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Il marxismo nero di C.L.R. James

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Miguel Mellino recensisce “Non si scherza con la rivoluzione. Marx e Lenin nei Caraibi” di C.L.R. James

La pubblicazione di un testo come You Don’t Play with the Revolution di C.L.R. James (ombre corte, Cura e Introduzione di Gigi Roggero, 12 euro) nell’anniversario dei cento anni della Rivoluzione russa è un fatto sicuramente importante. E questo per una serie di motivi. Innanzitutto, perché, anche se James è stato uno degli esponenti più noti di quello che C. Robinson ha chiamato “Black Marxism”, in Italia la sua opera resta in buona parte sconosciuta. Della sua vastissima, e davvero policroma, produzione, composta di saggi di critica letteraria, di teoria politica e filosofica, di analisi della cultura commerciale di massa, ma anche di un notissimo libro sul cricket (Beyond a Boundary, 1963) e perfino di un romanzo (Minty Alley, 1936), solo due testi sono stati tradotti: I Giacobini neri (1938), che resta comunque il suo lavoro più importante, e Marinai, reietti e rinnegati (1953), una formidabile interpretazione di Moby Dick scritta mentre era rinchiuso a Ellis Island come “straniero non desiderato” durante il maccartismo. Non si scherza con la rivoluzione viene quindi a sopperire in parte questa mancanza. Ma la pubblicazione del testo di C.L.R. è importante anche perché, pur trattandosi di uno dei suoi scritti meno presenti nel grande dibattito internazionale sulla sua opera, è certamente un testo significativo per capire lo sviluppo della sua ricerca teorica e politica. Frutto di alcune lezioni su Marx e Lenin tenute a Montreal tra il 1966 e 1967 per un gruppo di militanti del Caribbean Conference Committe, You Don’t Play With Revolution ci consente di mettere bene a fuoco ciò che possiamo chiamare il James “maturo”, per riprendere un’espressione di althusseriana memoria. Questo libro ci consente dunque di afferrare una parte importante del pensiero di James, un’impresa altrimenti non facile, vista la vastità della sua produzione. Infine, è importante leggere You Don’t Play revolution oggi perché la sua singolare lettura di Marx e Lenin, e il modo di proporla alle popolazioni dell’Africa e dei Caraibi, alle prese in quegli anni con l’implosione del processo di decolonizzazione, ci mostrano non solo una “via nera” al marxismo un po’ atipica nella tradizione del “Black Marxism”, ma anche una concezione del leninismo, pur se del tutto personale e selettiva, affatto scontata nel presente.

