazione sociale, egemonia sociale e produzione di valore, se noi non assumiamo la questione del salto di paradigma dentro le tecnologie sociali, e dentro le tecnologie produttive in particolare, come un elemento a cui guardare con grande attenzione noi perdiamo di vista il capitalismo stesso.

In termini marxiani questo significa che quello che è accaduto è stato il modificarsi del rapporto sociale di produzione, che non era più del tutto assimilabile dentro il rapporto salariato classico, in quanto quest’ultimo generava forme di resistenza e forme di redistribuzione della ricchezza che in contesti di aumentata competitività rendevano non più sostenibile il processo di accumulazione.

Dentro la dialettica, che grazie alle lotte operaie si giocava sempre di più a favore della popolazione salariata si è realizzato un salto di paradigma tecnologico allo scopo di ridefinire, diciamo così, la qualità stessa della classe subordinata. In altre parole il proletario oggi non si definisce più come colui che non detiene alcuna ricchezza, se non quella che serve alla propria sopravvivenza, ma colui che sostanzialmente non detiene più una capacità di sapere sulla propria condizione. Il nuovo proletario è colui che in un certo qual modo viene inserito in procedure generali di funzionamento della società di cui lui non ha alcuna consapevolezza e che lo assoggettano secondo nuove modalità, che hanno sì a che fare con le profonde trasformazioni del mondo del lavoro ma che ancor più in generale hanno a che fare con la finanza e la necessità del rilancio dell’accumulazione dentro la crisi, con le nuove tecnologie di tracciabilità e pervasività, non solo rispetto a ciò che è meccanico e corporale ma anche su ciò che è emotivo e sensibile. Ad esempio Amazon promuove l’idea che si possa meccanizzare ogni attività umana, e coloro che lavorano in questi spazi dove vengono smistati i prodotti da consegnare ai clienti vengono monitorati in ogni loro gesto, in ogni loro attività.

Si realizza così una sorta di Panopticon in cui l’invisibilità del controllore è assoluta e precisa, con forme non più umane di controllo ma automatiche: braccialetti che misurano via gps esattamente dove sta un lavoratore e ci mostra come anche una pausa non prevista di alcuni minuti possa essere usata per licenziare il lavoratore. Tutto questo in uno spazio in cui il rapporto salariale non è più un rapporto negoziale, non è più cioè un rapporto che pone le classi in uno stato tensivo e dialettico che deve essere politicamente governato, ma un rapporto di egemonia della classe proprietaria sulla classe non proprietaria, e quindi dove la mediazione e la tutela del lavoro è per lo più saltata. La tecnologia perfeziona questo modello in cui la prestazione lavorativa deve essere assoluta e smisurata (riguardare tanto il tempo produttivo che quello riproduttivo): dove questa non si dà come assoluta viene subito cambiato il lavoratore che agisce su quella parte del processo produttivo: ogni gesto, ogni atto, la reperibilità assoluta, la confusione tra tempo e spazio di produzione e tempo e spazio della riproduzione ,sono le questioni che devono essere prese profondamente in considerazione e studiate analiticamente.

È vero che il lavoratore cognitivo come l’abbiamo pensato negli anni novanta è oggi spesso un lavoratore, come dice Cominu, proletarizzato, cioè incapace di interagire con le procedure, è interno a delle procedure che sono decise come nella fabbrica industriale; questi sono processi di industrializzazione molto più pervasivi di prima che vanno anche a rideterminare i ritmi, i tempi, e le condizioni di vita. Una quota crescente di persone orienta la loro formazione cognitiva semplicemente per rispondere al meglio, in modo prestazionale a queste procedure. Ma c’è un altro elemento, ed è su questo che invece personalmente non mi sento in linea con l’analisi di Salvatore Cominu e dalle analisi diciamo di neo-taylorizzazione esasperata: cioè ciò che effettivamente riesce a imporre il controllo sul soggetto lavoratore, e sul soggetto consumatore contemporaneamente, non può essere una tecnologia che controlla, limita, traccia e indirizza solamente. Altrimenti questo controllo ossessivo finirebbe per soffocare il lavoro vivo privandolo di capacità di valorizzazione dei processi.

