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Rifiuto del lavoro e disciplina

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Articolo di Federico Bellini nel dibattito sul rifiuto del lavoro qui aperto dal testo di Anna Curcio

Cosa fare? ... niente.

“Bartlebooth decise un giorno di organizzare tutta la sua vita intorno a un progetto unico la cui necessità arbitraria non avrebbe avuto uno scopo diverso da sé. L’idea gli venne quando aveva vent’anni. Fu sulle prime un’idea vaga, una domanda che si poneva: cosa fare?, una risposta che si abbozzava: niente.”[1]

Bartlebooth, il protagonista del romanzo del 1978 di Georges Perec La vita istruzioni per l’uso, è un ricco esteta che, condannato da una spropositata ricchezza a non avere necessità di lavorare e trovandosi privo di desideri, sogni e ambizioni, decide di organizzare la propria vita intorno a un progetto tanto futile quanto ossessivamente determinato. Per dieci anni avrebbe studiato l’arte dell’acquerello; per vent’anni avrebbe viaggiato per il mondo dipingendo una veduta di un diverso porto ogni due settimane; per altri vent’anni si sarebbe dedicato a ricomporre i puzzle che un artigiano specializzato avrebbe ricavato ritagliando ad arte i dipinti. A mano a mano che gli acquerelli fossero stati ricomposti, li avrebbe immersi in una soluzione solvente “da cui non sarebbe riemerso che un foglio di carta Whatman, vergine e intatto.”[2] Il progetto, della durata totale di cinquant’anni, avrebbe idealmente assorbito l’intera vita del personaggio in un’impresa tanto strabiliante quanto sterile e che per mezzo di “trasformazioni precise di oggetti finiti”[3] avrebbe riportato al punto iniziale senza lasciare traccia.

Programmare con puntiglio, eseguire con diligenza e dedizione, investire tempo ed energie a oltranza, coinvolgendo nell’impresa numerosi altri attori (il servitore Smauft, il maestro di acquerello Valène, il costruttore di puzzle Winckler, ...), e tutto questo per fare... niente? Che attività è quella cui si dedica Bartlebooth? Privo di salario, non eterodiretto, non subisce sfruttamento né alienazione – o almeno non nel senso canonico – e consuma ricchezza anziché produrla: quello di Bartlebooth non può certamente essere visto come un lavoro. Al contrario, esso è affine a quel concetto di attività in quanto opposto del lavoro cui fa riferimento Anna Curcio e che qualifica, sulla scia di Romano Alquati, quale zona che precede il lavoro e si apre in seguito al suo rifiuto. Se propria di questa modalità dell’agire deve essere “l’autonoma gestione dei contenuti e soprattutto dei tempi del lavoro”, Bartlebooth la incarna ai limiti dell’eccesso. Tuttavia risulta difficile, se non impossibile, riscontrare nell’apatico Bartlebooth quell’“estraneità gioiosa alla produttività” che, sempre secondo Curcio, dovrebbe caratterizzare lo statuto dell’attività come “espressione almeno in potenza libera dell’agire umano”.[4]

La ripetitività, l’inflessibile programmazione, la radicale estraneità del processo rispetto al soggetto, avvicinano l’agire del personaggio al lavoro nella sua declinazione più alienante. Anche se autoimposta, si tratta di un’attività che risucchia la vita e le energie di una persona per spingere avanti una danza meccanica che non porta in alcun dove. Allo stesso tempo, tuttavia, un’aura di indiscutibile fascino emana dallo schema di Bartlebooth, segnalando una radicale emancipazione dalle forme consuetudinarie in cui si realizza il lavoro. Bartlebooth appartiene a quella stirpe numerosa di personaggi che popolano la letteratura moderna e che incarnano in un certo modo, e per ciascuno diverso, una opposizione al lavoro, diventando così altrettante figure del pensiero a partire dalle quali possiamo rimettere alla prova i nostri concetti di lavoro e del suo opposto.

Bartleby Vs Bartlebooth?

