Stampa

Ritorno a Zimmerwald

on .

Testo di Franco Berardi Bifo per il centenario della rivoluzione sovietica

All’inizio del ventesimo secolo la cultura di avanguardia, particolarmente il Futurismo nella sua versione italiana e in quella russa, espressero un progetto di modernizzazione che si svolgeva attraverso due diversi movimenti nel campo estetico e immaginario: il primo movimento era quello della critica cosmopolita alla tradizione, il secondo era il nazionalismo e l’aggressività politica. Ironia tolleranza erano il segno del primo movimento, mentre l’intensità appassionata dell’intolleranza era il segno del secondo movimento.

Questa duplicità anticipa qualcosa dell’azione politica che i movimenti rivoluzionari dispiegarono nel periodo successivo alla prima guerra mondiale. Universalismo e nazionalismo coesistevano in varia misura nell’esperienza dell’avanguardia che perseguiva contemporaneamente utopia e progetto.

Qui voglio ricostruire il senso di questa duplicità nell’esperienza della Rivoluzione sovietica, e particolarmente nella strategia non così coerente di Vladimir Lenin. Il mio punto di partenza tuttavia è quello della congiuntura attuale cento anni dopo l’inizio dell’esperimento sovietico.

Dato che non sono uno storico preferisco interrogare gli eventi del 1917 dal punto di vista del presente, cioè dal punto di vista delle possibilità che quegli eventi aprirono al futuro del mondo, e anche alle possibilità che essi distrussero e chiusero. La mia analisi retrospettiva non è finalizzata a valutare storicamente i fatti del passato, ma piuttosto a soppesare la distanza dal 1917.

Adesso, cento anni dopo è difficile vedere una via d’uscita dalla notte più nera, per cui è legittimo ripensare il più estremo e più maledetto dei progetti: il comunismo che sfortunatamente è stato identificato con l’esperimento russo, con la conseguenza di essere respinto dalla coscienza intellettuale del nostro tempo.

nella notte più nera

Il comunismo è stato il solo ragionevole tentativo di evitare lo scatenamento della barbarie su scala planetaria, e di avviare un processo di redistribuzione della ricchezza globale che sola poteva evitare la vendetta degli eredi dell’umiliazione coloniale. Sfortunatamente il comunismo è stato anche la continuazione dello stile politico autoritario profondamente iscritto nella cultura russa, e l’imposizione di un modello totalitario di controllo sulla vita sociale.

Dal momento che il movimento comunista nel mondo è stato identificato con l’esperimento russo il fallimento sovietico ha provocato il crollo del comunismo su scala mondiale. La sconfitta del movimento operaio e la cancellazione della prospettiva comunista hanno eliminato il solo possibile terreno comune tra la classe sfruttata dell’occidente e i miliardi di persone oppresse umiliate da cinque secoli di colonizzazione.

La separazione degli operai occidentali dalle popolazioni oppresse dei paesi colonizzati sfocia oggi in una catastrofe politica che minaccia il futuro stesso del genere umano.

Le popolazioni che soffrono le conseguenze dello sfruttamento imperialista si ribellano oggi senza alcuna speranza politica, e ricorrono a qualsiasi tipo di arma, compreso il suicidio religioso pur di vendicarsi dell’umiliazione che i predatori hanno inflitto e che non accenna a terminare.

Al contempo i lavoratori occidentali privati dell’orizzonte strategico dell’internazionalismo, si sottraggono all’egemonia della sinistra che si è fatta strumento del neo-liberismo, e ritrovano la via del nazionalismo e del razzismo. La sinistra neoliberale ha privato le forze produttive della possibilità di un’identificazione autonoma, e le ha ridotte allo stereotipo della classe media. Il trumpismo globale offre un nuovo orgoglio fondato su forme nazionaliste e razziste di identità.

L’uscita dal capitalismo moderno non può essere che una tragedia, poiché i nodi stretti dal colonialismo e dai conflitti imperialisti dell’ultimo secolo non possono sciogliersi senza traumi. Questo è risaputo almeno dal 1914 quando il conflitto imperialista scatenò una lotta geopolitica tra i diversi nazionalismi e preparò il terreno a violente rivoluzioni sociali.

