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L’inchiesta come metodo politico: soggettività, ambivalenza e aspettative del vivere nella crisi

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Testo di analisi del progetto di ricerca Vivere nella crisi di Bologna

“Vivere nella crisi” è un progetto di inchiesta che nasce all’inizio del 2016 a Bologna con il principale intento di portare avanti una scommessa: problematizzare il concetto di bisogno attraverso l’atteggiamento della scoperta e la messa a critica di un metodo, quello che si approccia allo studio della composizione sociale attraverso un etichettamento a priori dei suoi supposti bisogni e desideri. In altre parole: parlare con chi non abbiamo mai parlato e andare dove non siamo mai stati.

Il progetto si colloca all’interno di quella che ormai da anni viene definita come crisi permanente, un dispositivo che agisce materialmente per il governo delle aspettative sociali e che, se da una parte determina una compressione della qualità di vita e condizioni di impoverimento generalizzato, dall’altra non conduce direttamente ad una conflittualità sociale bensì spesso all’accettazione di queste condizioni. Il rapporto tra crisi e lotte non è infatti lineare e determinabile in astratto, secondo un’idea mai verificata secondo cui se stai sempre peggio significherebbe automaticamente che la tua insoddisfazione si sfogherà verso l’alto, contro i responsabili della crisi; tendenzialmente è proprio nella crisi che la rabbia sociale si sfoga il più delle volte in senso orizzontale, se non intervengono forze e processi in grado di ricomporre i soggetti in senso antagonista.

Vivere nella crisi si pone allora come uno spazio aperto e in costruzione, che si alimenta del proprio percorso. Perché i suoi protagonisti potenziali sono tutte e tutti coloro che vivono nella crisi, subendone i costi e – potenzialmente – capaci di attivarsi per fare pagare i costi a chi la crisi la governa. Uno sportello in movimento che non vuole essere struttura chiusa, perimetro identitario ma, provando a distruggere l’identità nelle sue declinazioni tecniche, vuole concentrarsi invece sulla soggettività come campo di battaglia.

Problematizzare il concetto di bisogno ha significato innanzitutto evidenziarne la sua ambivalenza, così come ambivalenti sono le soggettività forgiate dal capitalismo. Il bisogno e la soggettività non sono in sé antagonisti, lo sono in potenza o in attualità e sta a noi, attraverso la conoscenza della realtà, organizzarci in un processo di trasformazione dell’esistente, per riaggregare e ricomporre la parte collettiva, dare una direzione ai sentimenti di insoddisfazione e rabbia che la composizione sociale esprime, indirizzare la nemicità verso l’alto.

Atteggiamento della scoperta significa allora innanzitutto parlare con chi oggi vive e subisce le condizioni dettate dalla crisi, cercando di individuare quali siano le possibili forme di rifiuto e micro-resistenza e soffermandosi sul tema delle aspettative. Abbiamo spesso discusso sul concetto di aspettative decrescenti – quelle di chi avendo sempre meno accetta sempre di più –, ma la domanda è: a cosa invece non si vuole rinunciare? In altre parole provare ad individuare le possibili forme di rifiuto e non accettazione che si esprimono in forme profondamente ambigue; questo significa che ci troveremo di fronte a comportamenti, umori, che esprimono una politicità intrinseca ma che si danno ancora su un piano individuale, senza assumere una forma politica esplicita e collettiva ma indicando una possibilità e un’istanza di conflitto ambivalente.

Si tratta di una scommessa ambiziosa e quindi complessa; andare oltre la gestione dell’esistente, cogliere le trasformazioni nel loro divenire, è qualcosa che non ha a che fare con la mera contingenza ma mantiene due tipi di sguardi sulla realtà: uno sguardo al presente e uno sguardo rivolto al medio-lungo periodo, uno sguardo strabico che sia in grado di individuare delle tendenze dando corpo e materialità ai soggetti. Riportare dunque al centro della ricerca militante il concetto di protagonismo sociale e politico, troppo spesso sacrificato per una marginalità compiacente; rovesciare in terreno di rivendicazione i sentimenti di anti-politica, capire come mettere in contatto soggetti differenti a partire dalla materialità della condizione di vita e dai processi di impoverimento diffusi.