Pan-africanismo e rivoluzione

Non si scherza con la rivoluzione, come tutti i testi di James, non è il frutto di un confronto scolastico con Marx e Lenin. Per James non si è mai trattato di fare mera filologia né di affermare una scuola rispetto a un’altra. Il suo scopo è profondamente diverso, e va capito non solo alla luce del suo costante impegno politico, ma soprattutto della sua concezione del lavoro intellettuale come “pedagogia militante”. Una pedagogia militante, va detto, avulsa da qualsiasi forma di avanguardismo. Si tratta sicuramente di uno degli elementi alla base del costante interesse degli Studi Culturali e Postcoloniali anglosassoni per la sua opera. E di una prospettiva che lo avvicina a un'altra figura intellettuale di riferimento per queste correnti di pebsiero, quella di Gramsci. I grandi testi “storici” di James non erano destinati soltanto all’angusto mondo della scholarship: nascevano dal suo coinvolgimento con una determinata lotta politica e venivano concepiti come interventi “tattici” per venire incontro a certe esigenze politiche del momento. The Life of Captain Cipriani (1932), Toussaint L’Ouverture (1934), l’opera teatrale dedicata al leader haitiano (andata in scena a Londra nel 1936 e che ebbe nel ruolo di Toussaint al noto attore, cantante e militante comunista della causa nera negli Stati Uniti, Paul Robeson), A History of Negro Revolt (1937) e The Black Jacobins (1938) sono stati scritti da James sulla scia dell’immigrazione a Londra (1932) e del suo primo incontro con il marxismo e il trotskismo, ma soprattutto del suo crescente impegno nel movimento politico pan-africanista e nella lotta anticoloniale globale. James cercava di parlare a quel “presente” portando alla memoria diversi esempi di rivolte anticoloniali dei neri, poiché, come ebbe a sottolineare in una delle sue affermazioni rimaste più famose, “l’unico luogo in cui i neri non si ribellano è nei libri scritti dai bianchi”. Attraverso questi testi, James intendeva non solo mostrare a neri e caraibici “lo stato delle cose”, ma soprattutto ciò che bisognava fare traendo orgoglio e ispirazione politica da queste importanti ribellioni popolari e anticoloniali. Un evento cruciale in questa prima radicalizzazione del marxismo di James è stato sicuramente l’invasione fascista dell’Etiopia nel 1935. E’ importante ricordare qui che come altri rivoluzionari neri della sua epoca, James fece richiesta per arruolarsi nell’esercito etiopico; e nello stesso anno, stimolato anche dai comizi di Marcus Garvey a Hyde-Park in favore dell’Etiopia, diede vita all’associazione International African Friends of Abyssinia, anche se in un’ottica pan-africanista diversa da quella auspicata da Garvey. James ammirava la capacità di Garvey di mobilitare le masse nere, ma non certo il suo separatismo e la sua enfasi ontologico-razziale sull’essere nero. Si tratta di una diffidenza nei confronti di tutte le ideologie black in qualche modo identitarie che James manterrà lungo tutta la sua vita, anche nelle sue differenze con un movimento a cui fu comunque vicino: quello delle Pantere Nere. James voleva arruolarsi nelle milizie etiopiche non solo per andare a difendere l’Abissinia e combattere il fascismo in Africa, ma anche perché in questa fase egli era convinto della possibilità del successo di un’eventuale lotta armata nelle colonie africane. Un’eventualità che dal suo punto di vista avrebbe dato un contributo fondamentale alla lotta per il comunismo a livello globale. Così nel 1937 sarà tra i fondatori, insieme all’amico George Padmore (l’altro grande marxista di Trinidad, uno dei fondatori del movimenti pan-africanista e consigliere di Nkrumah), Amy Ashwood Garvey (prima moglie di Marcus) e J. Kenyatta dell’International African Service Bureau, un’organizzazione finalizzata a favorire il dialogo tra i movimenti pan-africanisti e il movimento operaio britannico. Il suo impegno nella lotta anticoloniale in Africa raggiunse il suo apice con il viaggio del 1957 nel Ghana di Nkrumah (che aveva conosciuto negli anni precedenti a New York) per celebrare la sua indipendenza dalla Gran Bretagna. James dedicò uno dei suoi saggi più appassionati proprio a ciò che voleva si considerasse una rivoluzione a tutti gli effetti, ovvero alla lotta anticoloniale ghanese: Nkrumah and the Ghana Revolution (1977). Fedele alla sua ottica panafricanista, James cercò di contribuire anche con la lotta per l’indipendenza in Trinidad e in altri paesi caraibici. Così, ritornò in Trinidad nel 1958, e per un periodo (fino alla rottura con Eric Williams, autore peraltro del notissimo Capitalismo e schiavitù, 1946) fu il direttore del giornale The Nation, organo del Partito indipendentista di Williams People’s National Movement. Le sue idee influenzarono non solo Nkrumah e Williams, ma anche altri grandi leader anticoloniali caraibici come N. Manley (Giamaica) e perfino M. Bishop (leader della poco conosciuta rivoluzione socialista in Granada nel 1979). Tutto sommato si può sostenere che in questa fase di “ascesa” delle lotte di liberazione nazionale e del movimento panafricanista, C.L.R. vedeva le masse africane e caraibiche come il principale soggetto rivoluzionario del marxismo. La sua “via nera” al marxismo in questo periodo non era data solo dal suo decentramento del soggetto politico rivoluzionario, rispetto a quello tipico del marxismo bianco ed europeo dominante di quegli anni, ma anche dalla sua enfasi su alcune pratiche culturali tradizionali delle popolazioni nere (per esempio il voodoo nel caso della rivoluzione haitiana) come strumenti di soggettivazione rivoluzionaria. Come notato da Cedric Robinson in Black Marxism, per gli anni trenta si trattava di una “revisione” notevole dell’eurocentrismo e della bianchezza del marxismo dominante. Questa sua visione, diciamo terzomondista ante-litteram, comincerà ad affievolirsi negli anni successivi, in particolare dal suo primo arrivo negli Stati Uniti nel 1939 (invitato dal Socialist Workers Party), ma soprattutto con la constatazione (già verso nei primi anni sessanta) del fallimento del progetto di emancipazione collettiva incarnato dai movimenti nazionali di decolonizzazione.

