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Il razzismo non è un inganno

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Intervista di Steven Casaretti a Miguel Mellino su governo delle migrazioni e razzismo

Nel bel mezzo di una noiosa campagna elettorale che cavalca strumentalmente le questioni relative al governo delle migrazioni, Miguel Mellino offre un punto di vista acuto e critico nel merito del razzismo che trasversalmente dilaga tra destra e sinistra.

Le politiche del governo in materia di immigrazione sono il punto di partenza di questa chiacchierata.

Possiamo secondo te sostenere che l’incapacità del sistema politico di gestire in modo efficace, equo ed equilibrato le migrazioni contemporanee stia contribuendo ad inasprire i toni del dibattito?

Io non parlerei di incapacità, perché così facendo presupporremmo la possibilità in seno al governo di un “circolo virtuoso” nella gestione delle migrazioni. Questo fattore non si dà nei sistemi politici moderni in quanto non ci potrà mai essere una politica di Stato che in qualche modo non si serva del dispositivo razzista e razziale. E questo perché essi stessi sono costitutivi sia del modo di produzione capitalistico, sia della costituzione materiale degli stati-nazione europei. A livello storico possiamo individuare questo atteggiamento, così come lo registriamo nella sua forma moderna, con la conquista dell’America e poi con il suo lento protrarsi al resto del mondo. Non è un fattore che puoi espellere dall’interno, per superarlo avremo bisogno di reimpostarlo, nel senso di sovvertire l’ordine costituito, dall’esterno. Porre il razzismo e i suoi dispositivi di gerarchizzazione sociale in questi termini vuol dire attuare una ricalibrazione della sua analisi, un ripensamento generale. Per eliminare questa sovrastruttura, per avere un superamento della questione dovrebbe cambiare l’“intero sistema” in cui ci muoviamo.

Possiamo dire quindi di intendere il razzismo come un fattore strutturato all’interno dei sistemi di governo, ma che nelle sue varie modalità di applicazione si comporta come fattore strutturante, cioè che continua ad informare tutta una serie di pratiche, di sistemi di inclusione esclusione che regolano i vari rapporti sociali.

Esatto, riprendendo la formula della “doppia assenza” di Abdelmalek Sayad riguardo l’immigrazione, possiamo dire che il razzismo è un fatto sociale totale. È un fattore che, pur trovandosi strettamente vincolato con i dispositivi capitalistici di governo, è riuscito nella modernità a superare questa sua condizione e a plasmare, in maniera sempre più progressiva, ogni sfera della vita sociale e culturale. Rifacendoci a Stuwart Hall e alla tradizione dei Cultural Studies, possiamo intendere il razzismo come una sorta di changing same, un medesimo che cambia, dove le forme mutano ma l’impostazione rimane la stessa. Questo razzismo costitutivo adotta una tattica progressiva e mutevole che si adatta alle contingenze storiche ed investe dei suoi dispositivi tutta la società. Dobbiamo quindi calare il razzismo nei diversi contesti storici e geografici, tenendo in considerazione le lotte politiche antirazziste e le varie forme di resistenza migrante che l’hanno costretto alla sua continua riformulazione. Una frase di Malcom X riassume bene questa capacità: «il razzismo è come una Cadillac, ne esce ogni anno un modello diverso ma resta pur sempre una Cadillac».

Rimanendo all’interno di un discorso post-coloniale sulle migrazioni contemporanee, possiamo parlare, rifacendoci ancora ad Hall, di una sorta di margini che comprimono spingono verso il centro?

