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Per portare quel ’17 nel nostro ’17

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Testo di Franco Milanesi a partire da “Il treno contro la Storia” di Gigi Roggero

C’è una cosa che non si dovrebbe fare dopo aver letto questo libro di Gigi Roggero (Gigi Roggero, Il treno contro la storia. Considerazioni inattuali sui ’17, collana Input di DeriveApprodi, 2017): una recensione, almeno nel senso di quell’approccio “critico” che percorre il testo avanti e indietro, segnalando quel che c’è e quanto manca, cosa è ben mirato e quando invece si sfiora il bersaglio. Fare, insomma “la lista della spesa” di volta in volta con il dito puntato o più educatamente la mano alzata per dire la propria. Roggero non si mette preventivamente al riparo dalla critica ma dice implicitamente che non è un confronto quello che cerca (altri suoi scritti, aggiungiamo, hanno avuto questa funzione a partire da La misteriosa curva della retta di Lenin. Per una critica dello sviluppo del capitalismo oltre i «beni comuni», La casa Usher, 2010, un vero sasso tirato nella riflessione di movimento) perché ciò che abbiamo tra le mani è un pamphlet – tagliente, breve, partigiano e fastidioso come dev’essere – svolto nella tonalità delle “considerazioni inattuali”. Questo sottotitolo non è un generico richiamo. In più occasioni riecheggiano i moniti della seconda inattuale di Nietzsche, Sull’utilità e il danno della storia per la vita. Rammemorare il passato significa farlo “entrare in scena” poiché la storia appartiene “all’essere attivo e possente, a colui che combatte una grande battaglia”, “a chi fedele e amoroso si volge indietro per vedere il luogo dal quale viene, nel quale è divenuto”, un passato che deve essere “trascinato davanti a un tribunale, interrogandolo scrupolosamente e infine giudicandolo” così da “rompere e sciogliere un passato, per poter vivere”. È Nietzsche, ed è il programma “storiografico” che Roggero svolge fin dall’inizio del breve volume, antitetico a ogni “coscienza epigonica”, quella che ripete gesti e parole d’ordine depotenziando il passato nella celebrazione rievocativa.

Non si tratta evidentemente di sentenziare sulla condotta di Lenin ma, al contrario, di condurre questo “noi” nell’impegnativo confronto con quella storia. Roggero ci fa vedere un Lenin in minoranza (il rivoluzionario è minoranza con volontà egemonica), in difficoltà anche tra i bolscevichi, puntualissimo nel cogliere il gioco delle forze, di cesellare i confini degli eserciti in battaglia. La composizione politica non si delinea mai come soggettività già data o fondata a priori (la composizione tecnica del proletariato di fabbrica armato di coscienza di classe). È una comunità in divenire quella da lanciare contro una Storia regolata da passaggi scanditi lungo una destinale linea retta. Può comprendere i contadini a cui si promette pace e terra rendendoli disponibili, per non finire maciullati e tornare a casa a prendersi i campi, a girare il fucile verso i vecchi e i nuovo padroni. Dimostrando così che il processo di classe, la sua formazione e il suo indirizzo, non sono mai “dati” (non eventi-concetti definiti a priori) ma sono “incarnati nel processo di lotta” che la classe, come scriveva Roggero nell’Elogio della militanza – un testo di cui questo pamphlet non è la continuazione ma la riscrittura militante – “è sempre un passaggio che va conquistato” (Gigi Roggero, Elogio della militanza. Note su soggettività e composizione di classe, DeriveApprodi 2016, p.190). Lenin ci insegna che bisogna insinuarsi nelle divisioni interne al nemico, salire sul treno preparato dalla stato maggiore tedesco e gettare oltre i confini il bacillo della peste, della guerra alla guerra. Dimostra infine, prima che siano gli operaisti a dirlo, che “quale sia il punto arretrato e quale il punto avanzato non lo determina il capitale, ma la lotta di classe” (p. 11), mostrando come si sta “dentro e contro” il proprio tempo: comprenderlo (nel senso proprio, assumerlo in sé con l’intelligenza dell’agire) per combatterlo e rovesciarlo.

