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La rivolta della fiducia

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Intervista di Anna Curcio e Giuseppe Casale ad Amir Farshadi sulle proteste in Iran

Sulle proteste che in questi giorni stanno infiammando l’Iran circolano cronache e commenti, speso tesi a proiettarvi refrain mediatici piuttosto consolidati. Ci sono invece poche analisi capaci di penetrare nella coltre che avvolge la società iraniana, spiegarne la composizione e la genealogia, riflettere sulle ricorrenze e le novità. Ci abbiamo provato con Amir Farshadi, uno studente proveniente dall’Iran e da qualche tempo in Italia. Amir descrive la forte specificità del contesto politico, sociale ed economico della Repubblica islamica; al contempo, nella sua analisi echeggiano alcuni tratti comuni con altre lotte nella crisi, a partire dalle condizioni di impoverimento, passando per la corruzione del regime, fino ad arrivare alla mobilitazione dei risparmiatori truffati dalle banche. Emerge dalle sue parole una vera e propria rivolta della fiducia, da intendersi in un doppio senso: da un lato si è rotto il rapporto di fiducia con il regime e la possibilità di una sua riforma; dall’altro, si è ricostituito un rapporto di fiducia tra le persone.

Come sono nate le mobilitazioni che stanno infiammando l’Iran?

È una protesta spontanea, nessuno la sta guidando. La protesta è esplosa a Mashhad, una città sciita fondamentalista, in contrapposizione alla politica “riformista” del presidente Rouhani. È stata come un’ispirazione per le persone di altre città e rapidamente quasi ovunque è cominciata una sollevazione contro la Repubblica islamica. Nei primi giorni gli slogan riguardavano le questioni economiche, poi hanno cominciato a prendere di mira Khamenei, i “riformisti”, i “radicali”, tutte le differenti posizioni della Repubblica islamica. Gli slogan mostrano che la gente è stanca, non vuole più questo regime. È la prima volta che gli slogan politici prendono di mira Khamenei, che è sempre stato considerato un santo, soprattutto da parte dei poveri. Si è così rotto un tabù. La gente ha visto in questi decenni il governo iraniano rubare la ricchezza del paese, spendere il denaro del popolo in Siria o in Iraq, le persone non ne possono più della dittatura islamica. La crisi è dunque al contempo politica ed economica. I salari sono bloccati, il costo della vita, del cibo e degli affitti continua a crescere, mentre il regime impedisce qualsiasi forma di critica e dissenso.

Chi sono le persone che stanno scendendo in piazza?

Sono molto differenti tra loro. Ci sono ragazzi, anche molto giovani, padri di famiglia, persone anziane, tra le vittime dei giorni scorsi c’è addirittura un bambino di 11 anni. Tra chi protesta ci sono molti di quelli truffati dalle banche e che hanno perso i risparmi di una vita, ora sono tra i più accaniti oppositori del sistema. Ci sono molte famiglie normali di ceto medio, anche se sono soprattutto esponenti dei ceti sociali più bassi a essere nelle strade. Il ceto medio in Iran ha sempre vissuto in una sorta di confort zone, hanno avuto acceso a una vita agiata; hanno la macchina, fanno le loro feste, possono viaggiare nei paesi vicini, frequentano i bar e i concerti, non sono disposti a mettere in discussione la propria forma di vita. Finché non viene colpito dalla crisi quel ceto medio magari vorrebbe un cambiamento di regime ma non si espone. Nei mesi scorsi qualcosa è cambiato, sono scesi in piazza pensionati e truffati dalle banche, e dopo la protesta di Mashhad è cominciato un tam tam spontaneo soprattutto attraverso la rete, in particolare Telegram, che ha portato la gente a mobilitarsi. Insomma, in piazza c’è un po’ di tutto. Persone che hanno studiato e persone che non hanno studiato (in Iran c’è un’alta percentuale di laureati), ci sono tanti segmenti sociali. Ci sono ad esempio gli anziani che sono passati per la rivoluzione khomeinista e ora dicono “abbiamo sbagliato, stiamo peggio di prima”.

Era possibile immaginare un’esplosione di questo tipo?

