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In ricordo di Lapo Berti

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Per ricordare Lapo Berti, di recente scomparso, pubblichiamo l’intervista realizzata il 12 luglio 2000 da G. Borio, F. Pozzi e G. Roggero per “Futuro anteriore” (DeriveApprodi 2002)

- Qual è stato il suo percorso di formazione politica e culturale e l’inizio della sua attività militante?

Bisogna risalire parecchio indietro. Il mio primo incontro con una politica attiva non è particolarmente precoce, avviene all'inizio degli anni ’60, prima ero di simpatie comuniste, anche perché ero cresciuto in una famiglia di orientamento di sinistra anche se mio padre era molto poco politico e di impianto culturale anarco-individualista, diciamo così, però ovviamente con simpatie per il mondo della sinistra in generale. Invece, io, fin dalle medie e dal liceo, avevo canalizzato le mie simpatie (stiamo parlando degli anni ’50) verso il Partito Comunista e il mondo comunista. Allora stavo a Milano, perché la mia famiglia si era trasferita lì subito dopo la guerra e quindi io le scuole le ho fatte quasi tutte a Milano (avevo fatto solo la prima parte delle elementari a Firenze). All’inizio degli anni ’60, invece, diciamo tra il ’62 e il ’63, riprendo rapporti con Firenze per motivi strettamente personali (nel senso che era di Firenze quella che poi sarebbe stata mia moglie), ricomincio a frequentare quella città e prendo contatti con un vecchissimo amico di infanzia, con cui eravamo stati ragazzini insieme, che era Giovanni Francovich. Giovanni faceva già parte di organismi politici, militava, aveva già un’esperienza, era stato nell’area socialista, non so bene a cosa avesse partecipato, ma comunque militava e la cosa interessante in quel periodo era che lui e un altro gruppetto di amici fiorentini più o meno coetanei erano dentro i Quaderni Rossi. Quindi, io mi unii immediatamente, ci fu un incontro di idee e di valutazioni che ci portò molto rapidamente a concordare e a vedere nei Quaderni Rossi un’esperienza importante, innovativa, nella quale valeva la pena di impegnarsi. Il mio arrivo ai Quaderni Rossi praticamente coincise con la fine della partecipazione di tutti quanti quelli di questo gruppo e poi di molti altri, perché dopo il numero 3 ci fu la famosa rottura e iniziò l’esperienza che poi avrebbe portato a Classe Operaia. Quindi, diciamo che io mi sono immesso in quel circuito da Firenze, dunque tramite il gruppo di provenienza prevalentemente socialista, direi quasi esclusivamente socialista, PSIUP, e questa era già una piccola differenza perché invece io, come ho già detto, ero più di orientamento comunista: allora non c’erano tra comunisti e socialisti le divisioni quasi genetiche che poi sono riemerse in tempi più tardi, però la differenza culturale era notevole anche allora, si avvertiva. Quello di Firenze era un gruppo composto da un po’ di giovani della mia età, che frequentavano l’università, e poi c’era anche qualche operaio, di tipo un po’ particolare ovviamente, avanguardie, operai molto intellettuali e di età decisamente più avanzata della nostra. Anche gli operai (i due o tre che c’erano, perché poi non stiamo parlando di masse) erano di provenienza socialista, anarchica e forse solo un pratese, che però non ebbe un grande ruolo, era proprio di provenienza comunista. Quindi, c’era questo gruppo fiorentino che faceva parte dei Quaderni Rossi (ne faceva parte Giovanni Francovich, Claudio Greppi era nella redazione) e loro ruppero, e io con loro, anche se avevo poco da rompere perché non avevo fatto neanche tempo ad entrarci nei Quaderni Rossi, e iniziò poi tutta quella fase di dibattito che portò alla formazione di Classe Operaia, alla quale io ho partecipato per intero. Tra l’altro molte delle riunioni preparatorie si tennero a Firenze, anche successivamente le riunioni di redazione erano spesso a Firenze, in un periodo curammo proprio noi la pubblicazione di Classe Operaia, ci sono alcuni numeri che sono stati fatti nel capoluogo toscano.

Questo è un po’ l’inizio dell’esperienza politica, io la faccio risalire a quel periodo lì, perché le cose precedenti praticamente non contano, anche le letture, la conoscenza di Marx che io avevo in precedenza si viene tutta riformulando e riplasmando sulla base dell’influenza del dibattito che c’è in Quaderni Rossi e poi in Classe Operaia, il che in buona parte vuol dire sotto l’influenza di Mario Tronti, perché questi è vero che allora era un primus inter pares, però insomma molto primus. Parlo per me, ma credo di poter parlare anche per altri, il fascino intellettuale che esercitava in quella fase Tronti non lo esercitava nessun altro all’interno del gruppo, quindi le discussioni, le idee, gli orientamenti, il materiale intellettuale su cui si lavorava era in buona parte quello che proveniva dagli scritti e dai discorsi di Tronti che venivano commentati e discussi ogni volta che ci ritrovavamo per conto nostro; quando uscì Operai e capitale naturalmente fu oggetto di lunghi e accesi seminari che si tennero nel nostro gruppo di Firenze, fu studiato come un classico. Insomma, ci appropriammo un po’ tutti quanti di questo orientamento che Tronti proponeva con Classe Operaia e con il libro Operai e capitale, quindi l’idea del rovesciamento di prospettiva e tutte le cose che è inutile andare a ricostruire, sono già state abbondantemente ricostruite e possono essere oggetto di studio, ma sarebbe assurdo farne l’oggetto di un racconto. Quello che io posso dire è l’impressione intellettuale che faceva la lettura di questi lavori di Tronti e la discussione che si svolgeva all’interno di Classe Operaia, in buona parte appunto guidata da interventi e relazioni di Mario: era l’idea di essere finalmente approdati a possedere degli strumenti intellettuali innovativi e che consentivano di guardare in maniera operativa la realtà sociale e politica del paese in quel momento. Avevamo un po’ tutti l’idea di avere in mano uno strumento che funzionava, finalmente un qualcosa che non erano solo arzigogolature cartacee, ma un potente strumento di analisi della realtà sociale e che consentiva anche di enucleare una posizione politica chiaramente visibile, trasparente. Questo era un po’, credo, il fattore che suscitò anche entusiasmo nell’adesione di molti di noi a quell’esperienza; si tenga presente che io allora avevo 22-23 anni, altri più o meno la stessa età, poi c’era una fascia un po’ più esperta, Tronti deve avere un quattro o cinque più di noi, che però allora contavano. L’elemento di focalizzazione intellettuale fu quello.

Quindi, la mia esperienza politica nasce proprio all’insegna dell’operaismo puro, perché non c’era sedimentata una cultura politica talmente solida dalla passata esperienza con cui dovessi fare i conti più di tanto: mi sono appropriato di quella cultura e quella per molto tempo è stata la mia cultura politica, la base su cui poi si è evoluta la mia ricerca, il mio orientamento e anche i miei comportamenti. Un aspetto molto rivelante, almeno per me ma anche per il gruppo fiorentino che faceva parte di Classe Operaia, era che noi fin da subito tentammo (in maniera forse un po’ troppo meccanica, ma quelle sono cose che si capiscono dopo, quando si diventa più grandi, più vecchi) di tradurre in intervento politico le elaborazioni. E mi ricordo questa cosa che ora col senno di poi mi sembra terrificante: facevamo un lavoro militante, intanto di diffusione del giornale, un tentativo di intervento in alcune lotte operaie tramite volantini firmati Classe Operaia. E ciò veniva fatto, facendosi un mazzo terrificante, in tutta la Toscana, perché se è vero che tra Firenze e Prato c’erano alcune concentrazioni operaie (in particolare la metalmeccanica e il tessile, però questo già era un’altra cosa perché non era fatto, salvo pochi casi, di grandi industrie), poi le grandi industrie erano nel resto della Toscana, a Piombino le acciaierie, a Rosignano la chimica, a Pisa la Piaggio ecc. Quindi, noi quando partivamo ci facevamo giornate intere in giro per tutta la Toscana a vendere il giornale, la cosa terrificante era che qualcuno lo comprava, mi sarebbe piaciuto sapere perché poi con molti di questi non siamo mai riusciti a instaurare rapporti diretti, salvo il fatto che ormai dopo un po' ci riconoscevano, quando ci vedevano arrivare ai cancelli delle fabbriche dicevano “ah, ecco quelli del gatto selvaggio”, perché era quello poi il momento che aveva reso un po’ famosa la sigla. Comunque questa esperienza, che vista con il senno di poi mi sembra di un’ingenuità e anche di una rozzezza politica stratosferica, dal punto di vista dell’esperienza soggettiva nostra fu sicuramente di grande importanza, perché intanto ci fece vedere le fabbriche davvero, anche proprio come strutture, ci fece vedere gli operai, ci fece capire parecchie cose su come si muovevano, cosa erano le lotte, ci consentì di entrare un pochino dentro, anche se rimanendo fondamentalmente esterni, salvo qualche raro interlocutore che avevamo in ciascuna di queste fabbriche. In ognuna di queste c’erano uno o due punti di riferimento con i quali ti ritrovavi quando si trattava di fare il volantino, per capire qual era il taglio, la parola d’ordine più significativa, che poteva meglio raccogliere il clima del momento ecc.; però, insomma erano rapporti molto blandi, però a noi hanno fatto capire parecchie cose. Quindi, tutta l’esperienza di Classe Operaia, che si conclude nel ‘65-’66, per chi vi ha partecipato (di nuovo parlo per me, ma credo che valga non solo per me) è stata molto importante sotto tutti e due gli aspetti: dal punto di vista della maturazione intellettuale, dell'acquisizione di strumenti critici, di lettura del marxismo, e dal punto di vista della prova pratica, del mettere alla prova e cominciare a saggiare il significato della militanza. Si tenga presente che allora militanza o la facevi dentro il PCI o non la facevi, quindi era un’esperienza completamente nuova per chiunque, perché il fatto che un po’ di gente senza nessuna tessera, senza nessuna etichetta se non un giornale si presentasse davanti alle fabbriche affermando che si stava occupando degli operai e dal punto di vista degli operai, era una cosa abbastanza grossa, anche se il fenomeno in sé era piccolo e limitato. Dunque, fu un’esperienza molto importante, io posso dire tranquillamente che mi ha segnato, forse le tracce ci sono anche ora; intellettualmente mi hanno segnato (sembro saltare molto di palo in frasca) questa esperienza dell’operaismo e del rapporto con Tronti da un lato e dall’altro all’università l’esperienza con Enzo Paci e la fenomenologia, che poi ho abbandonato perché io abbandonai abbastanza rapidamente l’università (facendo una cazzata, ma quello l’ho scoperto solo parecchio tempo dopo). Ci sono dunque i sedimenti intellettuali che da un lato ha prodotto l’esperienza di Classe Operaia e dall’altra questa esperienza precoce della fenomenologia; precoce perché io ho frequentato il corso di Paci il primo anno che lo faceva, era alla Statale a Milano, era morto Banfi e lui era subentrato, quindi anche lì c’era un po’ un clima pionieristico, e questo precede la storia di Classe Operaia ovviamente, stiamo parlando del ’58. Queste due esperienze, tutte un po’ sulla frontiera, anche se molto diverse tra di loro per contenuto e anche implicazioni intellettuali, sono rimaste un poco sempre come poli: non mi sono mai posto il problema di conciliarle perché probabilmente era un’impresa disperata, però erano due poli di esperienza intellettuale che mi hanno sempre influenzato molto.