L’automazione dell’attività riproduttiva funziona e rende possibile un’estrazione di valore di tipo sussuntorio (di sussunzione reale), ma dall’altro lato il soggetto consumatore, cioè il soggetto che non è immediatamente compreso in quella attività sottoposta a controllo diretto, ma in quanto soggetto che esprime un desiderare e una domanda sociale di bisogni, non può essere controllato da quel tipo di meccanismi per quanto essi siano avanzati, raffinati e digitalizzati. Questo tipo di attività del soggetto consumatore però è estremamente importante e non secondaria rispetto alle pratiche di rilancio del capitalismo post-industriale; infatti se al Capitale serve, da un lato, un soggetto produttivo adeguato ai suoi processi, dall’altro lo stesso abbisogna di un soggetto consumatore capace di finalizzare/monetizzare il ciclo economico e che orienti, migliorando il rapporto con i desideri sociali, anche la definizione di nuovi oggetti e di nuove merci. Altrimenti se non c’è una richiesta di nuove merci il capitalismo satura la sua produzione, entra in crisi di sovrapproduzione. A questo livello inoltre c’è un elemento di ambivalenza che ancora non è stato addomesticato, c’è una sollecitazione a desiderare nuovi oggetti.

Quei nuovi oggetti non possono essere presupposti del Capitale, ma sono il frutto di un’interazione comunicativa, tensiva, con quelle che sono le domande sociali che continuamente si producono. Quindi la vera sfida per il capitale credo sia quella di controllare la pedagogia del soggetto produttore, che non è più solo un soggetto della fabbrica, è un soggetto metropolitano che agisce non solo sull’atto di deformazione della materia prima ma anche sul lato di invenzione e di ideazione della materia prima, anche attraverso la domanda che fa rispetto a quella materia prima stessa, e credo fermamente che il punto su cui ragionare sia il lato non solo della nuova ingegnerizzazione dei processi materiali realizzativi, perché in tal modo perderemmo di vista il luogo in cui invece il capitalismo si nutre di progettualità, di domanda di desiderio e di rilancio delle sue forme merci che sono in continua evoluzione. Lo spazio della riproduzione sociale.

Attenzione però la questione politica non sta tanto nello spostare l’attenzione e la lotta dalle fabbriche di produzione agli spazi di produzione dei desideri, bisogna invece spostare l’azione nel punto in cui il Capitale deve cucire continuamente questo rapporto, cioè quello della produzione di desiderio, di domanda sociale e la produzione in quanto tale della merce come oggetto materiale (sempre meno tale ma ancora sempre incardinato in una materialità che per quanto sia il silicio e non più l’acciaio, essa rimane in ogni caso necessaria).

C’è un punto in cui l’aspetto del lavoro sussunto e l’aspetto dell’attività sociale e soggettiva impressa nella logica del Capitale deve trovare una sua coniugazione, una sua coerenza: è quello il punto in cui il Capitale è più fragile. Deve infatti tenere assieme due registri, due logiche diverse di sfruttamento che continuamente tendono a divergere e a determinare squilibro nel sistema.

Su come misurare il valore di un desiderio il capitalismo non ha molti problemi, perché il valore del desiderio, il capitalismo lo determina e precisa attraverso il mercato, e la finanza. Il problema è invece costruire una nuova analitica del valore, una politica che apra una questione rispetto al rapporto tra bisogni sociali e merci, che non può essere orientata in maniera rigida, altrimenti si annichilerebbe in breve tempo. Voglio dire che i bisogni sociali non possono essere semplicemente decisi dall’alto, altrimenti si determinerebbe un generale effetto depressivo, l’interazione deve essere spontanea e legata alla straordinaria rizomaticità e reticolarità delle metropoli. Non può essere altrimenti.