Nodi centrali emersi dalla prima fase di inchiesta

L’obiettivo generale del progetto è quello di concentrarsi su differenziati spazi urbani: scuole e università, quartieri e luoghi di aggregazione, centro e periferia. I principali nodi da affrontare e che ineriscono direttamente alla condizione di vita nella crisi sono: salario e reddito, casa e affitto, welfare e servizi, saperi, spazi e socialità.

La prima fase di inchiesta di cui vogliamo qui presentare i risultati, ancora parziali, si è sviluppata principalmente in due luoghi: l’università, il Centro per l’impiego di Bologna, alcuni spazi urbani di periferia e luoghi di aggregazione urbana, dalle piazze ai centri commerciali. Abbiamo raccolto una trentina di interviste a soggetti differenti, con età compresa tra i 20 e i 45 anni: studenti, studenti-lavoratori, laureati, lavoratori , disoccupati, uomini e donne in cerca di lavoro. L’intervista cerca di andare in profondità rispetto ai nodi centrali individuati dalla traccia d’inchiesta, ma è nello stesso tempo flessibile nella misura in cui lascia spazio alle tematiche che l’intervistato fa emergere come centrali.

I primi elementi venuti fuori sono la voglia di parlare e confrontarsi, insieme all’insoddisfazione più o meno generalizzata per le condizioni di vita di ognuno degli intervistati. Questi sentimenti mettono in luce l’insoddisfazione verso questo presente, il voler uscire dalla propria situazione di solitudine e dall’atomizzazione che le politiche neoliberali hanno imposto. A dispetto di quanto ci diciamo spesso, la realtà non è caratterizzata dal puro immobilismo, semplicemente non si muove per come lo avevamo immaginato. A muoversi sono infatti, come vedremo a breve, le strategie che i soggetti mettono in campo per vivere nella crisi, strategie che possiamo definire come forme di micro-resistenza che, però, si danno ancora su un piano debole, di sopravvivenza e rinuncia piuttosto che di rivendicazione.

Lavoro o formazione?

Uno dei nodi centrali che emerge con forza dall’inchiesta è il tema del rapporto tra lavoro e formazione che assume svariate connotazioni. Innanzitutto la necessità per molti studenti di dover lavorare: l’assenza, l’esaurimento o la riduzione del welfare familiare, dovuto in alcuni casi al fatto che la famiglia deve sostenere la formazione di più figli, porta all’obbligo di sostentamento autonomo da parte dello studente. Se questa condizione è per alcuni sopportabile – con la rinuncia però ai propri spazi di socialità e attivazione nel sociale –, per altri invece pone l’obbligo di una scelta: lavoro o vado all’università? Nella maggior parte dei casi la scelta è quella di andare a lavorare per un semplice calcolo di opportunità: è forte l’assunzione del dato di fatto che l’università oggi non è più un ascensore sociale ma semmai una scala mobile verso la precarietà e il lavoro gratuito. In altre parole gli intervistati pensano che trovare lavoro con un titolo formativo o senza di esso sia la stessa cosa; anzi, l’università può risultare essere una perdita di tempo per cui è ritenuto più conveniente cercare subito un lavoro. Se però la scelta in vari casi ricade sulla rinuncia alla formazione, il desiderio sembra essere viceversa quello di una formazione differente.

Un altro aspetto del rapporto tra lavoro e formazione che emerge con intensità riguarda la quasi impossibilità di trovare, dopo la laurea, un lavoro inerente al proprio percorso di studi. La prospettiva futura per chi voglia trovare un lavoro compatibile con la propria formazione universitaria è spesso quella di lavorare gratis nel presente con la promessa di un lavoro retribuito per il futuro. Ecco allora che gli intervistati che si sono trovati in questa situazione hanno dovuto ancora una volta operare una scelta: c’è chi ha a disposizione un più consistente welfare familiare che gli ha permesso di svolgere stage e tirocini gratuiti – in alcuni casi però dovendo rinunciare alla propria indipendenza tornando a vivere con i genitori –, chi sopporta il peso di svolgere un lavoro gratuito e nello stesso tempo lavoretti occasionali per arrivare a fine mese, oppure – ed è questa la via privilegiata – chi decide di cercare un lavoro che non c’entra nulla con la propria formazione universitaria.