Si, lo schema che proponi è giusto, ma va adattato a seconda dei contesti storico-economici specifici. In Italia c’è stato un cambiamento negli ultimi anni dovuto alla crisi economica. Quest’ultima ha innescato una discorsività sulle migrazioni e sul razzismo, operata anche a livello istituzionale e di governo, profondamente diversa rispetto alla precedente segnata da un ciclo economico sicuramente non stagnante. Prendiamo il concetto di “inclusione differenziale”; negli ultimi anni, per via della crisi l’abbiamo visto funzionare solo per una parte della composizione migrante, mentre per tutta un’altra parte e per l’insieme dei movimenti migratori stessi possiamo registrare un’esclusione vera e propria. Dove con esclusione non voglio intendere un’estraneità sociale, ma solo il permanere, per questi soggetti, di forti barriere sociali.

Parliamo delle politiche del PD in materia di migrazioni: registriamo da una parte la proposta dello Ius soli poi affossata, dall’altra le missioni in Libia e ora in Niger, le retate e l’allarme securitario nelle città. Alla luce di questo, possiamo parlare di una doppia faccia giocata tra intolleranza e buonismo di facciata?

Non credo che rientri nel buonismo il discorso di Minniti sull’immigrazione. Nell’accordo di integrazione che ha varato il governo di recente sotto il volere e la tutela di Minniti non ritroviamo più l’atteggiamento che poteva avere il PD fino a dieci anni fa. La strategia di Minniti è stata di presentare lo Ius soli come una svolta progressista e di buonsenso, dove però la dimensione e l’aspetto disciplinare sono fortemente presenti. Lo Ius soli deve essere visto come parte di un dispositivo razzista e razziale di governo che assume una postura “progressista” nella concessione dei diritti di cittadinanza ma che vincola quest’ultima all’accettazione e al rispetto delle regole degli ospitanti. È tutto gestito all’interno di questa ottica di differenziazione, di gerarchizzazione della cittadinanza. Storicamente il dispositivo della cittadinanza è servito per creare ulteriori divisioni fra la popolazione di origine migrante. Si è visto in Argentina, Stati uniti, Australia che sono paesi classici di immigrazione e si sta vedendo adesso in Europa e in Italia con il tentativo fatto dal governo con lo Ius Soli.

Propone cioè un’inclusione fortemente selettiva…

Totalmente selettiva, disciplinare e disciplinante. E questo è attestato anche dalle richieste, totalmente arbitrarie, che conteneva; per fare un esempio, quella di disporre di un’abitazione “decorosa / dignitosa”. Tralasciando le modalità di verifica oggettiva di una simile richiesta, vanno considerate le condizioni di vero e proprio apartheid in cui ancora dopo quaranta anni vivono le diverse componenti della popolazione migrante in Italia, che rendono questa richiesta non così semplice da rispettare, soprattutto in un paese in cui la mobilità sociale per gli stranieri è già scarsa o nulla. Inoltre lo Ius soli è stato inteso come legato ad uno Ius culture. Prevede cioè un’assimilazione obbligatoria e il riconoscimento tacito della superiorità della cultura italiana ed europea rispetto al portato culturale del migrante. L’accordo di integrazione e in buona parte tutta la progettazione dello Ius soli ha come referente silenzioso una sorta di migrante islamico in odore di terrorismo o portatore di uno stile di vita antioccidentale, antieuropeo, poligamo.

Come possiamo vedere da questi fatti, il dispositivo della cittadinanza, sia nella sua applicazione storica, sia nello specifico del caso italiano rimane una modalità di gestione altamente selettiva e disciplinare. Premesso questo, io sono a favore dello Ius soli; nel senso che, in un un’ottica pragmatica, penso che per una parte della componente migrante avrebbe effettivamente potuto migliorare la loro condizione.

Non registriamo dunque la tanto paventata integrazione, ma un’assimilazione subalterna alla cultura dominante intesa come accettazione imposta dei valori e della cultura degli autoctoni...