In questo senso il meticciato possiede un grande potenziale di valorizzazione, il meticciato è il luogo in cui gli ordini e i codici saltano perché c’è una strutturale condizione di flusso, dove diverse culture si incontrano e si scontrano, ma è anche il luogo in cui attraverso questo incontro-scontro si producono le nuove richieste, le nuove invenzioni, le nuove prospettive e i nuovi desideri: è lì che si gioca la partita politica oggi, ciò che conta è capire come fa il capitalismo a tenere insieme a far sempre coincidere la produzione materiale con la produzione desiderante (economia libidinale), la produzione di domanda sociale e la produzione di merci. Il punto è riassumibile così: oggi il capitalismo questi due momenti riesce ancora a tenerli assieme? Oppure no? Questo è il punto di incandescenza su cui promuovere le nuove inchieste. Tra l’altro questo è esattamente il punto in cui si colloca Trump. In quel punto c’è il tentativo del capitalismo di interpretare questo squilibrio che si apre tra desideri sociali sempre rinnovati ma al contempo sempre più difficili da mettere a valore perché sfuggono al controllo e alla disciplina. Tenere assieme da un lato la disciplina di fabbrica e con essa anche con un certo moralismo borghese molto prudente (smithianamente prudente) e dall’altro invece un capitalismo distruttivo del godimento sfrenato e della festa. Della finanza sregolata. Trump in un certo qual modo è quell’abominio contemporaneo che tenta di tenere assieme questi due aspetti tra loro antitetici. Però lì c’è anche un punto di grande debolezza del capitalismo. Non credo sia necessario spiegare in che senso.. è piuttosto evidente. Dobbiamo quindi progettare una politica capace di riaprire la contraddizione tra il lato desiderante e il lato della disciplina, contraddizione che ora appare essere per lo più domata nel capitalismo dagli algoritmi e dalle piattaforme. Ma per quanto ancora?

Franco Berardi Bifo nei suoi ultimi scritti ci racconta come ormai i bambini prima ancora di apprendere il linguaggio e la parola genitoriale imparino una gestualità legata al tablet. Potremmo dire che oggi quello che per Lacan era lo stadio dello specchio oggi sia lo stadio di questo mezzo, usato come strumento di autoriconoscimento sociale?

Il tablet non è altro che uno specchio in cui l’Io trova una sorta di facile e fittizia condiscendenza, una procedura di riconoscibilità, attraverso le amicizie su Facebook, attraverso gli avatar, si fa il conto e si compensa così la progressiva erosione di socialità, che è il vero dramma del capitalismo contemporaneo. Cioè, da un lato il meticciato è lo spazio dove si danno le improvvisazioni tra gli elementi che poi devono essere oggettivati nella nuova merce, e qui non c’è ancora nulla che sostiene la produzione, dall’altro questo è messo a valore e al lavoro, in senso lato, attraverso il tablet (inteso metaforicamente come nuova paradigma della socialità fittizia). Il dispositivo portatile che ti connette immediatamente, ti fa meticcio nel mondo o meglio ti illude di essere parte di una complessità relazionale, di un rapporto, cioè parte di una rete di relazioni che sono però tutte mediate da quell’elemento, che se lavorato opportunamente costringe quella stessa relazione a passare da una serie di transazioni monetarie.

Il tablet produce relazioni contabilizzandole in una serie di dispositivi e di accessi a pagamento o realizzando il contesto perfetto per l’estrazione di bigdata da vendere poi sul mercato. Per certi versi direi anche che questo è il trionfo di ritorno del maschilismo, è quasi un paradosso, il patriarcato che rientra dalla finestra dopo essere stato in parte sconfitto dalle lotte femministe e dalle altre lotte degli anni settanta, e che in realtà si mostra più vivo che mai perché introduce il suo principio di fondo: il più forte è quello che ha più denaro.

Non c’è nessun rapporto che si possa dare in una tensione differente se non quella del calcolo delle proprie disponibilità prestazionali e quindi monetarie, questa è la vera contraddizione che contraddistingue oggi il capitalismo, che in questo senso è estensivo, cioè si estende nel corpo sociale, nelle sue località sensibili, tende a rideterminare e ricodificare la sua generale fruibilità commutativa, quindi de-territorializzata, in cui non c’è più un elemento di qualità che possa produrre nuove merci. Quindi da un lato c’è un sistema che permette a questa logica del meticciato, attraverso le connessioni, le perversioni, le produzioni della qualità, cioè da un lato scatena questo aspetto che produce un arricchimento che potremmo chiamare delle differenze, ma dall’altro lato dovendo poi commutare in segni monetari, svilisce e riduce gli stessi in polvere, quindi in un certo senso mi chiedo per quanto ancora questa estensibilità possa essere continuata e realizzata economicamente. Trump per me è il segno che questa commutabilità generalizzata della vita in segno, in segno monetario, è arrivata o sta arrivando alla fine. Potremmo in qualche modo dire che questo tramonto rischia di far tornare il potere nella sua veste più violenta, disciplinare, morale.

Diciamo che fin da piccoli nell’interazione con la macchina si entra in un circuito di valorizzazione, in cui le proprie relazioni sociali contribuiscono al processo più generale del circuito finanziario globale, a partire dalle azioni di Facebook, Twitter, etc.