Armati della presa d’intelligenza sul passato sorvoliamo a questo punto il campo nemico, concentrandoci sugli attori sociali e politici, sulle tipologie umane che governano davvero i luoghi della valorizzazione. Dai padroni si deve innanzi tutto imparare, dalla loro duttilità, dalla capacità di sussumere il dissenso e di ricavare vantaggi anche mentre si retrocede o nel gorgo della crisi. In nessun momento il capitale ha perso tempo a discutere del rapporto tra spontaneità e organizzazione, tra il cielo dell’ideologia e la materialità della prassi, temi su cui il movimento anticapitalista discute e si accapiglia, con esiti spesso stucchevoli, da un secolo e mezzo. Sentite: “Il processo organizzativo del capitale, la sua temporalità, è cumulativo, combina incessantemente la continuità dell’estrazione organizzata di valore con la cattura e il balzo innovativo di fenomeni spontanei che sfuggono alla sua organizzazione. La retorica progressista è la sua narrazione ideologica, fatta ex post come tutte le narrazioni ideologiche; la prassi cumulativa – fatta di continuità e salti – è la sua realtà concreta” (p. 65). Possiamo aggiungere che c’è anche molto da imparare dal grandioso “piano politico del capitale” che ha dato intelligenza politica e diretto gli istinti animali capitalistici incardinando il mercato “libero” su codici di vario genere, eserciti ed egemonia. Ma qui presupponiamo un esercizio di forza politica di là a venire. Sarebbe già importante superare le infinite dicotomie che abbiamo segnalato e in cui si è perso i discorso antagonista e finalmente “alimentare di spontaneità l’organizzazione e condure l’organizzazione dentro la spontaneità” (p. 24). Un dispositivo composizionista che andrebbe fatto valere per tutte le false alternative che percorrono il corpo della collettività militante – la pulsione desiderante e la “dura” disciplina, il teorico rivoluzionario e il funzionario del già esistente. Figurazioni delle militanza che invece di segnalare un proficuo campo di tensione che smuove incessantemente il nostro stare nel presente (prima del presente stesso) si sclerotizzano come contrapposizione di concetti o di modi d’essere eternizzati.

Spostiamo allora lo sguardo sulla comunità che viene, quel “noi” tutto da comporre e mai da de-finire, sostanza rivoluzionaria senza sostanza.

Alcuni punti fermi prima di lanciare la sonda. Una volta per tutte diciamo che “non siamo di sinistra” e non vogliamo avere nulla a che fare con lo Stato come istituto super partes con delega al monopolio del comando o con l’esaltazione lavorista e progressista. Bene, ma contraddicendo l’impegno a non alzare la mano per “intervenire”, è forse doveroso apportare non una correzione ma una piccola aggiunta. Se giustamente si sottolinea l’importanza - in una “terra di mezzo” in continua ridefinizione – di un tatticismo duttile, raffinato e potente che dia sostegno a un’azione politica efficace; se è vero che la sinistra va salutata e lasciata andare verso quella deriva – che è anche la sua origine – che chiamiamo blairismo, “terza via”, capitalismo “un po’ più equo e un po’ più giusto”; se, ancora, la destrutturazione e precipitazione del ceto medio ci obbliga a osservare, con interesse e disincanto, fenomeni diversissimi come la Brexit e i Forconi, i creditori degli istituti bancari e le lotte per la casa; se la “ricomposizione tra ceto medio destrutturato e proletariato gerarchizzato nei processi di «cognitivizzazione» e riproduzione della capacità attiva umana” potrebbe essere vista come “l’equivalente funzionale dell’alleanza tra operai e contadini di un secolo fa” (p. 76); perché, allora, non osservare con pari attenzione alcuni luoghi istituzionali, oppure puntuali lotte sindacali o addirittura battaglie per i diritti? Nessuna illusione sul carattere neutro o blandamente anticapitalista delle mete eventualmente raggiunte. Ma su quei terreni si possono fare incontri interessanti, si possono intercettare soggettività disponibili a un salto di qualità del conflitto, magari interessate a inacidirne in senso classista i contenuti. Se il capitale attacca anche quei luoghi - e alle volte lo fa con imprevedibile violenza - se sussume e mette a valore un centro per anziani, una scuola o l’assessorato ai lavori pubblici di un piccolo Comune, allora può diventare interessante spostare anche lì il livello dello scontro e vedere cosa succede. È proprio, come dice Roggero, la “caotica ambiguità dei processi reali” che ci obbliga, a “utilizzarli anche contro la direzione che qualcuno si era immaginato” (p.19). Pertanto, viene da dire, a tenere aperte tutte le ipotesi per organizzare forme di vita sottratte alla competizione, alla ”crescita”, al criterio del valore, tali da diventare inciampi per il nostro avversario e imprevedibilmente disponibili a essere parte – magari piccola, magari incerta – di un più ampio fronte antagonista.

Questa è, del resto, proprio la domanda che percorre il corpo teorico del testo di Roggero e il corpo materiale della militanza comunista. Dove e come si forma controsoggettività? Come il malessere si condensa in azione collettiva? Su questo crinale si svolge una linea discorsiva che possiamo definire antropologico-politica solo se si opera il détounement dell’Accademia: nessun universalismo volto a tratteggiare i caratteri generici di un’astrazione indeterminata ma il militante rivoluzionario colto nella radice materiale della propria determinazione storica.