Nel nome stesso del protagonista del romanzo, Bartlebooth, si annida un riferimento al Bartleby del racconto di Herman Melville, capostipite degli eroi letterari del rifiuto del lavoro che già dieci anni prima di La vita istruzioni per l’uso aveva ispirato a Perec lo straordinario Un uomo che dorme (1967). Può non risultare immediata la parentela fra le due figure: lo scribacchino nell’ufficio polveroso di Wall Street che preferirebbe di no e che una strana sorte ha elevato a paladino di una parte della sinistra mondiale da un lato, e il miliardario parigino che scialacqua un patrimonio per dipingere marine destinate a scomparire come scritte sul bagnasciuga dall’altro. Eppure, la strategia messa in atto da Perec nell’attivare questo richiamo intertestuale è tutt’altro che meramente ludica e mira ad affiancare l’“eroe” melvilliano con una figura altrettanto potente e altrettanto problematica.

Entrambi i personaggi rappresentano una forma di reazione e opposizione al lavoro in quanto, come giustamente osserva Anna Curcio, “invenzione umana” della modernità, fulcro della matrice del mondo come lo conosciamo tanto sul piano ideologico quanto strutturale. Entrambi i personaggi, negando il lavoro, svelano il suo statuto essenzialmente contingente e artificiale, non necessario. Allo stesso tempo è evidente come tale rifiuto assuma nei due personaggi una connotazione assai diversa, che corrisponde a due diverse modalità di tirarsi fuori, o di provare a tirarsi fuori, da questa matrice.

La strategia di Bartleby è quella di opporre all’ethos del capitalismo moderno un “preferirei di no” che è allo stesso tempo rifiuto dell’etica protestante del lavoro e dell’individualismo, quanto dei valori dell’edonismo e della charity che apparentemente, ma solo apparentemente, ad essa si oppongono. Il “preferirei di no” di Bartleby è allo stesso tempo un tirarsi indietro dall’ingiunzione al lavoro che è saldata al nucleo perverso della soggettività contemporanea, quanto un tirarsi indietro da quello che sembra essere il suo facile opposto, ossia la fiducia che uno spontaneo abbandono ai propri gusti e desideri sia di per sé già un modo di essere liberi. Il suo preferire di no è allo stesso tempo un preferire di non agire, di non produrre, e un preferire di non preferire, di non avere preferenza, un gusto, uno stile che legittimi il ruolo del consumatore di merci.

La strategia che mette in atto Bartlebooth muove invece dal principio opposto. Anziché creare uno scarto da ciò rispetto cui si oppone, essa vi aderisce in modo tanto radicale da riuscire paradossalmente a ribaltarlo su se stesso. Bartlebooth si appropria della forma astratta del lavoro e la svuota dal di dentro, conducendola a un tale livello di autoriflessività da farla sfumare. Se ciò che chiamiamo capitale avesse facoltà di sognare, la produttività che non produce altro che l’annientamento di sé che Bartlebooth mette in campo sarebbe il suo sogno più audace, il suo più sublime desiderio. E allo stesso tempo, nello svanire di ogni possibilità di accumulazione, la sua più tetra paura.

Se la resistenza passiva di Bartleby agisce per mezzo di una progressiva scomposizione, un avvicinarsi asintotico allo zero, l’attiva passività di Bartlebooth tenta di far svanire d’un colpo il segno negativo elevandosi al quadrato. Se Bartleby è figura schopenhaueriana della rinuncia, Bartlebooth è figura nietzschiana nel superamento. Il malinconico e lo schizofrenico, lo squatter e il dandy, il sottoproletario e l’artista, Blanchot contra Deleuze, morfina contro anfetamina. Entrambe sono forme possibili di una opposizione al lavoro, entrambe aprono a una sua critica radicale ed entrambe, e sta qui il punto cruciale, non possono che fallire.

Una W in mano e una X sul tavolo

Il progetto di Bartlebooth, per quanto studiato nel dettaglio e sostenuto da una volontà e da risorse inesauribili comincia col passare degli anni a incrinarsi. La guerra intralcia gli spostamenti, l’impoverimento della vista del personaggio rende difficile comporre i puzzle, la realtà e la materialità si impongono su una teoria troppo cristallina per essere vivibile. Ma l’ostacolo più difficile che Bartlebooth si trova a dover affrontare è più subdolo e ci porta al cuore del nostro problema.