Assolutamente no. E il perché si capisce se guardiamo a quello che c’era prima della protesta. A partire dalla rivoluzione islamica khomeinista è stato stabilito un sistema politico istituzionale particolare, con un livello di repressione che alimenta l’emigrazione e la fuga. Negli anni questo livello di repressione ha agito anche sul piano psicologico, gli iraniani non fanno politica perché hanno paura. E quando non è possibile esprimere i propri desideri si finisce per esplodere. È stato così con il movimento dell’onda verde, che ha raccolto una domanda di cambiamento; ma dopo, con la repressione e molte persone uccise, la paura è cresciuta. L’impressione è invece che le proteste di questi giorni invece vadano oltre la paura perché le persone sono stanche di vivere in una costante condizione di povertà e sono disposte anche a morire per cambiare le cose, per questo sono scese in strada.

Dopo la guerra con l’Iraq il sistema economico iraniano ha cominciato a fallire. L’allora presidente Rafsanjani fece delle aperture internazionali che alla fine si sono risolte con un nulla di fatto, perché le sanzioni e l’inflazione hanno pesato fortemente. Così siamo arrivati a questo punto. Adesso il governo si trova in una fase delicata, nessuno può dire cosa succederà. In questi giorni in piazza sono esplosi tutti i problemi accumulati nei passati quarant’anni, durante il periodo di Khatami e del suo governo riformista, durante il periodo di Ahmadinejad che ha rovinato il paese. La gente è stanca, soffre, non ha un obiettivo preciso. L’unico obiettivo è far cadere il regime. Per capire quello che sta succedendo è perciò indispensabile conoscere il sistema politico ed economico iraniano costruito intorno alla guida suprema. A partire dal 19 luglio 1988 sono cominciate le esecuzioni di massa di migliaia di prigionieri politici, andate avanti per 5 mesi e che hanno avuto come obiettivo principali i Mujaheddin del popolo iraniano, noto anche come esercito di liberazione nazionale, e di altre organizzazioni di sinistra come il Tudeh. Le stime delle esecuzioni variano da 8mila a 30mila persone uccise. Sono cose importanti per capire il retroterra delle mobilitazioni odierne, adesso la gente sa tutto. Non ci sono solo le questioni economiche, che pure sono di grande importanza; la repressione politica del dissenso è infatti un elemento che con più forza spinge le persone per strada.

Possiamo dire quindi che la motivazione forte è la contrapposizione al regime. Perché esplode proprio oggi?

Il presidente Rouhani è salito al potere cinque mesi fa, facendo molte promesse di cambiamento. Milioni di persone, provenienti da vari settori della società, hanno dato fiducia a queste promesse, di porre fine all’atmosfera repressiva, di liberare i prigionieri politici, di aumentare i diritti, di mettere fine all’isolamento dell’Iran. Dopo le elezioni le cose sono peggiorate rispetto a prima. La gente che ha votato per Rouhani l’ha visto passare alla parte fondamentalista, quindi pensa di aver sbagliato a votare per lui. I comunisti sostenevano che non bisognava votare, la classe media ha votato, però sono rimasti delusi. Tutti gli strati sociali si ritrovano adesso in questa situazione di sfiducia rispetto alle possibilità di cambiamento del regime. Due mesi fa per la prima volta pensionati e truffati sono scesi in piazza pacificamente. È prevedibile che alle prossime elezioni ci sarà un ulteriore crollo dei votanti, perché la fiducia nel cambiamento è stata ancora una volta tradita.

Le sanzioni di Trump hanno determinato una diminuzione del costo del petrolio, su cui si basa l’economia iraniana, i soldi dall’estero sono dunque bloccati. Ciò ha scatenato la situazione, però non significa che ci siano degli interessi americani nelle proteste. C’è una parte del ceto medio che vuole la democrazia e che però, rispetto all’onda verde, vede venire meno questa possibilità; e poi ci sono i poveri, che hanno determinato una svolta nelle mobilitazioni.

Qual è la connessione tra le forme di vita in Iran e le proteste?