Dopo le cose cambiano di parecchio. Alla chiusura di Classe Operaia, come ben si sa, ci fu la decisione di proseguire l’intervento politico e di procedere verso l’organizzazione, ci fu una rottura con Tronti, che invece considerava chiusa l’esperienza di Classe Operaia sotto tutti i profili e quindi non vedeva alcun modo di riprenderla, anche se inizialmente mi sembra di poter dire che Mario seguì con un qualche interesse la nascita di Potere Operaio. Dopo di che c’è stata l’esperienza di Potere Operaio, che io mi sono fatto dall’inizio alla fine, fino al famoso convegno di Rosolina per intendersi. Sarebbe lungo parlarne. Come giudizio complessivo, anche questa per me è stata un’esperienza importante, però molto meno sul piano intellettuale devo dire, sono stati sicuramente minori gli stimoli. Lì c’era la leadership intellettuale di Toni Negri, però io non posso dire che il pensiero di Toni Negri ha avuto su di me e sulla mia esperienza un’influenza analoga a quella che ha avuto quello di Tronti. L’esperienza di Potere Operaio io me la sono vissuta appunto tutta, me la sono vissuta da militante, anche da responsabile dell’organizzazione per alcuni settori, però con un crescente disagio. Non ho condiviso tutta una serie di passaggi, quelli diciamo verso l’organizzazione spinta, la centralizzazione, poi tutto l’inizio di discussione sulle problematiche della lotta armata e quant’altro: non li ho mai condivisi perché tutto sommato il mio impianto restava quello operaista e vedevo in quelli un’evoluzione dove l’operaismo non c’entrava più niente, anzi veniva buttato a mare. Io non condividevo la valutazione di Tronti che l’operaismo avesse chiuso interamente il suo ciclo e aderii a Potere Operaio con l’idea che quello fosse un modo per portare avanti, anche se in maniera diversa e in termini differenti, l’esperienza operaista, cosa che, se fossi stato un po’ più intelligente politicamente, avrei dovuto capire che non era così già dopo poco tempo; alcuni più intelligenti di me lo capirono rapidamente, come Sergio Bologna ad esempio. Forse non è tanto un problema di intelligenza, se ne può parlare anche di questo: a parte la battuta io non credo di essere stato più stupido di Sergio, penso di avere avuto un’idea diversa del ruolo della militanza e quindi di essere rimasto attaccato al pezzo fino alla fine, anche quando non condividevo quasi più niente di quello che Potere Operaio faceva, perché prima di tutto veniva l’impegno sul piano pratico. Si tenga presente che questo ha significato anche una scelta di vita, perché io poi sono abbastanza radicale nelle mie scelte, e mentre molti compagni allora (più intelligenti di me, in questo caso davvero, o diciamo più furbi) tentavano e riuscivano a tenere il piede in più scarpe, io questo non l’ho fatto: sono uscito dall’università perché, nonostante avessi avuto a che fare forse con alcuni dei pezzi migliori che l’università italiana offriva in quel periodo, mi sembrava che fosse un posto di cadaveri e che non aveva senso stare a perdere il tempo lì dentro. E dunque quando mi sono dato alla vita militante ho fatto la vita militante, vivendo di espedienti e mangiando tanti pomodori, e questo anche quando era passato il momento in cui potevi pensare di recuperare, anche per ragioni di età perché, essendo io nato nel ’40, a un certo punto, tanto per dire un anno, nel ’70 avevo trent’anni, quindi non è l’età in cui uno inizia qualche cosa. Dunque, ci sono state anche queste cose qua.