Marx e Lenin nei Caraibi

Nel 1939 James incontra Trotski in Messico, rimanendo piuttosto deluso dalle sue concezioni “paternalistiche” su “the negro question” e sul ruolo del proletariato nero nella lotta anticapitalista globale. James comincia così una revisione del proprio trotskismo, che lo porterà a rompere con l’internazionalismo del SWP e a elaborare una propria linea, più incentrata sulla concezione della necessaria autonomia del “proletariato nero” in particolare, e della “classe operaia” in generale: la cosiddetta tendenza “Johnson-Forrest”. Importante in questo percorso autocritico è stato il suo incontro con Raya Dunayevskaja, ex segretaria di Trotski, ma soprattutto una delle principali promotrici di un marxismo umanistico negli Stati Uniti; dalla collaborazione tra i due nasceranno altri testi importanti di James, come Notes on Dialectics: Hegel, Marx, Lenin (1948) e State Capitalism and World Revolution (1950). E’ questo il James di Non si Scherza con la Rivoluzione, un James profondamente influenzato dal Marx dei Manoscritti, e che rilegge Il 18 Brumaio di Luigi Bonaparte, le pagine del Capitale dedicate alla riduzione della giornata lavorativa e il Lenin di “I sindacati, la situazione attuale e gli errori di Trotski” per rilanciare la lotta di classe come principio politico fondamentale del marxismo, contro ogni oggettivismo ed economicismo, ma soprattutto l’idea dell’autorganizzazione operaia come base della concezione socialista del potere. La rilettura di James, ancora una volta, è sovradeterminata da quanto stava accadendo nelle ex-colonie divenute indipendenti, in cui le rivoluzioni anticoloniali non avevano fatto che sostituire il dominio europeo con quello delle élites nazionaliste locali, eliminando ogni forma di democrazia popolare mediante la concentrazione del potere politico nel Partito di governo e nello Stato. Dal Marx del 18 Brumaio, James traeva un’importante lezione di metodo per gli intellettuali militanti impegnati nelle ex colonie: da una parte, suggeriva loro di seguire l’estrema attenzione analitica di Marx per la specificità delle diverse contingenze politiche, la sua esigenza di mettere a nudo i rapporti di forza storicamente concreti come momento essenziale di ogni analisi teorico-politica; dall’altra, proponeva di pensare a un’analogia (non certo priva di limiti storicistici e paradossalmente eurocentrici) tra ciò che Marx raccontava sul passaggio da un regime feudale a uno moderno nella Francia post-rivoluzionaria e quanto stava accadendo in molte delle ex colonie: “Marx sembra dire qui che quando un paese coloniale sottosviluppato tenta di trasformarsi in un paese moderno, immediatamente c’è questa enorme concentrazione di potere nelle mani dello stato. E’ ciò cui ci troviamo di fronte. Non è Eric Williams, abbiamo di fronte a un processo oggettivo che avviene in qualsiasi circostanza”. E tuttavia la forza dell’analisi di James in queste pagine, ciò che egli cerca di trasmettere come effettiva lezione di metodo di Marx, sta più che altro nella sua capacità di scomporre i fatti storici sotto osservazione allo scontro dei rapporti di forza da cui sono scaturiti, riaffermando così il primato della contingenza e dell’indeterminazione nella realtà sociale. Attraverso un’analisi che ricorda da vicino, ancora una volta, il Gramsci delle “Note su Macchiavelli”, James sembra voler suggerire ai militanti cui si rivolge che l’esito e la dinamica della lotta di classe sono iscritte da nessuna parte, bensì dipendono sempre da una sorta di “astuzia della politica”. Nel capitolo sulla riduzione della giornata lavorativa, invece, James intendeva ricordare che è solo la lotta di classe a generare mutamenti nelle condizioni di vita del popolo, “a rendere umana e civile la vita degli operai”. Ancora più calzante e diretto il riferimento al Lenin critico di Trotski: James seleziona qui una serie di passaggi in cui Lenin ribadisce che uno stato realmente operaio deve fondarsi solo sul potere dei soviet, sui sindacati, sulla creazione di istituzioni operaie e contadine di autogoverno, e non sulla delega incondizionata del potere da parte degli operai allo Stato o al Partito: “Lenin pensava che anche in una società arretrata, tutte le persone dovessero partecipare nella forma in cui potevano. Dovevano partecipare all’ispezione e al controllo della produzione. Non solo. Affermava che le organizzazioni operaie doveva essere utilizzate per difendere gli operai contro il loro stato. Ho mandato una copia di questi passi di Lenin a Nkrumah trentasei anni fa dopo. Non so se li abbia letti. L’ho visto e gliel’ho chiesto, lui dice di non averli ricevuti. Ma anche se li ha letti, non li ha capiti”.