Certo, è la richiesta di un’incorporazione totalmente subalterna che comporta la dismissione dei valori più rappresentativi del loro diverso portato culturale. Ciò che della cultura del migrante si è disposti ad accettare sono invece, come ulteriore dispositivo razziale e razzista, gli aspetti più superficiali ed esteriori come la cucina etnica o il vestiario. Inoltre, lo Ius soli è stato anche dispositivo di cattura delle lotte dei migranti degli ultimi dieci-quindici anni. Nel senso che è esso rappresenta il sistema attraverso cui lo Stato vuole governare le istanze venute da queste lotte, riconducendole all’interno di un sistema incerto di diritti e riposizionando, nella specifica ottica di controllarli, i conflitti di carattere strettamente materiale.

C’è forseanchedell’altro che rimanda alle aspettative legate a un provvedimento simile. Possiamo dire infatti che lo Ius soli diventa una forma di autoregolazione, in cui si assiste allo smorzamento volontario di tutti quegli aspetti che la società di arrivo non è disposta ad accettare?

Certo, è un rendere governabile il migrante e le stesse migrazioni a partire dai bisogni economici dell’Italia. In termini materialistici, il dispositivo securitario fa parte, come referente tacito, dello stesso Ius soli. Esso si inscrive a pieno nella razzializzazione della politica odierna, dove qualunque tematica, istanza, viene razzializzata, sia dalle istituzioni che dai partiti di estrema destra, destra e sinistra istituzionale. Il movimento antirazzista italiano è sempre più inefficace per opporsi a questo tipo di razzializzazione e al tipo di discorso che abbiamo oggi. E questo per diversi motivi: il primo è perché continua a ragionare in termini emergenziali, di immigrazione e accoglienza, seguendo i termini del discorso imposti dalle istituzioni. Non dico che non ci debba essere una lotta sull’accoglienza, una lotta contro i confini, ma ragionando su questi temi in maniera esclusiva si rischia di restare sempre all’interno di una zona d’azione i cui confini sono delimitati dalle stesse istituzioni. Non possiamo non tener conto che in Italia ci sono cinque milioni di cittadini che hanno un regolare permesso di soggiorno e che si trovano ad affrontare problemi che non sempre sono legati alle questioni relative all’accoglienza. L’inefficacia dell’antirazzismo odierno si evince dall’incapacità di rapportarsi anche con queste figure. Soprattutto perché, a differenza di altri paesi come l’Inghilterra, la Germania o la Francia dove la lotta portata avanti dai migranti ha imposto nel dibattito pubblico un certo tipo di discussione, temi come il razzismo istituzionale, la segregazione, il razzismo strutturale e strutturante delle società europee, in Italia non si è dato nulla di tutto questo. Il discorso antirazzista deve riuscire a mettere in discussione la stessa società italiana e il suo razzismo strutturante, non semplicemente il permesso di soggiorno; quest’ultimo resta sicuramente un aspetto rilevante ma insufficiente se non si arriva a mettere in discussione quell’altro aspetto, più profondo e strutturale, che in Italia fa fatica ad emergere. Occorre cioè calarsi nella materialità dei processi del razzismo istituzionale e della segregazione di fatto.

Si continua cioè a concepire il razzismo come un problema ideologico, occultando la sua concreta incidenza nella materialità del vissuto quotidiano....

Esatto. E non soltanto in relazione all’ambito lavorativo, ma anche rispetto alle questioni sociali, a ciò che avviene ad esempio sugli autobus, all’esperienza che fanno i bambini a scuola, tutti aspetti su cui il movimento antirazzista italiano è largamente deficitario. È necessario fare questo salto d’interpretazione del razzismo, altrimenti si rischia di restare sempre in un’ottica emergenziale. Oggi la questione dei richiedenti asilo, la questione migratoria in generale, il tema delle frontiere, non sono secondarie ma è sempre più evidente la necessità che le lotte antirazziste debbano riguardare anche quell’altra parte della popolazione che possiede già il permesso di soggiorno e ha le “carte in regola”, ma vive profondi processi di sfruttamento e marginalizzazione.