Dopo di che, sempre procedendo un pochino per sommi capi, perché forse è meglio che intanto delineiamo i passaggi, se la memoria non mi gioca brutti scherzi l’esperienza finale di Potere Operaio si accavallava con l’esperienza nascente di Primo Maggio: lì ho ritrovato Sergio Bologna, ho ritrovato un po’ anche me stesso, ho ritrovato il senso di un lavoro intellettuale. Se non sbaglio io ho cominciato a cooperare esplicitamente a Primo Maggio con il numero 3 o 4. Lì ci incontrammo con Sergio su questo benedetto lavoro su Marx e la moneta, che è stato la mia dannazione ma anche la mia salvazione per certi aspetti. Io stavo lavorando già da un po’ su questi temi e in Primo Maggio, su impulso di Sergio che scrisse quel primo articolo su Marx e la moneta, poi venne costituito un seminario, un gruppo di lavoro che andò avanti per parecchio tempo e lavorò molto seriamente, ha prodotto parecchia roba, non tutta pubblicata. Io mi sprofondai nel lavoro di questo seminario, ho scritto parecchie cose in quel periodo su questa problematica, a partire da una rilettura dell’analisi che Marx fa del ruolo della moneta, del modo in cui la concepisce, la moneta e il credito nella loro funzione nell’economia capitalistica: io ritenevo che la lettura marxiana non fosse più sufficiente e proponevo passaggi ulteriori. E quello un po’ alla volta è diventata addirittura una specializzazione professionale, scientifica, al punto che poi questa cosa mi ha aperto anche le porte dell’università: ciò avvenne in particolar modo perché c’era Augusto Graziani che, anche lui un pochino attratto dalle esperienze extraparlamentari (lui di tutt’altra provenienza politica) e colpito un po’ da questo lavoro che stavamo facendo sulla moneta, decise di mettere insieme un gruppo di lavoro sulla moneta a livello più elevato, diciamo scientifico-accademico, anche se con una libertà di orizzonti totale, di cui facevano parte un po’ di giovani universitari, docenti e l’unico non accademico ero io. Anche questo gruppo ha prodotto varie cose, scritti, ha pubblicato volumi, ha curato opere, e sulla scia di queste cose sono stato chiamato a insegnare all’università della Calabria, dove ho insegnato per tre anni. Credo di essere uno dei non numerosissimi docenti universitari italiani che hanno insegnato senza essere laureati (io allora non lo ero, avendo come ho detto abbandonato l’università, anche se poi a più riprese avevo fatto ogni tanto un po' di esami): non credo che siano tanti questi casi, uno è celebre e mi ha sempre inorgoglito, si tratta di Napoleoni. Io ho avuto degli studenti che si sono laureati avendo come relatore me che non ero laureato, e questo alla lunga non reggeva dentro l’istituzione, allora un giorno hanno deciso di laurearmi e alla tenera età di 46 anni mi sono laureato. Poi ho insegnato ancora a Napoli; quando mi hanno chiamato per venire qua stavo ancora vedendo se c’era la possibilità di entrare all’università, perché avevo capito che tutto sommato la scelta giovanile era stata un po’ una cazzata, dopo quattro o cinque anni di esperienza di lavoro all’università mi ero reso conto da un lato che mi piaceva insegnare e dall’altro che comunque è la vita più comoda che possa esistere al mondo per uno che vuole anche fare un po’ ricerca, occuparsi anche di altre cose. Però questo non avvenne e l’ultima cosa di cui posso parlare in termini di biografia, prima di arrivare al mio lavoro attuale, è che a Milano insieme con altri compagni decidemmo, un po’ prima della metà degli anni ’80, di creare una sorta di centro studi socio-economici che è l’Aaster: fummo Aldo Bonomi ed io ad avere un po’ in mente queste cose, eravamo tutti usciti più o meno scottati e bruciati dalle esperienze politiche che avevamo fatto, e allora l’idea era di provare un po’ a fondare politica e professione. Questo tentativo che mettemmo in essere allora era questo, il tentativo di fare ricerca però non così per niente, in astratto e per qualunque committente (ammesso che si trovasse, cosa che non fu facilissima all’inizio), ma ricerca dentro un quadro di idee e di ipotesi diciamo pure politiche, anche se in senso molto lato: c’era tutto il discorso e il ragionamento sull’autonomia nel sociale, quindi sullo sviluppo, che era un po’ un’articolazione di questa problematica, o perlomeno un’affiliazione. Cominciammo a lavorare su questo, facemmo una prima esperienza in comune ancora prima di fondare quella che fondammo come una società, e credo che tale esperienza sia stata molto importante per tutti e due sia dal punto di vista della ricerca che dal punto di vista politico, anche se poi i contenuti praticamente ci furono scippati dall’attuale direttore del TG1: era una ricerca sugli operai, non è mai stata pubblicata, noi la chiamammo “la paura operaia”. La facemmo tra i cassaintegrati, con un metodo che era anche quello credo abbastanza innovativo dal punto di vista della metodologia della ricerca, che era certo non rigorosa e noi non l’avevamo ancora perfezionata. Tramite il sindacato (era la CISL) che ci era servito un po’ ad aprirci le porte per accedere a questi ambienti, organizzavamo in varie sedi riunioni a cui partecipavano quindici, venti, trenta cassintegrati: noi facevamo loro un’introduzione in cui sviluppavamo un’analisi abbastanza brutale della situazione socio-politica, dalla quale in linea di massima emergeva perché loro si trovavano cassintegrati e perché avevano poca speranza di uscirne, aprendo poi il dibattito per vedere come reagivano. Non era una provocazione in senso negativo, lo era in senso positivo, era il tentativo da un lato di fornire loro una visione razionalizzante della situazione in cui erano venuti a trovarsi, e dall’altra di costringerli un pochino a ragionare su un futuro che, almeno secondo noi, non poteva essere certo quello di un ritorno al passato, e sulla base di questo poi vedevamo le reazioni, si apriva la discussione. Insomma, ne succedevano di tutti i colori, con Aldo ricorderemo finché campiamo quell’operaio che un giorno se ne uscì dicendo che per loro era come Matausen, mancava solo la soluzione finale. Depositammo questa cosa in uno scritto che poi appunto non è mai stato pubblicato, non so se Aldo poi l’abbia recuperato o in qualche modo utilizzato, ma comunque non l’abbiamo mai pubblicato. Dopo di che abbiamo appunto fondato questa società, che ha ovviamente avuto una vita stentatissima per un po’; poi quando ha cominciato a funzionare, come spesso avviene, sono cominciate a emergere anche divergenze nell’impostazione e nella gestione della cosa, o forse quello era un pollaio piccolo e sicuramente due galli, come potevamo essere Aldo e io, non ci stavamo, quindi si sono create tensioni, abbiamo litigato e io ho deciso di andarmene via. Direi che il dissenso verteva fondamentalmente anche sulla metodologia della ricerca, il che è stata la salvezza e la fortuna dell’Aaster ovviamente dal punto di vista della crescita economica e quant’altro, ma lui a mio modo di vedere si era legato un po’ troppo al Censis di De Rita, mutuandone linguaggio, problematiche e via dicendo, quindi tra l’altro sbilanciandosi molto di più di quello che io ritenevo utile sul sociale; a me sembrava che fosse molto importante più un’analisi economica, e soprattutto ci si sbilanciava sul sociale con una strumentazione che io non condividevo. Non mi piaceva quel modo impressionistico di fare ricerca nel sociale che è tipico del Censis di De Rita, dove finché c’è un grande affabulatore come lui, uno molto intelligente, ancora ancora riesce ogni tanto a indovinarne qualcuna, ma quando non c’è quello devi fare o come Aldo, che ha provato a imitare fino in fondo De Rita (e secondo me c’è riuscito abbastanza bene), o altrimenti devi seguire altre strade.

Io mi sono separato dall’Aaster, quindi ormai qui siamo agli anni ’90, e per un po’ ho provato a fare il free-lance come si dice, a lavorare da solo sempre nel campo della ricerca economica perché la mia specializzazione è quella, facendo formazione, qualche contratto all’università ecc. Però, devo dire che era un periodo in cui era particolarmente difficile fare questo lavoro, finché non è capitata l’occasione di venire qua, e questa occasione è capitata fino a un certo punto, non è cioè piovuta dal cielo. Alla fine degli anni ’80, tramite alcuni amici che giravano anche nel seminario di teoria monetaria di Graziani, mi ero avvicinato al centro studi del PCI, il Cespe, e lì era nato un progetto di ricerca nel cui ambito io mi ero occupato di due cose: una era la problematica delle privatizzazioni e l’altra era quella dell’antitrust, questo prima che l’Antitrust esistesse e prima che venisse varata la legge, anzi mi ricordo benissimo che conclusi questo saggio sull’antitrust nel settembre del ’90 mentre in parlamento veniva appunto approvata la legge sulla concorrenza in Italia. Quindi, questi due lavori erano, almeno a sinistra, abbastanza pionieristici (perché non credo che a quell’epoca nessuno si fosse occupato di queste problematiche), ed erano poi, un po’ com’è il mio costume intellettuale, un tentativo di ragionarci sopra senza fare ricorso a stereotipi ma cercando di capire i fenomeni in sé, quello che significavano e di elaborare poi su questa base un punto di vista. Erano tra l’altro entrambi i due saggi tutto sommato favorevoli alle tematiche che prendevano in oggetto, quindi io portavo avanti un ragionamento in cui non c’era un rifiuto di principio dei processi di privatizzazione, anzi si cercava di indicare quali potevano essere argomenti a favore addirittura delle privatizzazioni, e lo stesso anche per la problematica della concorrenza: come ci si può immaginare, all’interno della sinistra di derivazione comunista (ma non solo quella) queste ancora allora (quindi solo dieci anni fa) erano un po’ bestemmie per i più. Quindi ci furono notevoli discussioni e pressioni perché certi toni venissero ammorbiditi, certe cose dette in maniera più soft, ma insomma di fatto sono uscite come io le avevo concepite. Dopo di che, questa Autorità è stata formata la prima volta (la legge è dell’ottobre del ’90), subito dopo viene costituita. Essa funziona così: c’è appunto l’Autorità, che è un organismo collegiale composto di cinque persone che sono nominate dai presidenti della Camera e del Senato e c’è un presidente tra questi cinque, e loro sono quelli che applicano la legge sulla concorrenza e decidono su tutti i casi che vengono proposti. Poi, sotto questa Autorità, ma ovviamente facente parte dell’insieme, c’è una struttura (attualmente siamo 170-180) che, secondo una serie di procedure che sono in parte dettate dalla legge, analizza i diversi casi che possono configurare un’infrazione delle leggi della concorrenza: queste analisi vengono proposte al Collegio, ai cinque che prendono la decisione e assolvono o condannano. E’ un procedimento che assomiglia abbastanza a quello di un tribunale. Tra i primi cinque che furono nominati nel novembre del ’90, siccome essendo in Italia è ovviamente un organismo rigorosamente spartito da manuale Cencelli, c’era il rappresentante di quello che era già PDS, il quale conosceva questi miei lavori: io lo venni a trovare perché mi interessava continuare a occuparmi di questo discorso, visto che appunto cominciava a esistere una struttura che dava attuazione alle problematiche di cui mi ero occupato, venni qui, me ne tornai a casa carico di relazioni, documenti e cose del genere. Qui l’avevano formato inizialmente come un nucleo molto ristretto, in un periodo successivo si posero il problema di un ampliamento e appunto mi fu proposto se ero interessato a venire a lavorarvi, mi fecero un contratto di due anni che io accettai, anche se era un grosso rischio perché accettavo di trasferirmi da Milano a Roma con un contratto di due anni dopo di che non si sapeva cosa ne sarebbe successo; inoltre l’ambiente era molto difficile, a me totalmente estraneo, lo è in parte anche tuttora dopo sette anni che ci sto. Però, dopo i due anni il contratto mi è stato rinnovato per altri quattro, dopo di che c’è stato un concorso che ho vinto e attualmente sono a ruolo, come dirigente di questo organismo. E così siamo arrivati all’oggi, quindi è insomma un percorso un po’ complicato.

- Qual è il suo giudizio politico sull’esperienza di Classe Operaia, analizzandone le ricchezze e soprattutto i limiti? Come analizza il dibattito interno e le posizioni che si svilupparono dentro Classe Operaia?