Il critico d’arte Beyssandre viene a sapere del progetto di Bartlebooth, se ne invaghisce e decide di volersi impossessare degli acquerelli per sottrarli a questa macchina autodistruttiva ed elevarli ad opere d’arte, bene da conservare e valorizzare, investimento produttivo. La strategia finalizzata ad autocancellarsi, a non generare valore e ricchezza, a produrre niente, viene mandata a gambe all’aria dalla decisione esterna di appropriarsi di quel prodotto che viene così trasformato in merce. E’ l’allegoria della capacità in nessun modo imbrigliabile del capitale di fare proprio ciò che prova ad opporvisi. Come tutte le controculture, una volta investite dai riflettori del capitale, diventano moda, così al fare nulla di Bartlebooth non è concesso realizzarsi. Suo malgrado è costretto a entrare nell’arena di un conflitto lasciandosi alle spalle il distacco che lo individuava: è spinto a incenerire i fogli per sottrarli agli artigli del suo avversario e deve affannarsi per portare avanti il suo progetto prima che il deperimento organico glielo impedisca. Una sorte analoga a quella di larga parte del lavoro contemporaneo, che come ha raccontato il sociologo Pierre-Michel Menger[5], trova nella figura dell’artista non più il suo opposto – come forse poteva essere fino agli anni Sessanta –, ma il suo modello, trasformando spirito innovatore, ricerca di uno stile e creatività in falso progressismo, imposizione di una competitività sterile e precarietà.

Il tentativo di fuga dal lavoro di Bartlebooth fallisce, così come era fallito quello del suo predecessore Bartleby, il cui finale tragico segnala il riassorbimento della resistenza passiva nel sistema. Ormai cieco, Bartlebooth si affretta per concludere il puzzle che ha davanti ma la morte lo sorprende con un ultimo tassello in mano.

“Sul panno del tavolo, chissà dove nel cielo crepuscolare del quattrocentotrentanovesimo puzzle, lo spazio nero dell’unico pezzo non ancora posato disegna la sagoma quasi perfetta di una X. Ma il pezzo che il morto tiene fra le dita ha la forma, da molto tempo prevedibile nella sua stessa ironia, di una W.”[6].

Così come vanno prese sul serio le figure letterarie del rifiuto del lavoro nel loro consentire di gettare uno sguardo al di là del lavoro, così vanno prese sul serio nel loro dimostrare che lo spazio che si apre al di là di esso non è certamente un territorio vergine e aperto che attende di essere colonizzato, ma un abisso attraversato da tensioni contraddittorie in cui si procede sospesi su un filo verso una direzione solo in parte prefigurabile. Ci troviamo costantemente di fronte a conti che non tornano, cercando di sovrapporre W e X fino a quando non accettiamo di ripensare il puzzle da capo, consapevoli però che per ogni problema locale risolto se ne apre uno più ambiguo a livello di sistema. Se davvero il lavoro è la cifra, artificiale e storica certamente, ma altrettanto egemonica della modernità capitalistica, se davvero esso è la matrice prima della nostra idea di mondo, quello che possiamo trovare al di sopra o al di sotto di esso non può che apparire, almeno in prima istanza, come una materia ancora tutta da modellare.

Così, se leggiamo questo spazio all’insegna del concetto di attività, come fa Anna sulla scia di Alquati, dobbiamo, mi pare, guardarci dall’assolutizzarlo oltremisura opponendolo alla storicità del lavoro come se si trattasse di una dimensione assoluta e sovrastorica, e ancora più dall’identificarla con un’ipotetica essenza dell’uomo. Affermare che il lavoro “viene dopo”, descrivendo come fa Alquati i meccanismi di lavorizzazione mediante i quali esso colonizza l’agire umano, non significa che il “prima” fosse meno storico e contingente. Se si definisce l’attività come “bisogno radicale, di base e universale nel tempo e nello spazio e proprio della natura peculiare degli esseri umani”[7] si perde di colpo il vantaggio guadagnato segnalando la storicità e la località del lavoro, la sua estraneità rispetto al nucleo dell’umano. Foucault ci ha messo in guardia una volta per tutte nei confronti di questo tipo di assolutizzazioni, ed è quindi cruciale conservare in modo chiaro la dimensione evanescente del concetto di attività come “luogo di passaggio” non definito e non definibile.