Quello che ci dobbiamo necessariamente porre come questione urgente è come riuscire a de-formare questa pedagogia, come creare spazi di de-formazione sociale, come costruire una pedagogia della deformazione o meglio di deformazione di quel sociale che si basa su questo tipo di meccanismo di cattura, cioè sul meccanismo della macchina narcisistica, che sostanzialmente associa individui che non sono più in grado di passare alla fase trans-individuale del processo di soggettivazione, cioè che sono bloccati narcisisticamente e non riescono più a rigenerare il meccanismo di soggettivazione che si basa sulla messa in comune di azioni, progetti, valori, concetti, simboli. Che l’unica aggressività cui possono accedere è inesorabilmente rivolta verso se stessi e non più messa a disposizione della azione politica.

Allora il grande problema è come fare deformazione, come iniziare un processo di grande deformazione, come rompere con quella pedagogia che si istituisce attraverso gli info-stimoli degli schermi e dei tablet che servono a produrre schemi di vita performativi. Quindi smontare non più solo gli schemi contenitivi e di obbligazione ma anche quelli sollecitativi, nutritivi e di orientamento.

Potremmo dire che la figura di Trump viene fuori da quei processi di impoverimento e di declassamento del ceto medio, in un mix tra delocalizzazioni produttive, crisi economica globale e innovazione tecnologica? Questo processo diciamo che non è un destino ma uno scenario aperto, da questo declassamento possono venir fuori sia una destra reazionaria alla Trump sia delle soggettività alla base di processi di radicalizzazione di segno inverso.

Sì, questa è una analisi che ho ascoltato e su cui ho cercato di riflettere. I dati di flusso dei voti che hanno consegnato la presidenza a Donald Trump sono controversi, nel senso che c’è chi sostiene che in realtà i voti che hanno fatto la differenza siano stati i voti delle classi più agiate, quelle classi ricche che hanno però visto con sospetto la svolta immateriale della produzione di valore, ciò che andava a toccare e a contrastare l’idea che il valore si produce solo nella old economy, cioè quelle classi che non erano entrate a pieno titolo nella orbita della Silicon Valley, che è il simbolo del capitalismo del cognitivo e del neoliberalismo politico, anche aperto (per le ragioni che dicevamo sopra) alle forme di meticciato. Trump ha fatto perno cioè su di una sorta di moralismo legato al “valore” della sovranità, della capacità della nazione di mettere a valore la propria virtù sociale e produttiva tradizionale in senso immunitario. Penso che questo abbia pesato assieme ad altri due o tre elementi.

Il primo è quello del disinteresse del Partito Democratico a guida Clinton (contrariamente a Sanders) verso quella che è l’industriosità del lavoratore americano, lavoratore messo duramente sotto pressione dalla crisi economica e dai processi di deindustrializzazione. In un certo senso Trump ha fatto sua la rivalsa del ceto medio produttivo, industrioso, cioè, non innovativo, non creativo, non legato al terziario avanzato ma legato ai lavori di più basso profilo del terziario tradizionale, i lavoratori delle fabbriche in crisi, di quelle piccole ma importanti corporazioni professionali, che in un certo qual modo hanno visto nella new economy una specie di grande tragedia per la nazione americana.

Poi c’è la questione dei rapporti con i paesi limitrofi agli Stati Uniti, che importano manodopera a basso costo che naturalmente va a impattare proprio su questi lavoratori più deboli, la chiusura verso i migranti, questa è una questione culturale che in America si è avuta anche fra i migranti già americanizzati, e poi l’ultima quella dei grandi apparati di potere globali e multinazionali che la Clinton certamente rappresentava, cioè quei poteri forti della finanza e della smart economy che si sono dimostrati incapaci di interpretare lo spirito nazionalista americano.

Forse potremmo dire che la Clinton e anche Obama non sono stati in grado di leggere la realtà, che spesso si rivela nelle pieghe di alcuni dati. Per esempio formalmente la partecipazione della popolazione attiva alla forza lavoro è tornato al livello pre-crisi, quindi la Clinton giocava su un piano del tipo: l’America è già grande, mentre in quelle pieghe quantitative si nascondono dal punto di vista qualitativo un crollo di quelli che sono quei lavori ben pagati che erano l’architrave del ceto medio,che nelle situazioni di rabbia e rancore Trump ha avuto anche gioco facile ad usare contro chi puntava allo status quo.