Non è mica facile dare un giudizio. Butto lì delle cose perché, nonostante varie volte mi sia ripromesso di ritornarci un po’ più sistematicamente a ragionare sul senso di questa esperienza, in modo da formarmi anche un giudizio diciamo così storico sulle vicende a cui ho avuto la fortuna o il difetto di partecipare, in realtà poi non l’ho mai fatto; quindi sono giudizi che, nonostante vengano dopo molto tempo, non sono per niente sedimentati e sono un po’ così all’impronta, dunque li si prenda come tali. L’esperienza di Classe Operaia secondo me è stata molto importante perché ha consentito di smarcarsi rispetto a una lettura canonica del marxismo, a una visione della politica italiana marcata dal confronto comunisti-socialisti: quindi, ha aperto orizzonti, io la leggo e la ricordo così. Probabilmente aveva ragione Tronti quando diceva e dice che quell’esperienza aveva esaurito la sua spinta politica innovativa già nel ‘64-’65. Io non ho mai capito fino in fondo cosa avessero in mente i comunisti di Classe Operaia, cioè Tronti e gli altri, perché anche Classe Operaia era abbastanza equamente divisa tra gente di provenienza comunista (buona parte del gruppo romano) e gente proveniente da altre esperienze (socialista, con nessuna esperienza o addirittura di esperienza cattolica com’è il caso di Toni Negri). Dunque, cosa avessero in mente fino in fondo i comunisti non l’ho mai capito: io ritengo che loro avessero in mente anche una battaglia politica dentro il partito, che risultò abbastanza rapidamente impraticabile, se per battaglia politica si intende una cosa dove conquisti posizioni, non una cosa che fai per testimonianza. Quindi, questo è il motivo per cui è finita. Il motivo positivo, l’ho già detto, secondo me è fondamentalmente di apertura: io venivo da una fase, che poi per molti di noi è anche continuata, in cui la nostra cultura era fatta di Marx più Marx quelli bravi, altrimenti quelli un po’ meno bravi avevano una cultura che era fatta di commentatori di Marx, divulgatori di Marx ecc., anche un po’ di Mao Tse-tung e di Lenin; quindi l’impatto con Classe Operaia, dentro alla quale per le soggettività che ne facevano parte viaggiavano, anche se un po’ sotteraneamente, filoni culturali diversi e che comunque si traducevano in ogni caso in una lettura del marxismo e della vicenda del movimento operaio diversa da quella dominante, questo comunque ebbe un effetto di apertura positivo. Dopo di che si poneva il problema di andare oltre e secondo me, in quel caso se vuoi è di nuovo una lettura parziale che io faccio anche di quello che è successo dopo, si trattava di andare oltre e recuperare una capacità di coniugare un’analisi critica del marxismo e dell’esperienza del movimento operaio con le più importanti correnti culturali anche più lontane dal marxismo. Noi eravamo troppo abituati (e questa è un’autocritica sia personale sia collettiva che faccio) a vivere dentro il giardino del marxismo senza guardare di fuori: questo tra l’altro ha avuto secondo me come conseguenza, probabilmente da giudicare nefasta, il fatto che poi quando è venuta meno la capacità di tenuta, di attrazione di questo modello, di questo mondo chiuso sulla dottrina più o meno articolata, più o meno rozza, più o meno ortodossa del marxismo, quando questo vincolo è venuto meno c’è stata un’esplosione in cui ci sono quelli che sono andati con Luhmann, quelli che sono andati con Foucault e mille altri diversi, salvo alcuni casi personali ovviamente, ma come elaborazione collettiva tutto c’è stato tranne che un confronto aperto tra queste culture che portasse a una maturazione. Io credo di poter dire che molti di noi, quando hanno mollato (e uso proprio questo termine) il marxismo, si sono lasciati catturare da altre culture, da altri orientamenti filosofici, economici ecc.; non si sono posti fino in fondo il problema invece di metabolizzare i motivi per cui il marxismo, almeno nella forma in cui era stato recepito e vissuto, non era più sufficiente, e i motivi per cui c’era bisogno di confrontarsi e anche di attingere da altre culture. Forse come corollario di quello che dicevo prima (anche se a questo ripeto ci sono arrivato un po’ tardi) c’è la limitatezza dell’orizzonte politico che secondo me non ci ha mai portato a fare i conti fino in fondo con le dottrine politiche dominanti, altre (il repubblicanesimo, la democrazia ecc.) e l’elaborazione su queste problematiche: per noi quando si parlava di democrazia o era la democrazia socialista o era l’imbroglio borghese, non siamo mai andati molto al di là di questo tipo di elaborazione (sempre con qualche eccezione di alcuni che personalmente magari avevano fatto degli approfondimenti), ma mi sembra che questa cosa non sia mai diventata patrimonio collettivo. Questa è secondo me una cosa che ha avuto effetti devastanti per tutti quanti, mica solo per noi (per la sinistra alternativa, l’altra sinistra o comunque la vogliamo chiamare) ma per l’intera sinistra: secondo me è un problema tuttora irrisolto per l’intera sinistra, nonostante la quantità di sproloqui che sono stati fatti negli ultimi anni anche a sinistra sulla democrazia, il liberalismo e quant’altro. Questi sono alcuni elementi di giudizio politico, molto all’ingrosso e sommari, che mi vengono da fare sull’esperienza nel suo complesso. Secondo me è quello che proprio ci è mancato nelle diverse fasi, e il difetto è stato crescente man mano che si andava avanti, perché questo difetto forse in Classe Operaia era minore, è stato molto più pesante e ha avuto effetti molto più devastanti via via che si andava avanti, quando si è assunta la dimensione di movimento, si è preteso di fare discorsi politici di carattere generale e addirittura suggerire modelli di società: aver perseguito questo senza essersi confrontati con queste problematiche è una roba devastante. E’ un campo ancora da arare, è ancora tutto da fare. Per me è diventata un po’ una fissa, tra l’altro ci sto scrivendo sopra una cosa, anche visto il luogo in cui abito e le cose di cui mi occupo quotidianamente: occupandomi di concorrenza e mercati, di economia concorrenziale, del ruolo dei monopoli, dello Stato, del rapporto tra Stato e economia ecc., queste problematiche sono costrette ad affrontarle quotidianamente, e mi rendo conto quanto siamo indietro. Ci muoviamo ancora (se così posso dire, parlo della sinistra che è quella che interessa di più ovviamente) tra una sinistra che o si rifiuta, mette mano alla pistola appena sente nominare certi termini e nella migliore delle ipotesi per parlare di queste cose rifrigge tematiche e stereotipi che proprio non reggono in alcun modo, oppure un’altra sinistra che invece cala le brache in maniera vergognosa e diventa più liberista dei liberisti, senza sapere neanche che cos’è il liberismo. Io vedo la sinistra oscillare tra questi estremi e mi sembra che ancora una volta sia abbastanza deserto il campo in cui si tratterebbe di fare i conti con le cose stesse (usando una terminologia husserliana), quindi ragionare sui concetti ma partendo dalle cose. Questo mi pare che sia ancora da fare e in qualche modo questa deficienza attuale la riconnetto a quella chiusura di orizzonte politico che c’è stata nell’esperienza della sinistra italiana e anche della sinistra alternativa. Ora ovviamente io sono portato a esprimere prevalentemente i giudizi critici e negativi, forse è più interessante questo che stare a dire quanto è stato bello quello e quanto è stato bello quell’altro: indubbiamente ci sono stati aspetti, sia dal punto di vista dell’esperienza che anche dal punto di vista degli eventi politici che si sono prodotti, che sono positivi, che comunque hanno avuto ricadute positive, lungi da me buttare tutto a mare. Però, riguardando un po’ in prospettiva, come suggerisce una conversazione come quella che stiamo facendo, mi vengono da dire queste cose, pensare quanto ci ha condizionato e quanto ancora condiziona quella storia lì. Forse noi non ce ne siamo neanche resi conto nelle esperienze extraparlamentari di quanto, pur ribellandoci e pur rifiutando tanti stereotipi, eravamo vittime ancora della cultura del marxismo così come si era sedimentata nella versione terzinternazionalista, comunista ecc. Apro una piccola parentesi: dire che io l’avevo capito sarebbe dire troppo e non voglio assolutamente rivendicarlo, però sicuramente una componente del mio disagio, soprattutto nella fase potoppista, deriva certamente un po’ da questo, c’è questa componente che è l’insoddisfazione per l’incapacità di confrontarsi con altre culture, di avere un orizzonte di ricerca teorica e di confronto politico più ampio. Devo dire che questa cosa fu anche in parte consolidata dall’esperienza che io ho fatto: mi sono occupato (forse anche questa fu una scelta che era un pochino un tentativo di tirarsi fuori da una situazione che mi piaceva sempre meno) dei rapporti internazionali di Potere Operaio, ne sono stato responsabile per diverso tempo insieme con Ferruccio Gambino, ho girato parecchio e ho conosciuto molti ambienti in Svizzera, in Francia, in particolare in Germania, ambienti dove il peso della tradizione marxista e comunista era molto inferiore (un giro che ho frequentato a lungo allora era quello di Cohn-Bendit, che sicuramente tutto era tranne che un marxista). Mi aveva dato da pensare questa cosa, le difficoltà di dialogo che c’erano tra noi, tra i gruppi italiani (in particolare il nostro) e i gruppi della sinistra alternativa tedesca, svizzera ecc. erano proprio impressionanti; per cui pur partendo qualche volta da elementi comuni, da valutazioni comuni della situazione, da schieramenti comuni su tematiche e su fronti sociali, poi dopo i ragionamenti che se ne sviluppavano e i linguaggi che si parlavano erano completamente diversi. Quindi, questo già allora mi aveva dato molto da pensare.

- Quali erano invece il dibattito e le varie posizioni interne a Classe Operaia? Ad esempio sul discorso classe-partito si evidenziano in modo chiaro le divergenze che poi saranno uno degli aspetti che porteranno alla fine dell’esperienza.