La gratuità del lavoro – sotto forma di stage e tirocini – diventa dunque il modo d’accesso principale al mondo del lavoro per chi scelga di mettere a frutto la propria formazione universitaria. Le forme di resistenza rispetto a ciò sembrano manifestarsi ancora su un livello di rinuncia e di sopravvivenza: esodo dall’università o accettazione del doppio lavoro – uno precario e gratuito e uno precario e sottopagato.

Che università vorrebbero gli studenti?

“Per quanto riguarda i professori e le modalità di conoscenza, non c’è stato niente di più di comprare dei libri, dare un esame e andare avanti. Non è stato stimolante. I piani di studi sono rigidi e non danno spazio di scelta, effettivamente se avessi avuto più possibilità multidisciplinari mi sarebbe piaciuto ad esempio fare anche qualcosa di filosofia. Potrei seguire altre lezioni ma questo mi farebbe perdere molto tempo anche perché la mia vita non è solo l’università, anzi per me adesso l’università sta diventando un problema.”

“Ho impiegato molti anni a terminare il corso di laurea per male gestione di tempo di vita e tempi di studio, non ho avuto stimoli né possibilità di indipendenza formativa all’interno del percorso formativo, anche per tempo non ho avuto la possibilità di sviluppare conoscenza e interessi anche non strettamente legati al corso di studio specifico.”

“Uno dei motivi di blocco è anche dovuto all’organizzazione per crediti che ha frammentato moltissimo gli esami aumentandone il numero, con tempi strettissimi di preparazione e un’organizzazione degli appelli d’esame che rende difficile lo svolgimento regolare degli stessi (sessioni d’esame distribuite e condensate in peridio brevissimi di tempo).”

Un aspetto centrale che emerge da questi frammenti di interviste è l’insoddisfazione verso gli aspetti didattici e organizzativi dell’università che dovrebbero invece stimolare un sapere multidisciplinare e collegato alla realtà, depurandosi da elementi burocratici alienanti e inutili. La rigidità dei corsi di studio – che poi si tradurrà in rigidità e preselezione dei temi di ricerca –, sembra essere il perno della critica al modello di formazione attuale e quindi un potenziale punto di partenza per immaginarne uno totalmente differente. È interessante leggere questi motivi di insoddisfazione in relazione alla categoria dello “studente-utente” che spesso abbiamo utilizzato per identificare l’attuale soggettività studentesca all’interno dell’università azienda. Se da una parte è vero che oggi lo studente diventa sempre più utente di servizi e non più soggetto attivo della produzione del sapere, dall’altra quello che emerge da queste interviste è che lo studente-utente è insoddisfatto di questa etichetta che gli si mette addosso e ci dice che i suoi bisogni e desideri formativi sono ben altri.

Un’altra suggestione che emerge dall’inchiesta sul tema dell’università si lega a due concetti che abbiamo approfondito negli ultimi mesi: quelli di “studente-divano” e “studente-investimento”, una suddivisione concettuale necessariamente approssimativa per sgrossare e iniziare a tagliare la complessità della questione, e che in questo caso può esserci utile a leggere alcuni risultati dell’inchiesta. Abbiamo definito lo studente-divano come colui che nutre basse aspettative rispetto all’università, vivendola soprattutto come un’esperienza di aggregazione e socialità nell’attesa della precarietà, disoccupazione o comunque incertezza a cui sa di andare incontro, o meglio che già vive. Lo studente-investimento è invece colui che nella maggior parte dei casi studia materie più scientifiche – economia, ingegneria, giurisprudenza, medicina – e nutre delle più alte aspettative nei confronti del proprio futuro lavorativo legato al percorso formativo. Si tratta di un tipo di studente forse più lontano dai collettivi e dagli ambiti politici antagonisti per formazione e identità, ma che più facilmente forse potrà rendersi conto che la promessa che gli viene fatta nel presente formativo non verrà tendenzialmente rispettata nel futuro lavorativo. Da alcune interviste a studenti di economia e ingegneria quest’aspetto del tradimento della promessa irrompe con forza e cambia completamente il quadro di aspettative proprie di questi studenti. Uno studente di ingegneria ad esempio ci dice: “il problema fondamentale è che l’università non è collegata con il lavoro, dopo devi ricominciare. Si è puntato più sulla teoria, su cose di dieci anni fa, come nei laboratori. Ho anche l’esperienza di miei amici che confermano che non è immediato che studi e poi lavori”; riguardo alle sue aspettative: “adesso è diventato troppo difficile, uno fa tanti sacrifici, studia, ed è comunque tutto a carico della famiglia. Sì lavori, con il lavoretto da cameriere aiuti, però è una spesa che grava sulla famiglia. Io sono fuoricorso, magari ci sono le borse di studio e ti danno una mano, però sono sacrifici. Cerco lavoro, dove trovo qualcosa vado, provo a pensare di trovarlo altrimenti me ne dovrei andare dall’Italia. Io invece voglio rimanere qui, perché ho gli amici, mia sorella è qua. Però se non trovo niente me ne vado”. Anche uno studente di economia intervistato vede tradita la promessa di un lavoro dopo la laurea, costretto a svolgere un praticantato non retribuito torna a casa dalla famiglia per non gravare ulteriormente sul welfare familiare di cui già aveva usufruito per investire su una facoltà che avrebbe dovuto garantirgli un futuro. Anche in questo caso il quadro di aspettative muta e addirittura lo studente torna a casa rinunciando alla sua emancipazione.