Sì, io credo che lì non è solo una incapacità di vedere le profonde striature che in realtà i dati statistici non riescono a mostrare, cioè i tassi di attività, l’aumento dell’occupazione di per sé oggi ci dicono solo molto parzialmente del vero stato di salute di un’economia e di una popolazione. Quegli stessi indicatori non permettono di vedere il declassamento e il disagio sociale che si sono prodotti, perché è chiaro che l’indice meramente economico dice poco, cioè fa un’analisi superficiale di quello che è il vero potere che si produce a partire dal sentirsi parte di un progetto sociale, ampio, di sviluppo.

Evidentemente si è perso di vista che il capitalismo finanziario è incapace di ri-determinarsi dentro una politica sociale di sviluppo, cioè non si è colto il fatto che per quanto Obama potesse intervenire nel regolare alcune questioni e nell’allargare alcuni diritti sociali, in realtà questi sarebbero stati comunque insufficienti a ricalibrare un’egemonia neoliberale che fa della produzione della diseguaglianza e dell’inclusione selettiva un elemento chiave e irrinunciabile del sistema attuale.

Paradossalmente la cosa che mi ha colpito di più del voto americano è la questione del voto femminile, cioè di fronte alla candidata presidente donna il voto femminile o si è sottratto al voto o è andato, non totalmente, ma oltre misura, verso chi si vantava di fare della donna il suo mero oggetto del godimento, verso colui che nulla ha di femminile nel suo modo di atteggiarsi, cioè quasi un maschilismo primitivo e io credo che sia stato anche questo che in un certo qual modo ha premiato, una certa trasparenza di atteggiamento, una sorta di meccanismo che è paradossale perché in realtà Trump è ipocrita anche verso se stesso e non sa nemmeno lui cosa vuole essere però, questo suo modo di fare, e qui emerge tutto il populismo trumpiano, molto di pancia, rassicurava di più di una donna, la Clinton, che si faceva portatrice di un interesse corporativo e molto elitario e che a volte appariva infido. Cioè l’atteggiamento di una donna che si atteggiava in maniera ipocrita a difendere il valore della femminilità dentro un’economia però incapace di rispondere al disagio sociale che comunque negli Stati Uniti d’America è molto diffuso, oggi sicuramente in modo non meno radicale di un tempo. Per questo forse si sostiene che Sanders sarebbe stato un candidato più forte, perché in questo senso portava interessi più vicini al disagio reale del Paese piuttosto che renderlo attraverso una retorica neoliberale dell’impresa, dello sviluppo smart, dell’emancipazione, cioè di parole d’ordine che hanno perso radice nell’elettorato che resta, perché poi come in altri paesi europei il livello quantitativo del non voto è davvero molto alto.

 

Vorrei chiudere sulla questione dell’ibridazione tra macchine e viventi. Mi sembra che ci siano delle questioni per cui da un lato ad esempio l’intelligenza artificiale come non mai pone delle macchine che possono interagire con la nostra l’intelligenza e iniziare in un qualche modo ad assomigliare ad un’interazione umana, per quanto ancora molto artigianale, e questa dimensione dell’intelligenza artificiale che tende a far assomigliare la macchina ai viventi pone delle questioni. Dall’altra lo stesso vivente in un qualche modo non è più il vivente come lo abbiamo conosciuto, perché ad esempio la bioingegneria e una serie di scoperte che hanno a che fare con l’ingegnerizzazione della mappatura genetica del genoma hanno fatto dei salti di qualità incredibili. Ad esempio mi capitava di leggere un articolo su una rivista statunitense che mostrava come dalla prima mappa genomica di 10 anni fa ad oggi si sia in qualche modo arrivati ad un livello superiore, in cui anche produrre fuori dal vivente il DNA e RNA diventa possibile, per cui in non molto tempo si potrà produrre una vita anche fuori dall’utero materno. Christian Marazzi ad esempio ha scritto molto sull’ammortamento del corpo-macchina, ovvero su come certe parti di Capitale fisso vengano oggi incorporate nel nostro cervello.

Questa è la questione che abbiamo di fronte, la questione dell’ultima generazione, di applicazione di questa dimensione tecnologica alla vita e ai dispositivi che la possono potenziare, la possono proteggere dall’invecchiamento, la possono rendere più prestazionale e più attenta a limitare gli errori di comportamento. L’applicazione della cosiddetta intelligenza artificiale a tutta una serie di dispositivi di uso quotidiano è ormai realtà: ogni ambito della nostra vita è attraversato da questi oggetti “intelligenti” e lo sarà sempre di più e ci sono alcuni “grandi” capitalisti che interpretano questa svolta tecnologica, tra cui uno dei più famosi è Elon Musk, che ha inventato prototipi di vetture elettriche che si guidano da sole e riescono a trasportare una persona in totale autonomia senza bisogno del suo intervento attivo.

