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Nuove bussole per una vecchia rotta

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Il dito e la luna. Troppo noto il proverbio, troppe le occasioni per rispolverarlo negli ambienti di “movimento”. Già, il termine dobbiamo necessariamente metterlo tra virgolette, perché ci riferiamo agli ambienti dei gruppi e dei singoli che rivendicano un’appartenenza a un generico movimento immaginario indipendentemente dall’esistenza o meno di movimenti reali. Peggio ancora, quando un movimento reale c’è, sempre più spesso capita che gli ambienti di “movimento” non lo comprendano, ne siano distanti, facciano da tappo o addirittura ne siano ideologicamente contrapposti.

Allora, ritorniamo all’abusato adagio cinese e proviamo ad applicarlo a un caso specifico, tra i molti esempi che si potrebbero fare e che non abbiamo mancato di fare negli ultimi anni: la mobilitazione popolare per l’indipendenza catalana. Non vogliamo qui entrare in profondità nel ventre e nelle molteplici sfaccettature della questione, per questo rimandiamo agli articoli già pubblicati. Ci interessa qui focalizzare brevemente l’attenzione sulle reazioni e passioni che quella mobilitazione ha, nei mesi scorsi, suscitato tra la medietà dei militanti o attivisti di “movimento”. Ne riscontriamo almeno tre. La prima è quella del sillogismo astratto: noi siamo contro lo Stato-nazione, la mobilitazione catalana è per la costruzione di uno Stato-nazione, dunque noi siamo contro la mobilitazione catalana. L’intervento repressivo franchista ha portato a qualche imbarazzata e imbarazzante svolta, del tipo: adesso possiamo essere al fianco della mobilitazione catalana perché non è più per lo Stato-nazione ma per l’Europa, ovvero non siamo noi che abbiamo cambiato idea bensì la realtà. La seconda reazione, ideologicamente speculare, è il sillogismo proiettivo, cioè la proiezione dei propri desideri su una realtà che di quei desideri se ne infischia: noi siamo comunisti, la mobilitazione catalana è comunista, dunque noi siamo per la mobilitazione catalana. Ed ecco che le pagine facebook delle tribù di “movimento” si tingono di bandiere catalane, senza rendersi conto che sono le lotte a fare le bandiere e non viceversa. Vi è poi un terzo approccio, più attento alla concretezza del processo in atto, di cui riconosce al contempo l’importanza e le contraddizioni, però alla ricerca di una rassicurazione, che può essere trovata nelle radici libertarie della storia catalana, nell’eco della guerra civile e della lotta contro il franchismo, oppure negli scioperi generali convocati nell’ambito delle mobilitazioni.

Sulle prime due posture non ci sembra valga la pena soffermarsi ulteriormente. La terza, invece, aiuta a porci la domanda: davvero in questa fase abbiamo bisogno di rassicurazioni? Nelle nostre retoriche e nelle nostre manifestazioni (alquanto rade tra l’altro, per chi continua a essere affezionato al simbolismo politico delle stagioni un autunno così freddo non lo vivevamo da tempo, a parte qualche pur rilevante eccezione) profondiamo rassicurazioni a piene mani e ci sentiamo rassicurati. Il problema è che la quantità di questa rassicurazione è inversamente proporzionale all’ampiezza sociale che le nostre retoriche e le nostre manifestazioni riescono ad avere. Allora, continuando con il caso catalano (usandolo qui solo come esemplificazione di una ben più generale questione di metodo), dobbiamo dirci che quella mobilitazione è completamente ambigua, contraddittoria, caotica, ed è realmente ampia, sociale, espansiva. Sono poche o forse nessuna le rassicurazioni in cui possiamo specchiare le nostre narcisistiche identità. Eppure, o forse proprio perciò, quel caos è riuscito a determinare almeno temporaneamente una faglia nei rapporti di potere dominanti. Sarebbe sciocco affermare che non vi è al suo interno una rivendicazione nazionalista, anche in parte segnata dall’egoismo di quei ceti sociali che dall’indipendentismo possono trarre evidenti vantaggi. Tuttavia, quegli interessi particolari hanno alimentato un processo più ampio che non è detto che non sfugga dalla loro capacità di controllo. Si sono mobilitati infatti altri pezzi di composizione sociale, quelli duramente colpiti dalla crisi, dal ceto medio impoverito a quei lavoratori che hanno perso fiducia nelle magnifiche e progressive sorti del tecnoprogresso. Quel processo, intanto, per almeno alcune settimane ha spiazzato il dibattito tra Europa e Stato-nazione in cui è rimasto impigliato la diatriba ideologica di “movimento” negli ultimi anni, a prescindere dal fatto che la mobilitazione verrà riassorbita nel recupero della governance europea o nella chiusura in una trattativa proto-nazionalista.