In Iran c’è una sorta di doppia vita. La Repubblica islamica dovrebbe essere una democrazia, ma questo è un paradosso. Il regime iraniano è una dittatura, bisogna obbedire, fare quello che dicono: se sei un buon musulmano o fingi di esserlo, puoi vivere bene. Devi dunque avere una doppia vita: puoi non credere in tutto, ma devi mostrare di credere. Così nel privato puoi fare una serie di cose, ma nel pubblico devi mostrare di essere un buon musulmano. Fin da bambino ti insegnano questo. Questa doppia vita causa tante cattive condotte, come mentire o essere infedeli, che è l’unico modo per avere i propri diritti. Non puoi infatti avere diritti se sei te stesso. Puoi avere i tuoi diritti solo se nello spazio pubblico mostri di essere un buon musulmano. Ci sono molte persone stanche di tutto questo, ne hanno abbastanza. Le proteste lanciano un messaggio: tutti insieme gli iraniani sono contro questa doppia vita che ti spinge a mentire, a tradire e tradirti, a non fidarsi gli uni degli altri.

Le proteste sono dunque contro la Repubblica islamica e la doppia vita che ha imposto...

La questione è indubbiamente connessa con le proteste, perché tutti i problemi sociali in questo momento sono in piazza. Come dicevo, la doppia vita produce l’effetto che le persone non si fidano tra di loro. C’è sempre il pensiero che colui che mi sta vicino sia una spia del governo, dunque non posso dire tutto quello che vorrei. Il governo iraniano ha colonizzato le vite della popolazione, perciò le persone non sono unite. Però adesso, con queste proteste, le persone dicono: adesso possiamo essere di nuovo unite contro il regime. Questo è il messaggio delle mobilitazioni: tu sei mio fratello. Vogliamo avere una vita sola. Non vogliamo essere buoni musulmani, vogliamo essere noi stessi, vogliamo condividere quello che facciamo con gli altri.

Possiamo allora dire che è una protesta basata sulla costruzione di relazioni di fiducia?

In qualche modo sì. Facciamo un esempio. Qualche settimana fa c’è stato un forte terremoto al confine con l’Iraq, in una zona curda, con morti e case distrutte, e il governo non ha fatto nulla. In tutto il paese, invece, le persone si sono mobilitate attraverso i social network e hanno mandato soldi, vestiti e aiuti a chi era stato colpito dal terremoto. Questa è la prova che non si può avere fiducia nel governo e che le persone devono imparare a fidarsi una dell’altra. Questa idea non è possibile quando vivi una doppia vita, in quel caso non puoi fidarti dell’altro. Con il terremoto e il sostegno tra la popolazione, si è dimostrato che è possibile cambiare la situazione, costruendo relazioni basate sulla fiducia.

Una delle strutture più forti della Repubblica islamica è il sistema di spie e informatori. Magari scopri che un tuo amico da anni è una spia. In questo modo il regime ha guidato la rivoluzione del ’79, ne ha catturato le energie e adesso tenta di sopravvivere. Anche all’estero, per esempio in Italia, ci sono delle spie che controllano gli iraniani, per reprimere chi potrebbe contrapporsi al regime. In Iran ci sono 80 milioni di persone, di differenti culture e lingue. Il regime vuole controllare che non si muova nulla contro il governo, anche nelle conversazioni, che non ci sia un dissenso in grado di estendersi, crescere, contagiare. Ciò ha prodotto in questi quarant’anni paura tra la gente; perciò ora vedere le persone in piazza per noi vale tantissimo.

Quindi andare in piazza diventa la possibilità di una nuova forma di vita...

Sì, è così. Non c’è una leadership del movimento, ma ogni persona può guidare l’altra. Quando qualcuno lancia uno slogan, l’idea è che l’altro lo segua. Puoi guidare le persone stando in mezzo alle persone. È diverso dall’onda verde, l’illusione in un possibile riformismo del regime è stata superata. Anche i riformisti che si sono uniti al movimento hanno perso fiducia nelle riforme. Rouhani ha fatto molte promesse, ma non ne ha mantenuta nessuna.