Ci sono campi di sviluppo che vanno appunto dalla cosiddetta domotica, che rendono la casa una realtà su cui è possibile intervenire a distanza, piuttosto che robot che riescono a realizzare in totale autonomia alcune commissioni. Ci sono addirittura robot di compagnia in Giappone, prototipi di badanti, ci sono poeti che in realtà sono macchine e che riescono a usare il linguaggio creativo, e questo ci sottopone nuovamente ad alcune delle questioni di cui dicevamo all’inizio.

Il rapporto tra lavoro morto e lavoro vivo, si pone in termini completamente nuovi e qui ci sono due grandi orientamenti: il primo è quello che vede nel potenziamento del corpo attraverso le tecnologie, sia di tipo biologico che di tipo meccanico e bionico, una grande risorsa per l’interazione delle specie, quindi per inventare nuove soggettività; e c’è chi vede in questo invece una sorta di totale, quasi francofortese, dominio della tecnologia sulla vita.

Personalmente credo che entrambe le interpretazioni e le prospettive evocate siano in questo momento insufficienti a dare conto di quello che sta accadendo, e non dobbiamo assumere la questione della tecnologia al di fuori di quelli che sono i rapporti sociali di produzione, al di fuori dei rapporti che la soggettività intrattiene con la questione della estrazione del valore e della sua accumulazione. Credo che se facessimo l’errore di vedere le cose al di fuori di uno schema di questo tipo probabilmente perderemmo di vista quella che Panzieri chiamava la parzialità della tecnologia, l’intrinseca parzialità della tecnologia.

Un soggetto viene potenziato per scopi precisi,e difficilmente riesco a immaginare una soggettività autonoma che realizza la sua potenza soggettiva e il suo desiderio attraverso l’applicazione tecnologica prodotta dal Capitale, perché le macchine che servono a ibridarla col vivente sono tutte macchine che hanno come scopo quello di aumentare la performatività del gesto, e per performatività del gesto intendo la sua riproducibilità tecnica, la sua modalità di organizzazione nel mercato secondo appunto bisogni sociali che esprimono richiesta di nuove merci.

Credo che qui la riflessione di Panzieri si fa particolarmente sensibile e vada recuperata, questo non vuol dire però scadere in una visione di tipo neo-luddista o comunque antitecnologica, credo che questo alzi il livello della sfida per certi versi, e se questa sfida trova contestualizzazione all’interno di un’analisi e di un analitica che assume il capitalismo come il luogo dello sfruttamento, e riusciamo anche a distinguere quando una tecnologia di potenziamento della vita è in un certo qual modo già del tutto inscritta in una logica prestazionale piuttosto che in una logica di arricchimento del vero potenziale della vita e della gioia che una vita deve riuscire a determinare.

L’invito è in altre parole quello di non riflettere in termini neutri la questione dell’intelligenza artificiale, tenendo conto che il cognitivo che sostiene il progetto di queste macchine è comunque ancora a livelli piuttosto bassi, cioè per quanto siano già estremamente avanzati il vero salto qualitativo è ancora da fare,ed è quello di capire quando effettivamente sia possibile produrre un salto che assuma non solo l’aspetto prettamente cognitivo ma anche quello qualitativo, emotivo, delle procedure di queste macchine, cioè il punto vero di rottura sarà quando queste macchine non solo sapranno scegliere tra una serie elevatissima di possibilità, l’opzione più efficiente, ma quando sapranno anche fallire, sapranno anche porsi il problema della propria distruzione, sapranno scegliere non solo in base alla logica prestazionale, quando sapranno fare i conti con elementi che non sono riconducibili a una massa di dati molto elevata ma che ha a che fare con la relazione complessa tra questi stessi dati.

