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Un nuovo dicembre argentino

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Reportage di Andrea Fagioli che da Buenos Aires ci racconta l'evoluzione della situazione in Argentina

“Dicembre argentino” non è solo una formula che circoscrive in termini spazio-temporali. “Dicembre argentino” è un sintagma gravido di implicazioni politiche. A 16 anni esatti dalle giornate del 2001, le mobilitazioni contro la riforma del sistema pensionistico hanno segnato il punto più alto del conflitto sociale dall’inizio del governo Macri, una nuova era nella gestione (militare) della piazza1 e, forse, un punto di non ritorno per l’esecutivo.

L’approvazione del testo portato alla Camera e votato da 128 deputati contro 116 potrebbe ingannare. Si è trattato di una vittoria “complicata”, su una questione chiave per il governo, ottenuta solo all’alba di martedì dopo un dibattito parlamentare iniziato lunedì pomeriggio, interrotto varie volte per gli incidenti e continuato per tutta la notte con il sottofondo di cacerolazos.

Quello che merita una riflessione, al di là dei dati duri di una riforma regressiva ispirata dalle indicazioni del Fondo Monetario Internazionale, che poco dicono a un lettore italiano2, è la dimensione politica degli eventi che hanno caratterizzato l’ultima settimana, cercando di evitare di cadere in semplificazioni o facili conclusioni dettate dal calore degli avvenimenti.

Facciamo un passo indietro. Le elezioni legislative che il 22 ottobre hanno rinnovato una parte del Parlamento, erano per il macrismo un banco di prova che ha superato confermandosi come prima forza politica praticamente in tutto il paese, incluso l’hinterland di Buenos Aires, storica roccaforte del kirchnerismo. L’appoggio quasi illimitato dei grandi mezzi di comunicazione, l’utilizzo di tecniche di marketing basate sui focus group, la criminalizzazione della protesta sociale, la militarizzazione della Patagonia, una campagna elettorale esplicita od occulta permanente e un discorso pubblico depoliticizzato fondato su elementi semplici come allegria e ottimismo, hanno permesso all’alleanza dell’ex presidente del Boca Juniors di surfare sugli indicatori economici, che dovevano essere il punto forte di un governo di “tecnici”, ma che a oggi sono impietosi3. Il dato che sembra evidente è che nessuna delle altre forze politiche sia in grado di competere con l’alleanza di governo in termini elettorali, per la sua capacità di “sentire” e di tradurre in politica i sentimenti di strati eterogenei della popolazione, che non sono interpellati dai discorsi degli economisti critici o dei politici nazionalpopolari. Cambiemos riesce a tenere insieme nostalgici della dittatura e pensionati (il segmento elettorale “over 55” è quello più marcatamente macrista), Ceo e disoccupati e una parte consistente dell’elettorato continua ad appoggiare el cambio contro quelli che in termini puramente quantitativo-economici sono i suoi interessi.

In questo senso, dopo due anni di riforme “graduali” (troppo, secondo gli economisti ortodossi), caratterizzati da alcuni conflitti importanti, il macrismo è uscito dalle urne con un mandato per andare a fondo e dare forma a quello che il ritornello presidenziale chiama “il paese che sognamo”.

In primo luogo bisogna prestare attenzione alla svolta a destra. Se la criminalizzazione della protesta sociale è stata una costante di questo governo, con risvolti macabri e paradossali, per cui gli eredi dei golpisti denunciano manifestazioni moltitudinarie come tentativi di colpo di stato4, negli ultimi mesi c’è stato un salto in avanti. In questo senso sono stati fondamentali la scomparsa di Santiago Maldonado, il 1 agosto, nella cornice della repressione alla comunità mapuche Pu Lof Cushamen, e la riapparizione del suo corpo nel fiume Chubut il 17 ottobre, e l’omicidio di Rafael Nahuel a fine novembre, a cui la Gendarmeria ha sparato alle spalle in uno sgombero di un terreno occupato nei dintorni di Bariloche.

Ci sembra però troppo facile legare in un senso univoco il successo elettorale e la svolta a destra. Senza dubbio il successo di ottobre ha permesso di osare di più, però allo stesso tempo il corpo di Maldonado, o meglio la sua assenza, che ha evocato i peggiori fantasmi dell’ultima dittatura, è stato un terreno di prova per testare l’elettorato. Se la risposta popolare è stata enorme, con manifestazioni che hanno convocato centinaia di migliaia di persone, la strategia del governo è stata quella di rigettare ogni responsabilità, nonostante la presenza di Maldonado durante la repressione alla comunità Pu Lof Cushamen fosse documentata dalle immagini. “Forse è in Cile”, “forse è al nord”, “c’è un quartiere di Gualeguaychú dove tutti assomigliano Santiago” hanno detto esponenti della maggioranza, che sono arrivati al cinismo estremo di offrire una ricompensa a chi avesse dato informazioni utili e di denunciare la politicizzazione del caso (accusa buona per ogni situazione). I risultati elettorali, dopo che a 24 ore dalle elezioni i giornali hanno dato grande risalto all’esito dell’autopsia secondo la quale il giovane sarebbe morto annegato, hanno dato ragione a questa strategia e hanno fatto capire al governo di potere spingersi oltre. In questo senso va analizzata la repressione di questi giorni, sotto l’occhio di centinaia di telecamere, che ha raggiunto un livello di violenza di stato che a Buenos Aires non si vedeva dal 2001. E in questo senso va letta anche la rivendicazione diretta della repressione da parte del governo (“violenti sono i manifestanti”, “grazie alla polizia che ha difeso la democrazia”) e il fatto che Macri abbia espresso la speranza di un cambiamento culturale rispetto ai militari e di tornare ai (buoni, vecchi) tempi in cui Alt significava che bisognava consegnarsi.