Il tradimento della promessa determina un mutamento delle aspettative che, è bene sottolineare, non assumerà per forza la direzione del rifiuto e della rivendicazione ma, come in questi casi, quella della rinuncia e della parziale accettazione. Inserirsi in questa trasformazione, in questo mutamento delle aspettative, nel solco della promessa tradita, non significa allora soltanto prenderne atto, conoscere la realtà, ma cercare di dare una direzione politica e specifica a queste insoddisfazioni.

Reddito e ricchezza sociale: welfare, servizi e riproduzione

Un’altra questione che secondo noi merita di essere messa in risalto è il nodo della riproduzione sociale come contenitore di una serie di problematiche che riguardano la vita all’interno degli spazi urbani – welfare sociale e familiare, questione abitativa, rapporto centro-periferia, reddito, sanità e debito. Tutti questi aspetti conducono ad una riflessione più ampia sul tema del reddito e della valorizzazione capitalistica della ricchezza sociale, alla quale dovrebbe opporsi l’autovalorizzazione intesa come riappropriazione di questa ricchezza. Dalle interviste emerge chiaramente come questo terreno sia strategicamente rilevante nella misura in cui, sebbene nella crisi diventi l’ambito stesso di strategie di sopravvivenza e di rinuncia, viene descritto come qualcosa che ci appartiene, che è necessario pretendere. In altre parole: se la possibilità che l’accettazione si rovesci in rivendicazione si palesa come potenzialità, come trasformarla in attualità?

I temi centrali che gli intervistati, quasi all’unisono, mettono in risalto variano soprattutto a seconda della posizione sociale del soggetto. Lo studente – o studente-lavoratore – pone principalmente il problema dell’assenza di servizi gratuiti per i giovani e la scarsità e inaccessibilità dei servizi allo studio come le borse di studio oppure gli studentati. Queste considerazioni si intrecciano a doppio filo con la questione del welfare familiare: solo chi può indebitarsi con la famiglia – forma di debito più sottile in quanto non è un peso direttamente economico ma “morale”, dove con quest’ultimo termine intendiamo il ricatto a cui lo studente è sottoposto perché vive la pressione di dover far fruttare l’investimento familiare e le aspettative rispetto al suo futuro – avrà la possibilità di mantenere una qualità di vita accettabile. Al contrario, come è emerso dall’inchiesta, lo studente è costretto a districarsi in almeno tre alternative differenti: rompere il debito morale attuando un piano di autonomia e di indipendenza economica accettando qualsiasi tipo di “lavoretto”, tralasciare la formazione come forma di investimento per il futuro, diventare uno studente-lavoratore in assenza di welfare familiare.

Alla luce di tutto ciò, cosa significa welfare familiare? Innanzitutto una forma di risparmio che nella crisi da possibile investimento diventa reddito per i precari di seconda generazione, più o meno corposo a seconda della collocazione lavorativa e sociale delle famiglie. Non si tratta più di un risparmio che garantisce un consumo riproduttivo, ma di vero e proprio consumo distruttivo di ricchezza messa direttamente a valore dal comando capitalistico. Il welfare familiare, allora, diventa l’ultimo appiglio in una condizione di impoverimento dettata dalla crisi e una discriminante trasversale alle varie condizioni soggettive. Se il consumo diventa anche distruttivo, vediamo che nella crisi si determinano strategie di sopravvivenza, incentrate soprattutto sul taglio dei generi alimentari e sulla fuga dalla socialità, tema che verrà approfondito successivamente.