Lì credo che si possa dire che all’interno di Classe Operaia si sono enucleate, anche se non sono venute alla luce in tutta chiarezza, le due posizioni classiche: quella movimentista, che un po’ sottovaluta il problema dell’organizzazione e comunque lo subordina, quindi è basista, è democraticista ecc., ed è quella a cui mi iscrivo io; e una posizione invece che tende ad accentuare il problema del partito, il problema dell’organizzazione, il problema della guida e compagnia bella. Dentro Classe Operaia queste cose sono state in tempi successivi rappresentate da Tronti stesso, poi però ognuno se le viveva dandogli delle curvature proprie. Io sono abbastanza dell’idea che, al di là di quello che era il discorso che veniva sviluppando Tronti, così lucido, con i suoi passaggi, dove appunto a un certo momento arriva il partito, il gruppo Classe Operaia non ebbe un’evoluzione in quel senso lì, un’evoluzione verso il partito, rimase invece divisa orizzontalmente. Sicuramente, ad esempio, quello fiorentino era un gruppo più movimentista, molto più interessato all’analisi delle lotte, alle problematiche dell’autorganizzazione delle lotte, delle forme spontanee di organizzazione delle lotte piuttosto che alla problematica del partito: ovviamente con questa ci confrontammo perché ce la mise sul tavolo Tronti, però questo era un po’ l’orientamento. E devo dire che probabilmente alcuni di noi, me compreso, sono confluiti in Potere Operaio perché almeno inizialmente in esso si vedeva la faccia movimentista. Poi dopo anch’io sono arrivato a vivere la fase di stretta organizzativa, il dibattito parossistico sul partito e via dicendo, e credo di avervi anche partecipato, in parte di averlo anche condiviso, cosa di cui mi pento assai. Secondo me il ragionamento sul partito come organizzazione è stato un fattore fortemente regressivo dentro lo sviluppo dei gruppi, soprattutto nel nostro, in Lotta Continua è stato un po’ diverso, LC è sempre stata un po’ più movimentista anche se ha avuto una fase partitica, anzi quando si sono messi a fare il partito erano quasi più rigidi dei potoppini. Questa problematica del partito che a un certo punto si è imposta, secondo me ha snaturato tutti i geni positivi che erano maturati dentro questa esperienza. Io continuo a pensare che di questa esperienza (sia la nostra, sia quella di Lotta Continua, sia quella anche di altri organismi che in quel periodo nacquero) la parte movimentista era quella più interessante, quella più sana, quella più innovativa: era lì che bisognava probabilmente lavorare per capire come far crescere verso forme politiche nuove, invece con l’imposizione della problematica del partito gli si impose un andamento regressivo in qualche modo. Io non so se avrebbero potuto esserci altri sviluppi, ma sicuramente in questa maniera questi sviluppi furono bloccati. Ci mettemmo a scimmiottare i grandi partiti, tutt’al più facendo la faccia un po’ più feroce, facendo un po’ più rumore degli altri. Il ’68 anche in Italia ha rappresentato una grande innovazione, però in parte andava ad agganciarsi e a innestarsi su cose che già esistevano, cose molto minoritarie, che non avevano carattere di massa, però c’erano: quindi, probabilmente era quella la fecondazione che sarebbe stata utile che si sviluppasse e andasse avanti, il cortocircuito con la tematica dell’organizzazione secondo me ha castrato tutto questo. Ciò, coniugato con quello che dicevo prima, cioè quello che secondo me è un orizzonte politico eccessivamente ristretto, coartato, ha fatto il resto. Non c’è stata la possibilità appunto di procedere verso elaborazioni di idee politiche diverse, forse avrebbero potuto nascere se ti confrontavi con i problemi della libertà, della democrazia, sulle esperienze storiche di queste problematiche, sia in campo capitalistico sia in quello che allora era il campo socialista (poi si è capito che non lo era, era capitalistico anche quello). Insomma, secondo me c’è ancora un interrogativo, poi la storia non si fa con i se, però lì c’è stato uno snodo e resta interessante l’interrogativo di cosa sarebbe potuto succedere se invece di andare lì magari si andava di là: questo non ce lo dirà più nessuno, anche perché sono irripetibili quelle esperienze, non credo che ci siano le condizioni perché si ripeta qualcosa di simile.

- Quali sono i suoi cosiddetti numi tutelari, ossia figure e autori di riferimento che hanno avuto un particolare peso nei suoi percorsi?

Marx indubbiamente, me lo sono letto e studiato in italiano, in tedesco, in francese, in tutti i modi possibili e immaginabili. Credo di aver avuto (perché ora un po’ di cose sono dimenticate) una conoscenza di Marx molto approfondita e di essermi anche immedesimato con molto del lavoro fatto da lui, con la sua esperienza, già dalla sua lettura del capitalismo e così via. Quindi, sicuramente è un autore che ha pesato tantissimo anche se poi, forse proprio per questa indigestione giovanile, ho passato anni non leggendo più nulla di Marx, adesso ogni tanto mi vado a riprendere qualcosa ma non ho più utilizzato esplicitamente materiali marxiani. Poi Husserl per me è stato importante: è stata importante quella lettura che feci con Paci, poi me lo sono letto anche per conto mio in parte, ci sono ritornato molto di recente. Però quella lettura fatta con Paci de Le meditazioni cartesiane per me è stata molto importante dal punto di vista della costruzione di un atteggiamento mentale, di un modo di affrontare le cose, arriverei a dire (forse esagerando un pochino) di uno stile di vita. Questo accento posto da Husserl sull’esigenza di ritornare alle cose, ripartire dalle cose per fondare una scienza analitica è un pensiero che non mi ha mai abbandonato. Quindi, sicuramente Husserl, e dunque in questo senso il suo interprete italiano, Paci, che era persona di notevole fascino. Poi un autore che ho usato molto, ho letto molto, su cui ho lavorato parecchio è Schumpeter, che come economista non marxista è la persona che ha capito di più del capitalismo in assoluto, è insuperato, nonostante abbia scritto tutte le sue cose più importanti nei primi quarant’anni del secolo. Questi stanno su un palchetto bene in vista in alto, poi bisogna scendere di molto per trovare altre persone. Indubbiamente, lo dicevo prima, per me è stata importante l’esperienza del rapporto con Tronti, ma in quel contesto, poi con Mario dove è andato non ci siamo praticamente più visti; l’ho rivisto di recente, ho letto qualche cosa di suo, soprattutto i suoi lavori sul pensiero politico inglese che ho trovato interessanti e utili anche perché ci sono cose a cui sono ritornato anch’io. Sicuramente una persona importante, anche proprio sul piano della vita, che mi ha aiutato, è stato Graziani: questi è una persona alla cui libertà mentale devo certamente molto, perché lui ha avuto il coraggio di introdurmi in un ambiente accademico, di darmi una legittimazione che nessun altro mi avrebbe dato, quindi ha facilitato di molto il mio lavoro. Poi Graziani ora è un po’ irrigidito, ma è una persona di grande intelligenza, di grande cultura, è veramente una persona stimolante. Però non è nel pantheon, è una persona, un amico poco più vecchio di me che per me ha avuto un ruolo importante. Autori poi se ne possono citare tanti, però mi colpisce la domanda, non mi ero mai posto il problema: in realtà mi vengono da enumerare poche persone e pochi autori in prima battuta, forse ho letto troppo in vita mia, bisogna leggere meno!

- Qual è il funzionamento di questa azienda in cui lavora? Come vede, da questa angolazione, lo sviluppo di tutta una serie di processi capitalistici?

Questo qui è un punto di osservazione interessante per tante ragioni. Intanto perché si parla di una cosa di cui in Italia non si è mai parlato, cioè la concorrenza: da quando sto qua dentro quello stimolo di ragionare su cos’è questa cavolo di concorrenza, perché in Italia si è arrivati nel ’90 a fare una legge sulla concorrenza e mettere in piedi una struttura, un’amministrazione pubblica che ha il compito di farla rispettare, mi ha portato anche a rileggere un po’ tutta la storia italiana. Questo è un paese in cui, per quanto abbia avuto sempre forti correnti liberali, almeno a livello di potere, abbia avuto industriali che hanno sempre starnazzato “evviva la concorrenza, evviva il capitalismo della concorrenza ecc.”, poi tutto quello che è stato fatto è esattamente il contrario. E’ un paese in cui si sono costruiti monopoli pubblici e privati a tutto spiano; i privati fin dalle origini, fin dalla nascita dello Stato italiano hanno sempre fatto di tutto per non dover affrontare la concorrenza e per ottenere la protezione dello Stato, tutt’oggi piangono quando questa protezione viene meno. Quindi, questo è un paese che ha elaborato nel suo Dna economico-politico un sostanziale rifiuto di tutto ciò che è mercato, competizione, concorrenza: non stiamo ancora dicendo che questo è un bene o un male, stiamo semplicemente rilevando un fatto. In ciò è sorretto dalle due culture dominanti: la cultura cattolica e la cultura marxista, talvolta prendendo lucciole per lanterne qualche volta con buoni motivi, hanno fatto di tutto per tenere lontana dall’Italia una cultura della concorrenza e del mercato. L’Italia è arrivata nel ’90 a dotarsi di una legge sulla concorrenza, ultimo paese europeo a farlo e esattamente cento anni dopo che lo avevano fatto gli Stati Uniti. Notando bene che gli Stati Uniti hanno varato una legge sulla concorrenza nel 1890 con l’obiettivo di fare il culo a Rockfeller, accusato di mettere a rischio la democrazia del paese con i suoi trust petroliferi ecc., quindi con già una forte componente di rapporto (tutto da verificare, però vissuto nella realtà politica di quel paese) tra legislazione sulla concorrenza, democrazia, limiti al potere economico, questa è la problematica; in Italia questo bisogno non l’abbiamo mai sentito fino al 1990. Dubito che non l’abbiamo sentito perché non esisteva il problema della concentrazione del potere economico, non esisteva il problema della democrazia, anche economica ecc.: credo che dipenda dal fatto che le culture e le forze politiche dominanti che le hanno rappresentate hanno trovato molto più facile lavorare dentro una situazione che faceva perno sul ruolo dominante dello Stato. E nel ’90 noi ci ritroviamo questa legge che ci viene di fatto imposta dall’esterno, dall’Europa: tutti gli altri paesi europei ce l’hanno, a livello europeo esiste dal ’57, cioè da quando si è varata la Comunità Economica Europea esiste una legislazione, in Germania ce l’avevano dagli anni ’50, in Inghilterra idem, la Francia un po’ dopo. Arriviamo noi ultimi, l’iniziativa di legge (anche ciò è abbastanza significativo) fu presa da deputati della Sinistra Indipendente, quindi neanche allora è stato uno dei maggiori partiti a proporre che l’Italia si adeguasse ma è stata una minoranza, e ora c’è questa cosa.