È qui che si fa particolarmente difficile e alle volte urticante il discorso di Roggero perché chiede di “fare i conti con la nostra inadeguatezza”, di essere “militanti contro se stessi”, di combattere il capitale che è in noi; perché guarda al noi (che è anche un sé) cogliendo i tic, gli automatismi, gli accomodanti autoriconoscimenti. Il treno va lanciato non solo contro il nemico ma anche contro noi stessi. Portare quel ’17 nel nostro ’17 significa soprattutto non fare sconti alla propria parte, pensare “con il martello” proprio mentre si osserva il campo dell’antagonismo anticapitalistico. Tutti i concetti e le identità (il “sentirsi” parte di una dimensione metaindividuale, una collettività, la sua storia e il suo presente) esauriscono la propria funzione rivoluzionaria nel momento in cui non si calano nella dimensione del possibile oltre l’esistente ma si risolvono nelle dispute sull’appropriazione di questa o quella figura (“gli atti notarili per l’eredità dei morti”). Come il conflitto di classe deve stare prima del capitale, così i modi d’essere e le identità devono sfuggire alla preventiva presa nominale dall’avversario. La parola è sempre performativa della cosa che nomina. Dunque, se è il capitale a dire chi siamo, a descriverci, magari a proporci luoghi di mediazione presupposti di reciproco riconoscimento, vuol dire che ci ha afferrato, che non gli siamo sfuggiti. Roggero non lo nomina, ma sentiamo ancora un’eco del Nietzsche che si scaglia contro il risentimento, la re-azione, il passo secondo che segue e calpesta l’orma del nemico. L’immagine di una composizione politica discendente “naturalmente” dalla composizione tecnica è, in fondo, questo stare dentro una derivazione invece di creare anticipazione. Un determinismo cui segue di regola la presunta “investitura divina” (57) che ci porrebbe come avanguardia del movimento reale. L’argomentazione di Roggero contro ogni forma di datità si fa implacabile, rivolta innanzi tutto al sé della militanza. L’atto preventivo è lo svelamento di ogni “stasi micro-identitaria” nell’illusione prospettica dell’autosufficienza. Partire dal “noi” e lì restare, nel confortante calore di una comunità d’amicizia che basta a se stessa. Pronta però a guardare in cagnesco la “bottega” che, dall’altra parte della strada, sbandiera con più efficacia analoghe parole d’ordine e finalità. Scorrono le immagini (cariche dell’affetto impaziente di chi conosce e sta in una realtà affacciata al rischio dell’autoriconoscimento) del “centrosocialismo”, delle felpe d’ordinanza, della “solitudine comunitaria” che segue ogni “cinguettio di rivolta”, del feticismo della struttura che attribuisce gli errori e le sconfitte sempre alle forze esterne. A queste chiusure identitarie non si risponde certo contrapponendo nel cielo del concetti un uso “corretto” della militanza. Basta davvero con le schermaglie concettuali. Non è questa la pars destruens cui segue la pars construens perché l’intreccio tra statica e trasformazione è già tutta data nel corpo della comunità militante e l’efficacia della controsoggettività va continuamente messa a tema solo nell’accadere delle lotte. Con alcuni punti fermi pratico-teorici, rappresentati dalle grandi eredità che, come detto, devono essere fatte valere dentro il proprio tempo. Osservare di nuovo il treno di Lenin, ripensare la piega che le sue tesi d’aprile praticano nella linea retta della Storia, riflettere sul rapporto tra soviet e partito bolscevico. Momenti più prossimi a noi: Alquati e la conricerca, non etichette sotto cui collocarsi ma prassi di comprensione e modificazione dentro i processi reali. “Fare inchiesta immergendosi nei contesti sociali con sguardo progettuale” (58), magari sbagliando, provando, cercando di comprendere nel farsi stesso di un processo trasformativo che ha “bisogno” di noi molto più di quanto noi si abbia di lui per de-finire il nostro esserci antagonista. Meglio, in un gioco a somma imprecisabile dove il soggetto militante scuote la storia – con un “peso” relativo non definibile – in un ritorno di contingenza sull’essere stesso della militanza. “La produzione della soggettività nel capitalismo è intrinseca al rapporto sociale di produzione e di sfruttamento, è la posta in palio di un processo antagonista e di formazione, cioè di conflitto, violenza, riproduzione, consenso, trasformazione” (41-42). Tutto questo, in una parola, è politica, almeno nel senso dato da Alquati, scrive Roggero in Elogio della militanza, di “un’attività che mette in gioco i termini reali del potere nella società” (187)

Torna più volte la metafora del bacillo, una piccola potenza, che sta dentro e si muove contro, con un dilagare non prevedibile da alcun progetto, un termine che a Roggero non piace perché odora di programma cartaceo, tracciatura al tavolo di un piano d’attacco. No, “il militante ricomincia sempre” (69) e lo fa da un “punto di vista” che è tanto parziale quanto mobile.

Tutte le declinazione di una militanza possibile – conflitto, soggettività, tendenza, ricomposizione, autonomia, libertà – sono collocate da Roggero su un “campo di battaglia”. Ne fa un meritorio uso di classe strappandole (si pensi alla libertà) all’altra parte. Ma ci ricorda sempre che queste parole, quanto più nostre, quanto più dette in un libro militante, hanno un’eccedenza ineludibile oltre il dire e il pensiero: “allora osare scommettere, osare agire, osare fare la rivoluzione. Non è forse per questo che viviamo?” (66).