 

Nkrumah e Detroit: un marxismo nero (in)attuale

James insiste poi sul fatto che l’elemento chiave del comunismo è l’organizzazione; ma l’organizzazione, come insegna Lenin, non può mai arrivare da sola, non può essere pensata come un prodotto meccanico di un certo sviluppo delle forze produttive: deve essere politicamente costruita dalla stessa classe operaia. Va detto che il ragionamento di James non è una mera conseguenza del suo storico e viscerale anti-stalinismo e della sua avversione per l’URSS. Si fonda invece su un’osservazione approfondita della società industriale dei suoi tempi: ciò che sembra dire James è che lo sviluppo capitalistico, soprattutto nei paesi più avanzati, è arrivato a un punto tale che non c’è più bisogno di alcuna avanguardia o partito, e meno che mai della delega del potere allo Stato o a una classe dirigente per organizzare un mutamento rivoluzionario della società. Più avanzato è il grado di sviluppo della produzione (industriale) capitalistica, più possibilità c’è di rompere con qualunque tipo di rappresentanza: politica, economica, educativa. Nonostante le diverse prospettive, e le molte e non secondarie differenze, non è difficile intravvedere qui delle convergenze con il Tronti di Operai e Capitale. Parafrasando Tronti, si potrebbe dire che James avrebbe voluto mandare Nkrumah a Detroit. Il messaggio di James per le popolazioni dell’Africa e dei Caraibi in questa fase storica è certo discutibile, ma è abbastanza chiaro: occorre riprendere la lotta contro i loro governi, non accettare gli stati nazionali nati dalla decolonizzazione, non delegare il potere politico a nessuna rappresentanza o burocrazia, auspicarsi una lenta ma progressiva modernizzazione delle loro società, ma incentrata sulla loro direzione e soprattutto sperare in movimenti rivoluzionari nei paesi avanzati. L’internazionalismo resta l’unico orizzonte possibile di ogni lotta rivoluzionaria.

La visione politica del James “maturo” è tutta qui. E sta qui buona parte del suo “marxismo nero”: anche se forse è il meno nero dei “marxismi neri”. Un marxismo-leninismo nero, comunque, che, pur se assai selettivo e parziale, e se si vuole anche pervaso da una certa visione “coloniale” della storia, nel suo richiamo alla specificità delle congiunture, nel suo accento sulla necessità dell’organizzazione e dell’autonomia politica delle diverse classi proletarie e dell’autogestione come unica forma di governo davvero comunista, si presenta sorprendentemente (in)attuale: e come un ottimo antidoto rispetto a certi presunti “comunismi bianchi”, poiché capace di ridarci almeno l’estrema dinamicità e storicità del pensiero politico di Marx e Lenin. Qualsiasi riferimento a Dardot e Laval è del tutto voluto.

 

* Una versione ridotta della recensione è uscita su “il manifesto” del 12 gennaio 2018.