In secondo luogo, le elezioni hanno rappresentato un assegno in bianco che adesso si vuole incassare con tre riforme strutturali: la lavorativa (rimandata al 2018), la tributaria (passata martedì alla Camera, andrà al Senato nei prossimi giorni) e la previdenziale. Il dibattito parlamentare e la lotta su quest’ultima sono andati in scena in due atti. Giovedì 14, con la zona de Plaza de los dos Congresos militarizzata e in mezzo a una battaglia campale, finita in serata con oltre venti arresti e decine di feriti, compresi tre deputati oppositori, alla Camera era mancato il quorum. Lunedì 18 il governo ha di nuovo messo in mostra tutto il suo potere di fuoco e la battaglia, cominciata prestissimo nelle strade del centro di Buenos Aires, si è conclusa con oltre 80 arresti e decine di feriti, alcuni dei quali gravi (4 persone hanno perso un occhio). Dopo la guerriglia, quando il “profumo” dei gas lacrimogeni faceva ancora piangere i manifestanti, sono tornate le cacerolas che hanno bloccato molte delle grandi arterie della capitale e delle principali città argentine.

Questo è un dato da tenere in considerazione e che potrebbe mescolare le carte in tavola. La cacerola ha rappresentato e rappresenta la classe media, quella che è lo zoccolo duro dell’elettorato macrista, ma che è stata tra i protagonisti del 2001. Il fatto che in quartieri dove a ottobre la candidata di Cambiemos alla Camera ha stravinto con oltre il 60% dei consensi lunedì sera le strade si siano riempite e ai cittadini sia stato impedito di avvicinarsi alla piazza del Congresso potrebbe segnare un punto di non ritorno nella relazione tra l’elettorato e un governo il cui discorso ripete ossessivamente il ritornello del “dialogo”.

Concludiamo con due considerazioni. La prima è che non va sottovalutata la plasticità di una forza politica che cerca di sfuggire, e spesso lo fa con successo, a ogni etichetta (guai a parlare di “neoliberalismo”, per esempio), che schiva ogni discorso “politico”, che si rivolge molto più ai “vicini” che ai “cittadini”, più ai “nonni” che ai “pensionati” e che, almeno a parole, è molto poco dogmatica e disposta a cambiare l’agenda. A maggio, per esempio, dopo una manifestazione moltitudinaria, il governo ha fatto marcia indietro sulla possibilità di far accedere i militari condannati per delitti di “lesa umanità” a sostanziosi sconti di pena. La seconda è chiedersi quanto possa il macrismo modificare l’agenda sulle questioni fondamentali della politica economica: esiste macrismo senza politiche liberali? Se la risposta è “No”, bisogna prestare attenzione alla maniera in cui reagirà il campo sociale per capire se l’estate argentina è cominciata.

1È necessaria qui una specificazione. Parliamo di “gestione della piazza” perché ci riferiamo alla repressione nel contesto di manifestazioni e sotto l’occhio delle telecamere. L’uso della violenza contro i popoli originari in Patagonia, così come quella quotidiana nei quartieri poveri è legata solo marginalmente al calendario della politica “ufficiale”, della quale costituisce una zona d’ombra, ed eccede questo intervento.

2Uno dei punti chiave sono gli aumenti che passerebbero dal 15% annuale del sistema attuale al 5.7% col nuovo sistema. Per avere un’idea, l’inflazione è stata del 40% nel 2016 e del 17.5% nei primi nove mesi del 2017 (Dati: IPC Congreso). In questo modo, il risparmio per le casse dello stato nel 2018 sarebbe di 98 miliardi di pesos (circa 5 miliardi e mezzo di euro al cambio attuale).

3In due anni il paese ha contratto 90 miliardi di dollari di debito (e altri 46 sono in arrivo), il numero di poveri, nonostante lo slogan elettorale: “povertà zero”, è passato dal 29% al 32.9% nel primo anno del governo Macri (fonte: Universidad Católica di Buenos Aires, )

4Non va dimenticata nemmeno l’incarcerazione della dirigente sociale Milagro Sala, detenuta da oltre due anni in barba alle richieste della Corte Interamericana dei Diritti Umani (CIDH) e al margine di ogni garanzia propria dello stato di diritto.