Io su questo penso che siamo ancora molto lontani dall’immaginare una macchina che sappia agire in termini di autonomia, oggi è sempre una logica di prestazionalità che è all’opera, e su questo bisogna aprire un cantiere di riflessione molto ampio perché altrimenti cadiamo o nella esaltazione di una tecnologia che non è mai neutrale o all’opposto in un timore che ci sia una sorta di origine dell’umano da preservare ad ogni costo. Entrambe queste opzioni fanno il gioco di un capitalismo che invece ha l’obiettivo di portare la crescita e l’accumulazione a livelli sempre più alti, e questo vuol dire non solo in termini estensivi ma anche in termini intensivi, come ad esempio le capacità di un robot di dire parole dolci e rassicuranti.

C’è un episodio di Black Mirror in cui una ragazza che perde il fidanzato in un incidente d’auto ordina una sua “copia” ad un’azienda che produce robot, e le arrivano le diverse parti del corpo morfologicamente identiche al suo ex ragazzo. Lei le assembla e poi carica una serie di file cognitivi del fidanzato che vengono prodotti attraverso tutta una serie di registrazioni video, di post su Facebook, di tutta la vita digitale del fidanzato morto, e sembra che così il software sia in grado di rispondere nel modo in cui lui avrebbe risposto in vita, inoltre il software è capace di correggere se stesso, imparando dagli errori, quando lei dice che no, no non avrebbe risposto così il suo fidanzato.., che avrebbe risposto in un altro modo, e questo robot umanizzato risponde: “scusa adesso cambio”, e comincia a routinizzare tutta una serie di risposte adeguandole all’aspettativa vera e propria della acquirente. All’inizio funziona. La ragazza ha rapporti sessuali con il robot-fidanzato, ci va a spasso e si intrattiene con lui, perché ciò che le manca è la presenza del suo ragazzo, in modo così forte, così straziante che all’inizio usa il robot per rifiutare il lutto, per evitare di assumere quella perdita.

Poi però tra la vita e la sua copia robotica, c’è una distanza che neanche la macchina più avanzata riesce a colmare: l’imprevisto. L’imprevisto non è nella possibilità della macchina, e lei finisce per sentirne la inautenticità e a riporlo in soffitta, come qualsiasi altro gadget. Questo aspetto ancora manca all’artificiale, perché quest’ultimo si basa su di un principio di tipo cognitivista, che non tiene conto invece dell’inconscio e di come l’inconscio e le sue forze e le sue forme sono in continua tensione. C’è un reale dell’inconscio che non è riproducibile. Almeno fino ad oggi. Ad esempio è vero che alla fine degli anni novanta il campione russo di scacchi Kasparov ha perso la sfida contro deep blue, il computer dell’IBM, però una partita riuscì a vincerla e altre a pareggiarle, e tutti usano questo torneo vinto dal computer per dimostrare quanto la tecnologia e l’intelligenza artificiale abbiano superato la qualità dell’uomo, in realtà il fatto che un computer sia in grado di battere il più bravo scacchista al mondo è solo apparentemente una grande vittoria della macchina.

Come ha fatto Kasparov a vincere una partita contro deep blue se la sua capacità di calcolo era così elevata? Quando gli è stato domandato, il russo ha risposto che semplicemente faceva le mosse più assurde che si potessero pensare, pur mantenendole dentro una strategia di fondo.. e che questo ha disorientato la macchina, tanto che è riuscito a non perdere tutte le sfide anche se la macchina possedeva una capacità di calcolo incredibile, anche se riusciva a calcolare la prestazionalità di una mossa, cioè miliardi di mosse, in pochi secondi, quindi sulla carta era impossibile batterlo perché gli scacchi sono un gioco finito, hanno un numero finito di giochi possibili, quindi una macchina cognitiva dovrebbe poter battere qualsiasi uomo perché, molto semplicemente, l’uomo contrariamente al computer non è in grado di calcolare come queste mosse si evolvono a partire da una mossa che si decide di fare.

Allora mi chiedo che cosa è successo? Perché Kasparov è riuscito a vincere e pareggiare alcune partite? Questa è la questione che a mio avviso pone un limite all’idea che l’intelligenza artificiale sarà in grado di ibridarsi completamente con l’uomo.

Possiamo anche presupporre che le stesse macchine che noi creiamo svilupperanno una modalità di interazione e che non saranno semplicemente procedure e computazioni ma degli effetti emergenti che non possiamo prevedere. Se invece non è così, come io penso, allora il rapporto tra intelligenza artificiale e unità biologica si pone ancora tutta nei termini del rapporto sociale di produzione, e di come questo rapporto è o meno coerente con la tecnologie vigenti di produzione, e quindi bisogna fare politica prima che fantascienza.