Altro nocciolo della questione è la questione dell’abitare. Esso è in tutti i casi ricondotto al problema dell’affitto che diventa trasversale rispetto a tutte le fasce di età degli intervistati ma, soprattutto, in relazione alla loro forma di vita. La difficoltà nel sostenere le spese di affitto la ritroviamo infatti nella composizione studentesca – della formazione e del lavoro – e in quella del precariato e dei disoccupati. Ciò che si palesa non è solo l’insostenibilità del costo dell’affitto, ma soprattutto l’esodo dal centro cittadino come strategia di sopravvivenza: i processi di gentrification determinano l’aumento dei prezzi dell’affitto in centro e l’espulsione della composizione precaria e impoverita dalla crisi dal centro della città e quindi anche dalla vicinanza all’università, agli spazi di socialità e, spesso, ai luoghi di lavoro; d’altro canto gli spazi urbani diventano vetrine della speculazione e della rendita, vengono ridefiniti in base ad interessi diversi rispetto a quelli di chi gli spazi li vive determinando una frammentazione dei luoghi di aggregazione che, a sua volta, porta ad un impoverimento delle soggettività. Precarietà significa, materialmente, non poter permettersi una “singola”, vivere in case sovraffollate e fatiscenti, rinunciare ai propri spazi e ai propri tempi. Per dirlo con le parole degli intervistati: “fare dei progetti non dico a lungo ma perfino a medio termine è quasi impossibile, si naviga sempre a vista, siamo quasi tutti sulla stessa barca. Se uno ha voglia di progettare qualcosa, sia dal punto di vista professionale sia personale, è costretto a rivedere tutto con gli strumenti che ha in mano. Poi si cerca di fare il possibile, di fare il massimo sulla giornata, sulla settimana e sul mese, però non è facile”.

Connesso alla questione dell’esodo dal centro è il problema dei trasporti che si aggiungono alle spese da sostenere e a cui spesso non si può rinunciare. Last but not least, la sanità sembra essere un’altra questione importante in quanto nella maggior parte dei casi rappresenta il primo terreno su cui si taglia la spesa in particolare per quanto riguarda visite generali o controlli periodici. Ciò si inserisce in un quadro generale di tagli della spesa pubblica, di esclusione dai servizi sanitari gratuiti e dall’aumento dei costi dei ticket.

Forme di vita: anti-politica e rinuncia alla socialità, tempo di vita e tempo di lavoro

“Il mio tempo libero è molto molto ridotto, lavorando diventa difficile dire stasera esco. Ogni tanto esco ma si tratta di un aperitivo e poi torno a casa. In realtà poi quando ho un giorno libero per me è giornata di studio. Il mio tempo libero ormai diventa studio e ne sto soffrendo molto. Sono costretta in un certo senso a rinunciare alla mia socialità. Tante volte vorrei assistere ad incontri, conferenze, iniziative dei centri sociali, cene sociali ecc, tante volte mi dico che vorrei andarci ma come faccio? Un aperitivo, una birra in giro ogni tanto me li concedo però so benissimo che non posso permettermi di andare a cena fuori e non ci vado. Bologna da questo punto di vista offre molto e lascia spazi per diversi tipi di persone. Le realtà dei centri sociali sono molto diffuse e anche il discorso della piazza è molto attivo. Io purtroppo non posso vivere al meglio questa città, se posso rimproverarmi qualcosa è di non averla vissuta come studentessa libera e spensierata. Alcune volte però cerco di divertirmi quando vado a lavorare sennò diventa insostenibile. Proprio per questo ho deciso di fare la cameriera che, per quanto impegnativo possa essere fisicamente, non comporta delle responsabilità forti. Io vado, faccio il mio servizio e non mi porto nulla a casa di quello che faccio. Il mio tempo di lavoro è quello e basta, certo torno a casa stravolta e penso che il giorno dopo dovrò essere di nuovo lì però. Io avrei potuto scegliere, per mantenermi, di fare l’educatrice, non l’ho mai fatto perché è difficile mantenere separati il tempo di vita da quello del lavoro.”