Ci vorrebbe un discorso lungo (che io spero di fare in questo libretto che sto scrivendo) se effettivamente ha senso coniugare l’esistenza di un regime economico fatto di mercati in cui prevale più o meno la concorrenza perché questo è il sistema economico che meglio garantisce libertà e democrazia, se dunque ha senso argomentare questi nessi, quindi questo sarebbe un discorso lungo. Io mi sono fatto la convinzione che ha senso: certo si deve andare molto lontano per dare un senso a questi nessi, credo che comunque sia importante ragionarci sopra. Dire che effetto fa questo in Italia è tutt’altro discorso ancora. Al di là del fatto che ci sia qualcuno che giudichi positivo innovare le regole del gioco, innovare le modalità con cui funziona il sistema economico andando verso un’apertura dei mercati, un controllo del potere economico, un’abolizione il più possibile dei monopoli, sia quelli pubblici sia quelli privati, qui a parole ormai oggi molti sono a favore di questi cambiamenti, sinistra compresa, tranne le frange, tranne Bertinotti. Se si guarda il panorama delle forze politiche (compresa Alleanza Nazionale e questo è eccezionale) dai DS, passando per gli ex democristiani di varia tendenza e ricollocazione, per arrivare fino a AN, tutti ti dicono che dobbiamo svecchiare il paese, che ci vuole un sistema economico in cui ci deve essere più concorrenza, in cui si deve garantire la competizione, che sono inaccettabili le posizioni di monopolio e così via: lo dicono tutti, su come lo argomentano stendiamo un pietoso velo perché evidentemente queste culture non si improvvisano, invece tutti quanti si sono trovati a improvvisarle negli ultimi 4 o 5 anni, massimo negli ultimi 10, datiamo dal crollo del muro, quindi diciamo 10-11. Quando poi si passa a provare a farle queste cose succede un casino tremendo, perché prendere sul serio questa trasformazione vuol dire incidere profondamente su un sistema di potere economico e politico che ha una storia centenaria. Mi rendo conto che sono cose dette in maniera un po’ rozza e uno può dire che è chiaro che i dirigenti democristiani delle partecipazioni statali non sono la stessa cosa dell’autarchia mussoliniana: invece secondo me si può argomentare che c’è una sostanziale continuità più che centenaria (ormai sono quasi 150 anni) nel nostro paese, in cui si è venuto costituendo un sistema di potere economico e politico intrecciato e bloccato (fino a pochissimo tempo fa) su pochissimi centri di comando, di nuovo sia economico che politico. Dico cose ampiamente note, si tratta di alcune posizioni di potere economico, alcune famiglie come ben sappiamo, alcune posizioni di potere nello Stato, e spesso dialoganti e intrecciate tra di loro: lo Stato non ha fatto quasi mai cose che potessero dispiacere ai privati, e i privati viceversa hanno cercato di utilizzare sempre lo Stato. Quindi, questo intreccio c’è sempre stato, poi una delle cose più devastanti della nostra storia è secondo me la totale continuità che c’è sempre stata nelle élite dirigenti, di nuovo in quelle sia dell’economia che della politica, se si va a vedere non possiamo rifarci in trenta secondi la storia dall’unità d’Italia a oggi, ma basta un esempio: la vicenda della grande impresa pubblica che nasce con Mussolini e che chiude ora, non è un caso, l’IRI nasce nel ’33 e chiude nel 2000, in una sostanziale continuità di funzioni, di gruppi dirigenti, di uomini (la Banca d’Italia, le grandi famiglie ecc.). Quindi, dire che vogliamo andare verso un sistema aperto, verso un sistema non protetto dallo Stato ecc., vuol dire rompere parecchie posizioni di potere. Questo è un paese in cui (come spesso si dice, i giornali lo riportano e ci ricamano sopra) ci sono x leggi, perché nessuno sa quante sono effettivamente, si parla qualche volta di più di centomila quando in Francia o in Germania sono tre o quattromila: ma perché? Perché buona parte di queste leggi, se le si va a vedere, sono leggi che non sono state fatte dallo Stato: sì certo formalmente le fa il Parlamento, o il Re prima, però di fatto sono fatte da gruppi di pressione che con queste leggi tentano di garantirsi posizioni di privilegio, che vanno da quelle più piccole a quelle più grandi (esenzioni da questo, facilitazioni su quest’altro e così via). E qui si può modulare quanto pare, andiamo dalle migliaia di miliardi delle sovvenzioni pubbliche all’industria privata, o parliamo dei modi con cui gli ordini professionali si organizzano per suddividersi il mercato tra di loro e impedire che aumenti il numero dei notai piuttosto che dei geometri fino ai farmacisti. Insomma, come ti muovi in Italia c’è una legge che tutela e protegge il privilegio di qualche gruppo che nel corso del tempo è riuscito a quotarsi al mercato della politica, a portare a casa un privilegio e a non farselo più togliere: quando tu provi a toglierglieli starnazzano come dannati. Noi in un certo senso un pochino proviamo a fare questo, però appunto lo si prova a fare in Italia, in un contesto che è quello italiano, con un personale che è quello italiano, e questo dice tutto. Però, la partita che è in ballo è questa, cioè è una partita in cui un organismo come questo, che è sicuramente un corpo estraneo nel tessuto economico e politico del nostro paese, in qualche modo per forza è veicolo di un’innovazione nelle regole del gioco economico: per forza perché ormai ce lo impone la Comunità Europea, il fatto che stiamo dentro a cose più grandi di noi, e noi (questo organismo qua di cui faccio parte) ne siamo in parte veicolo. Quindi, in qualche modo, volenti o nolenti, indipendentemente dalla bravura, dal coraggio o dalle palle che hanno i cinque di cui parlavo in precedenza, delle cose le fai, perché hai una legge che te lo impone; poi si scatenano dinamiche nuove, nel senso che anche nell’economia italiana e in generale nel pubblico si è cominciato a capire che, essendoci una legge nuova che consente di rompere i coglioni a qualcun altro, ci si mette a giocare, cioè ci sono quelli che vengono da noi a dire “guarda che lui fa questo, fa quell’altro”: si innesca un processo nuovo che è fondamentalmente di messa in discussione di posizioni di potere date. Questo non vuol dire ovviamente cancellazione delle posizioni di potere, però è di messa in discussione delle posizioni di potere date. Questa cosa, coniugata con altri processi che comunque vanno in quella direzione (e il primo di questi è l’apertura, l’adesione al Mercato Unico Europeo) in pratica ha fatto venire meno quelle barriere che proteggevano una parte sostanziosa del nostro sistema economico, l’ha messo immediatamente in rapporto con tutto il resto. Da qui tra l’altro tutta la sofferenza delle regioni e anche della Padania, io spiego così quel quid di razionale che ci può essere nel bossismo, c’è anche questo, cioè la paura di fronte a questa apertura che improvvisamente si è data rispetto a mercati molto più ampi, a modalità molto più dure di competizione: non è solo questo ma secondo me c’è anche questa componente. Poi ovviamente questa cosa ha devastato il Mezzogiorno, dove si viveva di protezione in tutti i sensi, di lavori fasulli, di soldi erogati in maniera clientelare dagli organi dello Stato.