Se si vuole opporre al lavoro una alternativa che non si riveli subito un miraggio, essa dovrà essere una realtà aperta, processuale, indefinita. Soprattutto, non possiamo immaginarci questa incognita come una natura che basta svelare, lasciare uscire, tirare fuori, ma come qualcosa ancora tutto da costruire, come è ancora sempre tutta la costruire la più artificiale delle costruzioni umane, la libertà.

Fra 5.607.249 e l’infinito

Un giorno del 1965 Roman Opalka dopo aver intinto un pennello no. zero nella vernice bianca tracciava un numero 1 all’angolo di una tela nera dando così inizio all’opera OPALKA 1965/1 - , una serie di migliaia di tele 196 x 135 cm interamente ricoperte dalle cifre consecutive dei numeri naturali, ordinatamente disposti uno in seguito all’altro, riprendendo in ogni tela il computo interrotto in quella precedente. Ciascuna cifra, ciascun numero, ciascuna tela un passo avanti, schiarendo di volta in volta lo sfondo che da nero si fa grigio e da grigio, a partire dal 2008, diventa bianco, il “blanc mérité”, il bianco ben meritato, sul quale Opalka ha continuato a tracciare i suoi numeri fino alla morte, avvenuta nel 2011.

Se devo pensare a una figura che funga da guida concettuale nella ricerca auspicata da Anna di una forma di rifiuto del lavoro per il presente la mia proposta è Roman Opalka. Il suo gesto è allo stesso tempo affine quanto radicalmente asimmetrico sia rispetto a quello di Bartleby che a quello di Bartlebooth. Alla negazione radicale per virtù di preferenza del primo egli oppone l’affermazione di una singolarità che si dispiega tracciando dall’interno del sistema una linea di fuga dal sistema stesso. All’ossessione pianificatrice di Bartlebooth che impone in un ritorno allo zero la circolarità del suo percorso oppone una disciplina sistematica la cui apertura è incarnata dal simbolo dell’infinito nel titolo dell’opera.

Se “l’agire umano è potenzialmente autonomo”[8], lo è solo nella misura in cui si autoimpone una disciplina che fa propria la negatività del presente, la negatività del lavoro, e che la trasforma in occasione di ricerca e di potenza creativa. Allo stesso modo del gesto dell’artista o dell’atleta – si tratta di un tema cui ha dedicato illuminanti riflessioni Peter Sloterdijk – il soggetto è perfezionato nella disciplina dell’allenamento, dell’apparentemente sterile ripetizione, che è allo stesso tempo rischio di alienazione e occasione di superamento.

Nella distanza che separa 5.607.249, l’ultimo numero che Opalka ha avuto modo di tracciare, e l’infinito che si era proposto si evidenzia la dimensione sempre aperta dello spazio dell’alterità, la necessaria presa di coscienza del fatto che ciascun percorso che si proponga di rifiutare il presente deve partire dalla negatività che lo abita e farsene carico. Il rifiuto incarnato nel gesto dell’artista è sommamente meccanico ma allo stesso tempo testimonia una volontà più forte di ogni sentimento di futilità. Nella ripetizione emerge la ricerca di una perfezione che è sempre un passo più avanti ma che lascia una traccia da interrogare, come una piuma d’angelo rimasta a terra dopo l’epifania.



[1] Georges Perec, La vita istruzioni per l’uso, BUR, Milano 1997, p. 128.

[2] Id., p. 129.

[3] Ibid.

[4] http://commonware.org/index.php/cartografia/800-lavoro-non-lavoro-gratuita

[5] Pierre-Michel Menger, Portrait de l’artiste en travailleur.Métamorphoses du capitalisme, Seuil, Paris 2003.

[6] P. 502.

[7] Romano Alquati, Lavoro e attività, manifestolibri, Roma 1997, p. 16.

[8] http://commonware.org/index.php/cartografia/800-lavoro-non-lavoro-gratuita