“Perché in trent’anni non ho mai visto niente di buono, sono pessimista su come sta andando e secondo me il futuro qui è veramente pessimo. Io non leggo i giornali e non guardo la tv da dieci anni, non me ne frega che parlino o non parlino di crisi.”

Quali forme di vita nella crisi? Abbiamo visto che l’isolamento, l’atomizzazione, l’inclusione differenziale negli spazi urbani, la precarietà, sono tratti distintivi delle soggettività che oggi il capitalismo plasma. A partire da queste condizioni si palesa l’insoddisfazione rispetto alle promesse tradite; ma che direzione prende questo sentimento? Nella maggior parte dei casi segue la via dell’antipolitica e quella della rinuncia agli spazi collettivi e di socialità. Anti-politica significa innanzitutto sfiducia nei confronti degli organi istituzionali e dei partiti ma dall’altra parte, nella crisi, indica anche la difficoltà di individuare linee intensive di nemicità verso l’alto e la cristallizzazione di aspettative decrescenti.

La rinuncia agli spazi di socialità e aggregazione si innesta su basi fortemente materiali inerenti sia al taglio sulle spese sia alla mancanza di tempo da dedicare alla socialità. Vivere nella crisi significa dunque, per molti, rinunciare alla dimensione collettiva.

Se la soggettività capitalistica appare frammentata, dai discorsi degli intervistati emergono invece dei punti interessanti da cui partire: il “must have” principale è quello di ritornare a vivere la città, gli spazi, le relazioni ma, soprattutto, potersi confrontare e condividere le proprie esperienze. In altre parole, voglia di trasformazione della propria condizione e dell’esistente.

Come si ridefinisce inoltre il rapporto tra il tempo di vita e il tempo di lavoro? Da una parte assistiamo alla valorizzazione permanente e capillare delle forme di riproduzione sociale a retribuzione zero, dall’altra vediamo una sovrapposizione dei tempi di vita e di lavoro nella misura in cui viene meno l’orizzonte di possibilità della auto-valorizzazione del proprio tempo. Il tempo libero diventa studio e lavoro, “cercare un lavoro sta diventando un lavoro. Bisogna districarsi in una situazione in cui nessuno ti ascolta, ti ritrovi abbandonato dal sistema, a volte anche dal mondo del lavoro che in teoria dovrebbe essere quello che ti cerca”.

Prospettive future e intreccio con inchiesta verso il No al referendum

Provando a tirare le fila del discorso e a rilanciare delle prospettive di inchiesta e lotta, partiamo dall’individuare quei pezzi di composizione che secondo noi oggi possono essere centrali in termini di potenzialità di contro-soggettivazione. È necessario premettere che questa individuazione non si basa su una mera fotografia della contingenza della composizione tecnica, ma si tratta di una scommessa che segue delle linee di progettualità strategica, a partire da alcuni ambiti tematici che ad oggi sembrano essere posizionati nei punti in cui si può far più male al nemico e nello stesso tempo in cui può darsi una contro-soggettività conflittuale.

Dalla prima fase di inchiesta emergono – come abbiamo tentato di mostrare in questo documento – più problemi che soluzioni, più domande che risposte già pronte. Questa è l’inchiesta militante, come metodo oltre che come esperienza specifica. Chi oggi dipinge autocelebrativi fantasiosi quadri di masse orgogliosamente povere e felici nella lotta, non ha certo bisogno dell’inchiesta militante, rinunciando programmaticamente a spiegare le difficoltà della fase in cui viviamo e a proporre ipotesi di avanzamento e trasformazione. Ciò costituisce l’altra faccia delle aspettative decrescenti, che investono molti ambiti politici che continuano a rivendicare un’identità antagonista pur limitandosi alla semplice riproduzione dell’esistente.

Le due soggettività con cui ci siamo interfacciati sono da un lato quella studentesca in via di proletarizzazione che fa parte del precariato perlopiù di seconda generazione, nato e cresciuto nella crisi e fortemente caratterizzato dall’aspetto generazionale, dall’altro quel ceto medio destabilizzato o impoverito, potenzialmente o concretamente in crisi di mediazione. Quale nesso materiale tra queste due soggettività? Quali terreni su cui innescare processi di lotta? Quale metodo di inchiesta, quale forma organizzativa?