Secondo me la vicenda dell’Antitrust, quindi l’apertura dei mercati alla concorrenza, è un pezzo di questa vicenda che sta mettendo sotto tensione la realtà economica e politica del nostro paese, in parte riplasmandola: qui dipende da chi gioca e come si gioca e come si pensa di poter giocare per portare avanti processi un po’ più in una direzione piuttosto che in un’altra. E da questo punto di vista devo dire che le mie valutazione sono estremamente pessimistiche, perché mi sembra che nessuna delle forze politiche attualmente in campo, nessuna esclusa, ci capisca un cavolo in questa vicenda. Dico proprio nessuna delle forze politiche in Italia, sia quelle per le quali puoi avere qualche simpatia (le mie simpatie ormai sono prossime allo zero) ma anche quelle che consideri ostili: insomma non ce n’è nessuna, neanche voglio dire il buon Berlusconi, che pure dovrebbe essere quello che più trae vantaggio dall’andare in questa direzione, nessuna forza politica ha avuto e ha il coraggio e l’intelligenza politica di puntare anche solo in parte su questi processi di modificazione e di innovazione che vengono avanti; quasi tutte le forze politiche mi sembrano principalmente impegnate a difendere spazi di orticelli precostituiti. La cosa più clamorosa in questo senso, e anche quella che mi dispiace di più perché in fondo lì dentro poi ci stanno le persone a cui posso essere stato più vicino in passato, è Rifondazione sotto questo profilo, che proprio si rifiuta di ragionare su queste cose, dice “no, no, no perché quello è il diavolo e basta”: si fanno il segno, cioè si fanno la falce e il martello e così esorcizzano il diavolo. Dal punto di vista dell’analisi è forse più interessante capire perché un Berlusconi non decida questo: spara su tutti, dice “noi siamo liberisti, noi siamo per il mercato, noi siamo per la concorrenza”, ma non è assolutamente vero, quelle sono solo le sue sparate pubbliche poi nella sostanza politica non lo è affatto; e non lo è perché probabilmente anche lui realisticamente si è reso conto che le forze e i poteri che tengono il paese vincolato ai vecchi modelli che dicevo prima sono talmente forti che se tu vuoi conquistare la maggioranza ci devi fare i conti, devi cedere a queste forze. E queste sono forze alle quali non puoi dire che togli determinati privilegi, che togli loro certe sicurezze ecc., devi un pochino accarezzarle: in questo Berlusconi è molto simile a forze contrarie alla sua. Più difficile da capire Alleanza Nazionale: se c’è un partito nato e cresciuto statalista mi sembra AN, che oggi quando può spara a favore della concorrenza, “liberalizziamo qua, liberalizziamo là, privatizziamo ecc.”; non riesco a capire cosa le sia successo, se lo fanno semplicemente perché cercano di catturare un po’ di elettorato che ha un pochino di tradizione liberale, non lo so, non riesco a capire proprio, messe in bocca a loro queste cose fanno proprio effetto. Queste sono un po’ di considerazioni.

Da qua cosa si vede? Non voglio assolutamente fare un corso accelerato di politica ed economia della concorrenza, ma questo vale un po’ per tutte le legislazioni che nel mondo si sono poste il problema: fondamentalmente ci si pone il problema di colpire i cartelli, cioè gli accordi più o meno segreti che si fanno tra imprese per dividersi il mercato, tenere alti i prezzi ecc., quindi per non farsi la concorrenza. Dunque, uno degli oggetti è questo, colpire i cartelli, quindi questo vuol dire scoprirli, dimostrare in tribunale che esistono, costringerli a smontarli e far loro pagare multe salate: lo stiamo tentando di fare con i petrolieri, abbiamo dato 600 miliardi di multa perché secondo noi siamo riusciti a dimostrare che le grandi società petrolifere avevano costituito un cartello per governare il mercato a loro piacimento. Quindi, la prima cosa sono i cartelli. La seconda cosa è quando grandissime imprese, che occupano una posizione esorbitante su un determinato mercato, sono di gran lunga i principali produttori su un determinato mercato, usano questa loro posizione per mettere in atto tutta una serie di pratiche che impediscono ad altri di entrare in quel mercato, oppure di mettere sul mercato prodotti a prezzi più bassi e concorrenziali: questo è quello che, in linguaggio della concorrenza, si chiama abuso di posizione dominante ed è un’altra delle cose che noi colpiamo. L’ultima cosa di cui si occupa l’Autorità per la concorrenza è che quando due società si fondono tra di loro per fare una società unica devono prima chiederci il permesso, ovviamente al di sopra di una certa soglia, se lo fanno due negozietti qui accanto non devono assolutamente chiedere il nostro permesso, c’è una soglia che è determinata da un livello di fatturato che è indicato esplicitamente. Quando due società che stanno al di sopra di questo livello si fondono tra di loro devono venire da noi e chiederci il permesso di attuare questa fusione, oppure quando una società ne compra un’altra, perché noi dobbiamo valutare se l’entità che nasce da questa fusione o da questo acquisto può essere pericolosa perché troppo grande e può impedire ad altri di operare e quindi mantenere il mercato sufficientemente libero e competitivo. Sono queste le cose di cui ci occupiamo. Ci si rende conto di che cosa significa occuparsi di queste cose per un paese in cui appunto i cartelli sono addirittura la norma, al punto tale che c’era una cultura giuridica per cui bisognava addirittura razionalizzarli: noi, dal punto di vista della concorrenza, consideriamo i consorzi come cartelli, però i consorzi sono protetti dalla legge in Italia, quindi una cultura giuridica precedente a quella della concorrenza non ci vedeva nulla di male nel fatto che le aziende si mettessero d’accordo tra di loro per fare quello che gli pareva ai danni dei consumatori, questa era una cosa che non veniva mai presa in considerazione prima. Quindi, hai un paese che dovresti rovesciare come un calzino perché cartelli veri o mascherati esistono a tutti i livelli e in tutti gli ambiti. L’altra cosa sono le posizioni dominanti: in un paese in cui fino a poco tempo fa erano pochissimi i gruppi industriali, i gruppi economici che dominavano, ci si può rendere conto anche di cosa vuol dire stare a valutare ogni volta quando questi nelle cose che fanno abusano del potere e quindi infrangono la legge.

Certo, è un lavoro enorme, colossale da fare, in cui questo organismo tutto sommato è un pigmeo, poi si tenga conto che questo è un organismo comunque, siccome siamo in Italia, frutto di spartizioni partitocratiche, quindi comunque con valenze politiche, immagino che ognuno avrà i suoi suggeritori; però, nonostante tutto questo è un organismo che sta dentro, e agisce a mio modo di vedere positivamente, questi con processi di mutamento che incidono e che stanno incidendo anche sui rapporti di potere. Da questo punto di vista è un processo secondo me molto importante, anche se portato avanti (per quello che abbiamo già enumerato) in maniera molto carente e difettosa, ed era il motivo che utilizzavo dieci anni fa per dichiararmi entro certi limiti a favore anche dei processi di privatizzazione, perché anche i processi di privatizzazione sono in realtà processi che incidono su costellazioni di potere date, le scombinano; poi, per il modo in cui vengono realizzate, ne riprodurranno delle altre che magari piaceranno ancora meno di quelle precedenti, però resta il fatto che per la prima volta in questo paese da quando esiste si scombinano costellazioni di potere in maniera sostanziosa. Ciò non è mai avvenuto, è sempre avvenuto tutto per passaggi molto leggeri, molto concordati, molto guidati, non si è mai sbaraccato come in parte si sta facendo ora. Si pensi alla vicenda e al ruolo di Mediobanca in questo paese, è servita sempre ad attutire tutto, a gestire tutto, ad evitare gli scontri, a ricomporre tutto in famiglia, purché gli assetti di potere rimanessero quelli. Io devo dire che, fin da quando mi occupai di privatizzazioni nel ’90, e poi anche quando me ne sono rioccupato di recente (un paio di anni fa ho pubblicato un volumetto sul tema), mi è sembrato sempre che si trattasse di valorizzare in primo luogo questo aspetto, la valenza politica delle privatizzazioni in quanto processo che incide sugli assetti di potere dati. E siccome gli assetti di potere che erano dati in Italia fino a non molto tempo fa hanno creato sfracelli in questo paese, secondo me c’era una priorità che consisteva nello smantellare questi assetti di potere, qualunque fosse la cosa che poi ne sarebbe risultata. Certo poi li si giocava e si gioca la partita politica: se tu hai qualche voce nel gioco politico puoi cercare questi processi di portarli in una direzione piuttosto che in un’altra, però intanto apri la partita, apri il gioco. E le privatizzazioni si prestavano e si sono prestate (in misura molto minore di quella che io avrei auspicato) a essere questo: lo sono state solo in parte perché i soliti noti sono riusciti a tenere ferme le mani anche su quello, e questo grazie anche alla sinistra, alla “intelligenza” e al “coraggio politico” della sinistra.

- Negli ultimi anni, soprattutto all’interno del dibattito sul cosiddetto postfordismo, si è molto parlato dell’epocale ridimensionamento quando non della scomparsa dello Stato-nazione: secondo lei come si va riconfigurando il ruolo dello Stato e degli organi di potere e decisionali sovranazionali?

Secondo me è uno degli aspetti della crisi generale e delle difficoltà che si stanno vivendo. Lo Stato-nazione sta finendo per tante ragioni, era un tema su cui avevo cominciato a riflettere già quando con Aldo Bonomi ci occupavamo di sviluppo locale, di regionalismi ecc.; già allora anche solo occupandosi di quella tematica era facile vedere come il contesto in cui era opportuno ragionare era un contesto europeo, un contesto in cui diventavano tendenzialmente protagoniste le regioni ed entrando in conflitto con lo Stato tra l’altro. Qui c’è di nuovo un altro elemento che se si vuole porta a spiegare la Lega e il leghismo, quindi non solo con un trucidismo di Bossi ma con ragioni reali, di fondo, che stanno dentro i mutamenti economici e politici. Quindi, lo Stato-nazione non è più in grado di rapportarsi alla complessità e alla dimensione dei processi, anche perché appunto le aree economiche rilevanti tendono a essere sovranazionali; gli Stati non riescono a ricollocarsi dentro queste aree più ampie con una loro funzione, anzi come vediamo in Europa forse l’unica cosa buona che fanno è quella di cedere sovranità ai livelli superiori. Proprio nella misura in cui lo Stato nazionale vive anche e consapevolmente una sorta di eutanasia, cedendo sovranità ai livelli superiori, si creano inevitabilmente spazi per formazioni politiche a livello inferiore, comunque entra in tensione questo mondo, e lo Stato non governa più questi processi. Quindi, secondo me questo è il processo che attualmente stiamo vivendo già da parecchio tempo.