C’è invece chi riesce, in modo strumentale, a calarsi nella materialità dei problemi legati al razzismo, penso alla retorica politica delle destre che investe tutto un immaginario collettivo fortemente connesso alle problematiche sociali. Da questa angolazione, possiamo dire che il successo del loro discorso razzista poggia proprio sulla capacità di mettere a nudo la dimensione materiale della questione e le contraddizioni legate ad una composizione di classe impoverita e declassata nella crisi?

Questo è un discorso che si presta a più interpretazioni: la prima è che non vedo una grande differenza fra la retorica politica dell’estrema destra e quello che potrebbero dire le istituzioni. Perché se consideriamo l’ordine del discorso degli ultimi venti anni rispetto alle migrazioni, esso è totalmente plasmato sull’agenda politica dell’estrema destra degli anni ì90. A quel tempo il discorso della Lega in Italia, del “Front National” di Le Penn, del “British National Front” in Inghilterra e anche di tutti i partiti di estrema destra che allora rappresentavano una componente minoritaria, non differiva molto dalle retoriche attuali. Possiamo dire infatti che questi approcci sono diventati oggi le parole d’ordine del discorso stesso. Se consideriamo la legge Minniti, nei suoi risvolti pratici non troviamo differenze rispetto alla retorica di Casapound sull’immigrazione. L’approccio del PD alla gestione delle immigrazioni, con tutto il suo apparato repressivo e disciplinare di violenza, non differisce molto rispetto alle istanze che pone Casapound, le quali appunto sono tutte tese allo sfruttamento del rancore dei ceti declassati.

In questo senso io non vedo una grande differenza. E ci terrei a non fare delle distinzioni tra l’atteggiamento rispetto alle migrazioni dell’Unione Europea e delle istituzioni italiane sia come centro-destra che come centro-sinistra. Un atteggiamento dicotomico che oscilla fra un’accoglienza di facciata e le modalità di gestione di questa accoglienza,che è stata trasformata in business, mentre si fanno accordi di migration compact, si mantengono i campi di concentramento, si fanno retate securitarie il cui fine è la “deportazione” del migrante ormai fatto oggetto. Un atteggiamento ben riassunto dalla legge Minniti che prevede la proliferazione di centri di rimpatrio in tutta Italia.

Nel merito dell’altra questione che poni, penso che le destre riescano ad essere più efficaci perché, come già dicevo, hanno dalla loro l’egemonia discorsiva mentre la sinistra, a livello di militanza territoriale, negli ultimi venti anni non è riuscita ad entrare nel vivo della materialità delle problematiche.

Un ulteriore elemento dipende dalla mancata analisi del razzismo nella sua reale incidenza sul piano sociale. La destra ci crede al razzismo, noi no! Pensiamo sia semplicemente un inganno di Borghezio, di Marie Le Penn, una strategia discorsiva di Salvini. Tutta la sinistra radical europea pensa sia un inganno e non abbia un effetto materiale, né di tipo psicologico, né tantomeno culturale. Ed anche una parte della militanza antirazzista italiana continua a porre la questione del razzismo come di una strategia di dominio rivolta a dividere un ceto operaio unito (non si sa bene da cosa). Bisogna ragionare in termini inversi. Il ceto proletario si trova già diviso, sta a noi individuare le modalità per unirlo, a partire da un’incorporazione all’agenda politica della tematica antirazzista. Bisogna produrre una teoria antirazzista globale, solida a livello epistemologico, politico e anche come strumento di analisi della realtà. Non può essere semplicemente accorpata alla lotta contro il debito, i confini, la precarizzazione. Un ragionamento simile è di corte vedute, in quanto intervenire a questo livello vuol dire operare già all’interno di un impianto strettamente controllato da questo dispositivo di potere. Dobbiamo reimpostare la lotta politica sui diritti di cittadinanza ponendo l’antirazzismo davvero al centro; e questo sia a livello della costituzione storica della cittadinanza europea sia, in termini ancora più generali, dell’economia capitalistica moderna.