Una mia amica, che gode di una buona condizione sociale, nei giorni scorsi si chiedeva come mai stia succedendo questo: lei viaggia, vive in un quartiere borghese, non può vivere come un’occidentale ma ha tutto ciò che vuole. Lei sostiene che bisogna aumentare il livello della formazione e della cultura, ma come si fa se le persone non hanno da mangiare? Non dobbiamo insegnare alle persone, dobbiamo insegnare al governo. Gente come la mia amica crede che ci sia sì, qualche problema, però tutto sommato abbiamo una vita bella e felice.

Secondo te questo tipo di persone è impaurita dalle proteste?

Sì, sono impaurite di un cambiamento di regime, perché hanno esperienza della rivoluzione del ’79, con molti morti. Dopo quarant’anni non c’è alcun progresso, per quanto ci sia ancora qualcuno che pensa sia possibile una riforma interna. Tuttavia, come già dicevo, si tratta di un numero sempre più ridotto di persone; in strada vengono attaccati tutti i simboli della Repubblica islamica. Questo è assolutamente inusuale, se gridi “morte a Khamenei” ti fai quindici o vent’anni di prigione. Adesso la gente è stanca. Nel 2009 il governo sparava e uccideva senza timore, mentre adesso il regime ha paura, teme soprattutto il piano delle le relazioni internazionali. Finora sono morte 29 persone, però per i primi giorni il governo non è intervenuto. I morti sono persone normali, perlopiù giovani. Le persone sono rabbiose, vogliono distruggere tutto, perché sono stanche.

Chi sono i truffati dalle banche di cui avete parlato quale motore iniziale della protesta?

Anche in questo caso bisogna spiegare il particolare funzionamento del sistema economico iraniano, che è basato su Sepâh-ePâsdârân-e, una fondazione creata dalla guida suprema dopo la rivoluzione khomeinista. Khamenei ha creato cinque o sei fondazioni, che sostengono il regime. Quello che effettivamente comanda in Iran è Sepâh-e, le banche e le fabbriche sono tutte nelle mani di questa fondazione, tutti i dirigenti vengono da lì, con altissimi livelli di corruzione. In Iran ci sono alcune delle principali banche islamiche mondiali, secondo un pronunciamento della guida suprema nel 2006 le banche nazionali non possono essere privatizzate; le altre possono essere possedute fino al 40% da privati. È tutto dipendente dal regime, dunque i risparmiatori sono stati truffati dal governo. Non c’è niente di simile in Occidente. Anche gli studenti all’estero non possono ricevere i soldi direttamente dai propri genitori, devono acquistarli in una sorta di “mercato nero”. Negli ultimi anni è stato stanziato un budget per i poveri, ma questi soldi sono stati spesi per queste organizzazioni. Nessuno può chiedere dove finiscono questi soldi, perché come dicevamo attraverso il sistema di spie il regime impedisce qualsiasi forma di critica.

Adesso l’atmosfera politica in Iran si è molto radicalizzata, le questioni sono esplose: diritti umani, repressione, povertà, futuro, disoccupazione. Il regime non è disposto a nessuna concessione; possono dire che ci saranno riforme in futuro in grado di accogliere alcune delle istanze sollevate, ma niente di concreto. Di fronte alle mobilitazioni Khamenei ha risposto: ho delle cose da dire, ma preferisco dirle un’altra volta. Nei giorni scorsi ha affermato che le persone in piazza sono nemici del regime. Se dicessero la verità su come vanno le cose, significherebbe il fallimento della guida suprema. Avessero voluto cambiare qualcosa, l’avrebbero fatto dopo il 2009; invece è stato sempre peggio. La struttura di questo regime è fondata sulla repressione, quel gioco non può cambiare.

Come è percepita dalle persone che scendono in piazza la parola rivoluzione? Dopo il 1979 il regime se ne è infatti appropriato e tutti quelli che si battono per una trasformazione radicale sono definiti nemici della rivoluzione...

Le persone hanno vissuto e fatto esperienza di questa rivoluzione. Ora vogliono liberarsi da questo regime, arrivano addirittura a dar fuoco alle moschee perché sono stufe del controllo religioso e perché le moschee sono luoghi di ritrovo delle organizzazioni governative. Le persone vogliono un rinascimento iraniano. Le attuali proteste possono terminare, ma le persone si sono incamminate verso una nuova stagione della storia iraniana.