Quello che tuttora manca è la capacità di governo dei processi o (perché forse a quel livello parlare di governo è dire troppo) capacità di mediazione tra i processi ai livelli sovranazionali, perché l’Europa ancora non c’è da questo punto di vista: è una grande cosa, è una cosa contraddittoria, è una cosa che, come tutte le unioni, è nata prevalentemente sul terreno economico, non conosco un’unione che sia nata su un altro terreno in tutta la storia, però è rimasta troppo a lungo solo un’unione economica e quindi soffre del fatto che non ci sia stata la capacità di integrarla con una vita politica e sociale più articolata di quella che abbia ora. Poi soprattutto mancano sedi e organismi adeguati a livello mondiale. L’economia ormai (come appunto sappiamo senza bisogno di usare la parolaccia mondializzazione) è un’economia che per grosse parti e settori ha di per sé natura globale, planetaria, gli operatori si muovono avendo questo in mente, le grandi imprese ma non solo quelle si muovono sapendo che il loro terreno è il mondo, e in questo mondo non ci sono organismi in grado di fronteggiare i processi che vengono scatenati da questa interazione tra grandi operatori. Si stanno facendo delle cose ma produrranno risultati troppo tardi. Poi nel nostro paese tutto questo è aggravato dal fatto che noi avevamo uno Stato che era da buttare già da un pezzo, e quando ci decideremo a buttarlo del tutto sarà sempre troppo tardi, perché è uno Stato che sotto tutti i punti di vista (anche proprio in quello specifico, pesante, di amministrazione pubblica) è un disastro, perché è stato funzionale a tutto quel mondo di cui parlavamo prima, ha vissuto di quello, è cresciuto in maniera cancerosa dentro quel mondo lì e con quel mondo in parte sta cominciando a crepare. Però è un processo lungo, che non so neanche se si compirà mai perché poi si intreccia anche con altri meccanismi del potere e della trasmissione del potere che non si vedono in superficie: parlo del potere che è in mano alle persone, che è fatto di relazioni tra persone, tra famiglie, è un potere che non vedi perché non è situato da nessuna parte, che fa un cumulo di relazioni tra uomini che occupano posizioni nello Stato, uomini che occupano posizioni nella politica, uomini che occupano posizioni nell’economia, che sono amici e parenti tra di loro e che collocano i loro figli e nipoti in determinati posti. Questa è l’infrastruttura del potere ed è ancora più difficile da far cambiare.

- Il nodo della classe: c’è chi parla di una sua scomposizione e frammentazione, c’è chi parla di una sua polverizzazione, c’è chi parla della sua fine. Lei cosa ne pensa?

Questa è proprio una cosa di cui non riesco a parlare, mi era venuto in mente appunto leggendo il documento di presentazione. Cos’è la classe? C’è qualcuno che è in grado di mostrarmi in natura un qualche cosa che si chiama classe? Ma dico in natura proprio, poi concettualmente si possono inventare tante cose. Io francamente non la vedo. Una volta che è venuto meno un modo di produzione che produceva forti omogeneità e che vedeva queste omogeneità rinforzate dalla condivisione di ideologie, di fini, di motivi etici, di abitudini, e che è venuta meno questa cosa credo che siamo d’accordo tutti, poi si può divergere su cosa ha generato questo venire meno ecc., ma una volta venuto meno questo che senso ha parlare di classe? Ora lo dico, mi viene in mente per la prima volta: realmente l’uso del termine classe è invalso e ha avuto un senso finché si poteva parlare di due, tre classi, ma in una situazione in cui si dovrebbe parlare di 57, 62, 111 classi forse quella è una cosa che interessa chi si occupa di scienza naturale, che deve classificare gli animali, gli insetti ecc., ma ha interesse per chi analizza la società? Sono domande che mi faccio. Certamente io ho vissuto la fase in cui tutti quanti ci siamo detti cosa ne restava della classe operaia, che trasformazioni subiva; dal momento in cui è stato chiaro che non aveva più senso parlare di classe operaia perché non c’era, intanto perché cominciavano a non esserci più gli operai e comunque quelli che rimanevano avevano comportamenti e valenze sociali diverse da quelli del passato, da quel momento lì in poi io mi sono chiesto che senso potesse avere continuare a parlare di classe. Certo, ci possono essere convenzioni linguistiche, allora va bene, uno decide che chiamiamo classe tutte quelle aggregazioni di persone che sono caratterizzate dalle seguenti cose, allora possiamo chiamare classe l’aggregazione di tutte quelle persone che condividono un qualche cosa, una finalità, uno stile di vita, uno stile di lavoro, una condizione ecc.; però, se utilizzando il termine classe, invece, si vuole suggerire che c’è una continuità rispetto a una configurazione di classi che c’era prima, questo mi pare addirittura fuorviante. Certo, io oggi potrei fare l’esercizio di ricostruire delle classi, sia come esercizio analitico, intellettuale, sia come esercizio anche di pratica politico-sociale, ma con un senso e con modalità che segnano una cesura netta rispetto ai contenuti e al senso che ha avuto il termine classe nella società che ci siamo lasciati alle spalle. Allora mi chiedo appunto che senso ha parlare di classe, perché vedo questo rischio, che se ne inferisca una sorta di continuità dove invece quella che va letta è la discontinuità.

- Se, nell’ambito di questa conricerca, dovesse fare una domanda a una persona che è stata interna ai percorsi di cui lei ha fatto parte, a chi la farebbe e che cosa chiederebbe?

Non mi viene in mente né la persona né la domanda. Mi piacerebbe un’altra cosa, mi piacerebbe svolgere con alcuni di questi personaggi che abbiamo anche nominato (Tronti, Romano Alquati, Gasparotto, Negri) una conversazione del tipo di quella che abbiamo fatto noi stasera. Mi piacerebbe fare una cosa di questo genere, perché credo che abbiamo preso tutti strade un po’ diverse, nessuno di noi ha buttato via il bagaglio, io sicuramente sulle esperienze che abbiamo fatto in comune sono più critico di quanto lo sia Toni Negri, su questo non c’è dubbio; credo che parlando con Negri di Potere Operaio ne verrà fuori una valutazione e un quadro abbastanza diverso da quello che ne faccio io. Però, anche per chi può avere poi, riflettendo, valutato come “cazzate”, errori e quant’altro le cose fatte, mi sembra di poter dire che nessuno le ha buttate. Quindi, ci siamo ritrovati tutti quanti a farci i conti, a farne tesoro e a cercare strade nuove, altre strade, utilizzando quello che secondo ognuno di noi era possibile utilizzare di quelle esperienze e buttando via quello che consideravamo solo un fardello pesante che rende più difficile andare avanti. Questo è un lavoro e un esercizio che credo abbiamo fatto in maniera diversa, in questo senso c’è chi ha buttato via di più e chi ha buttato via di meno, ma non c’è nessuno che abbia rinnegato. Certo, ci sono delle cose da cui io penso che bisognava liberarsi per aprirsi altre strade, per ragionare e per ritornare alle cose, ripartire da un’analisi delle cose, elaborare nuove soluzioni, nuovi pensieri, introdurre nuove immagini della realtà in cui si vive, e c’erano certe cose di cui ti dovevi liberare perché pesavano, erano zavorra. Io credo di averlo fatto molto, qualcuno mi può anche forse rimproverare di questo, qualcun altro l’ha fatto meno, però credo che nessuno di noi abbia buttato via in questo senso l’esperienza fatta. Quindi, mi piacerebbe una conversazione su a che punto stiamo e perché ci stiamo, essendoci stati tra l’altro percorsi poi individualmente molto diversi, perché almeno io con molte di queste persone per un certo periodo ho avuto incontri solo occasionali; finita l’esperienza politica militante sono finiti anche i rapporti personali, che pure con alcune di queste persone sono stati anche molto intensi, anche sul piano proprio dell’amicizia, della frequentazione, con molte di queste persone e di altre che non ho nominato abbiamo passato anni stando assieme 12 ore al giorno, ragionando su tutto insieme, affrontando tutto insieme. Sono state esperienze anche molto pesanti in senso positivo sotto questo profilo, umanamente impegnative, quindi a maggior ragione non si buttano. Infatti, io vedo una cosa strana, che succede solo con queste persone: quando capita di incontrarsi, anche per caso, dopo tantissimo tempo, non c’è intanto nessun imbarazzo nell’incontrarsi e c’è subito una certa facilità di intendersi, di parlare, anche se poi magari approfondendo ci troveremmo su sponde lontanissime su tante cose, però è come se si sia stabilito per una volta un legame nell’esperienza che continua a produrre qualcosa. E questa non è una cosa da buttare in un’esperienza collettiva, anche se poi è diventata quasi evanescente e quasi invisibile: però, insomma non è da buttare.