Non si tratta quindi di riprodurre parole d’ordine e slogan di quella mobilitazione, perché quelli sono del tutto situati in un contesto specifico, nella sua materialità di composizioni determinate, nella sua storia. Ecco invece i punti, ancora una volta di metodo: da un lato sono le lotte a creare il tertium datur, la strada di un possibile occultato dalla scelta tra opzioni predeterminate; dall’altro, nel processo di lotta mutano i comportamenti e le soggettività, e talvolta anche i rapporti di forza interni e gli obiettivi da cui la lotta origina. Perciò in quel caos dobbiamo starci, dobbiamo immergerci con capacità di inchiesta e sguardo progettuale, per costruire nuove bussole laddove quelle vecchie sono completamente impazzite o quasi del tutto inservibili.

Già, perché pensiamo sia venuto il momento di dirlo: siamo in crisi. Il “noi” di questa crisi è il “noi” di “movimento”, che taglia trasversalmente aree e gruppi, produzione teorica e pratica politica, retoriche e autorappresentazioni. Ci sarà chi è messo peggio e chi un po’ meno peggio, ma non è granché importante, perché al di fuori di questo “noi” ristretto delle battagliucce di posizione non gliene frega niente a nessuno. E a scanso di equivoci, per prevenire chi può pensare che pontifichiamo sugli altri, siamo pienamente interni a questo “noi” e alla sua crisi. Semplicemente, crediamo che i problemi non vadano rimossi ma posti all’ordine del giorno. Crediamo che bisogna avere l’ambizione di compiere quel continuo rovesciamento leniniano che – lungi da sterili mitologie o nauseanti demonizzazioni – costituisce la prassi centrale e ancora potenzialmente viva della rottura del ’17: la trasformazione della nostra crisi in occasione di salto in avanti, rompere con noi stessi per rompere con il nemico.

Una volta si diceva che il futuro ha un cuore antico. Altrove abbiamo scritto che ci serve rigidità strategica e flessibilità tattica. Qua osiamo porre il problema di costruire nuove bussole per una vecchia rotta. Di formule e suggestioni scegliete quella che vi pare, ci interessa il nocciolo della questione. Il punto è che troppo spesso nei nostri ambiti seguiamo nuove rotte con bussole antiche, perché siamo fedeli alla bussola e non alla rotta. Ed è un disastro. Siamo allergici alle condanne postmoderne dell’identità, proprio perché rendono liquida la rotta e si affidano alla novità della bussola. Al contempo, un’identità fondata sulla bussola – cioè sullo slogan, sulla rassicurazione, sulla comunità tribale dei propri simili oggi resa ulteriormente perversa dalla facebookizzazione della soggettività – è un’identità debole, inutile o addirittura dannosa. Si trincera nel folclore del proprio passato chi non riesce ad afferrare la possibilità della prospettiva. Noi questo mondo non lo vogliamo solo rovesciare: scommettiamo sulle risorse potenziali per farlo. Oggi queste risorse sono invisibili, ambigue, contraddittorie, caotiche. Lì vogliamo andare a mettere le mani, con gli occhi mobili, la testa lucida, il cuore saldo. Per chi non ha rinunciato a seguire quella rotta, la discussione è aperta.