Il tema del welfare familiare qui ritorna come collegamento tra le due soggettività: è il suo esaurimento a determinare l’impoverimento del ceto medio e, nello stesso tempo, a influire sulle condizioni di vita dei giovani precari che non hanno, quindi, più nulla da difendere. L’ambivalenza di questi pezzi di composizione è rappresentata dagli stessi sentimenti di anti-politica che indicano per noi una potenzialità in cui agire, degli umori o comportamenti di insoddisfazione da trasformare, ricomporre e direzionare verso l’alto. Come agire allora nell’ambivalenza, individuando e anticipando delle tendenze?

Attraverso questa inchiesta e i progetti all’interno dell’università, abbiamo individuato quest’ultima come uno dei possibili terreni di contro-soggetivazione per almeno due motivi: il primo inerisce al rapporto tra lavoro e formazione e vede l’università come laboratorio di produzione della precarietà e sperimentazione del lavoro gratuito – preso come modello per il mercato del lavoro; il secondo riguarda il ruolo centrale dell’istituzione universitaria nell’ambito del sistema di potere nazionale e di quelli locali. Ciò si riallaccia anche alla questione del sapere come strumento di potere per il capitalismo, ai processi di mercificazione della conoscenza, alla necessità di produrre un sapere non solo critico ma altro e conflittuale. Soprattutto, l’università è spazio di produzione e riproduzione di una dimensione generazionale che può prendere direzioni molteplici.

Un’altra questione che secondo noi va approfondita è quella del sistema bancario, sia perché punto nevralgico dell’accumulazione capitalistica odierna, sia perché tema strettamente connesso a quello del risparmio e del reddito. La centralità di questo argomento per le lotte sta nel fatto di notare come la crisi di questo settore è diventata difficile da regolamentare e da governare per la controparte. Allo stesso modo a pagarne i costi in termini materiali è proprio quel ceto medio in via di declassamento e in crisi di mediazione, che aveva nel risparmio accumulato dopo una vita di lavoro una ricchezza pian piano erosa dai processi incipienti di finanziarizzazione. Se l’anti-politica e la sfiducia per le istituzioni sono le caratteristiche principali di questa soggettività, la capacità di individuazione dei nemici ne costituisce il possibile punto di forza, come abbiamo visto per il movimento contro il salvabanche.

L’elemento di metodo da tenere a mente è dunque quello di cercare di piegare questa ambivalenza verso una direzione conflittuale senza considerarla già in sé antagonista: le lotte dei no salvabanche radicate oggi in molti territori ci hanno detto che il metodo è quello giusto, per quanto la strada da fare sia ancora molta. Soprattutto, è ancora da saldare un processo ricompositivo tra ceto medio in via di declassamento o impoverimento e i soggetti giovanili colpiti dalla crisi, che talora costituiscono i due poli dell’erosione o vera e propria implosione del welfare famliare.

Infine ciò che è emerso dall’inchiesta di Vivere nella crisi ha trovato una parziale verifica e delle linee di continuità e tendenza nel percorso per il No al referendum costituzionale del dicembre del 2016. Nei mesi precedenti, infatti, attraverso dei banchetti di inchiesta situati in vari punti della città, abbiamo provato a capire quali fossero le motivazioni che determinavano la scelta di votare sì o no al quesito referendario. Abbiamo immediatamente constatato come il principale interesse dei soggetti intercettati non fosse tanto la modifica dell’assetto costituzionale ma, piuttosto, si palesava un’intrinseca politicità nell’individuazione del nemico: il governo Pd che fino a quel momento li aveva impoveriti e aveva distrutto le loro vite. Per quanto siano evidenti le ambivalenze e le contraddizioni, la vittoria del No e le successive dimissioni di Renzi hanno quanto meno indicato una linea di tendenza: l’emersione di una rabbia sociale che anziché sfogarsi orizzontalmente ha individuato il nemico verso l’alto, pur in modo ancora generico e in forma perlopiù di opinione o comunque elettorale. Di certo, la rottura della fiducia nelle istituzioni e l’anti-politica di cui il No si è fatto espressione, non devono rimanere in un voto: l’obiettivo strategico è infatti, dopo averli individuati, organizzare in lotta e rottura questi sentimenti di rabbia e a partire dagli ambiti e dai terreni che la stessa composizione ci dice. Ancora una volta dunque sapersi muovere nell’ambivalenza senza averne paura, rifugiandosi nel già noto e nel compatibile con lo status quo.