Ma le dimensioni della tragedia non erano prevedibili cento anni fa, e non lo sono neppure oggi. Ma se cento anni fa si poteva immaginare una via d’uscita dal capitalismo che rimodellasse le forme della modernità (distinguendo la modernità dal capitalismo), oggi quell’immaginazione è inerte, impotente perché la modernità si è esaurita, e la decisione politica è sostituita dalla governance automatica.

Lo sgretolamento delle forme antropologiche che riconosciamo come moderne ha reso impensabile la transizione oltre il capitalismo, così che la fuoriuscita dal moderno funziona in effetti come annodamento sempre più stretto delle strettoie sociali prodotte dallo sfruttamento capitalistico, e la liberazione dal vincolo economico appare sempre più inconcepibile, invisibile inconcepibile. Perciò una via di uscita consapevole appare fuori dall’ordine del possibile e la fine del capitalismo si presenta come fine della civiltà umana.

Negli anni ’80 del secolo ventesimo la parola post-modern entrò trionfalmente nel lessico culturale insinuando l’idea che fosse a portata di mano una via di uscita pacifica dalla forma generale della modernità: ma l’eredità dei cinque secoli di sfruttamento e di concentrazione della ricchezza ha prodotto incontenibile devastazione ambientale sociale e psichica.

Il largo uso del prefisso “post” fu un tentativo di evadere la realtà tragica della mutazione che era in corso. Ora, nel centesimo anniversario della rivoluzione sovietica che fu concepita come uscita dal capitalismo (ma non dal modello antropologico della modernità) possiamo riconsiderare la profondità della sconfitta del comunismo e le conseguenze di quella disfatta.

Interrogare la rivoluzione sovietica e il suo fallimento è condizione per immaginare l’uscita dal capitalismo nel doppio senso politico e antropologico.

Se guardiamo alla situazione geopolitica presente e al panorama sociale cento anni dopo il ’17 non possiamo sfuggire alla percezione di un caos ingovernabile e crescente.

La notte più oscura scende sul pianeta, perché dovunque siamo di fronte ad autoritarismo e violenza e razzismo con gradazioni diverse. C’è una via di uscita? C’è la possibilità di un ritorno alla democrazia? Io non lo credo, mi dispiace doverlo dire, ma non lo credo: l’orrore si diffonde dovunque con una tale estensione geografica e con radici culturali così profonde che un arretramento della barbarie è per ora inimmaginabile e uno sradicamento delle sue cause appare impossibile. Evitiamo di rimuovere questa realtà, perché è con questa che dobbiamo fare i conti.

Qualcuno disse nel 1968: Socialisme ou barbarie. Non era un gioco di parole, ma una lucida predizione.

Socialisme ou barbarie

Il ’68 è stato il picco della storia del progresso umano, il picco della democrazia come partecipazione critica: da quel momento abbiamo vissuto un processo di continua de-evoluzione, di regressione politica e di impoverimento della vita quotidiana. Perché?

Nel ’68 raggiunse il punto di massima convergenza della conoscenza tecnologica e della coscienza sociale. Da quel momento la potenza tecnica si è costantemente espansa mentre la coscienza sociale è relativamente rinsecchita. Come risultato la tecnica ha un potere crescente sulla vita sociale, mentre la società non ha più la capacità di governare se stessa.

Nella congiuntura che chiamiamo ’68 la coscienza sociale avrebbe potuto e dovuto prendere il controllo sul mutamento tecnico e dirigerlo verso il bene comune. Ma invece è accaduto il contrario: i partiti della sinistra e i sindacati hanno considerato la tecnologia come un pericolo piuttosto che come un’opportunità da governare e da sottomettere all’interesse sociale. La liberazione dal lavoro fu vista come disoccupazione e la sinistra si impegnò a contrastare l’inarrestabile trasformazione tecnica.

La democrazia si è rivelata incapace di governare la mutazione tecno-antropologica e la deregulation della finanza e della tecnologia ha proceduto a smantellare le forme esistenti della coscienza sociale. Per effetto della privatizzazione il sistema educativo è stato sottomesso alle esigenze del profitto e il pensiero critico è stato separato dalla ricerca e dallo sviluppo. A questo punto la divaricazione tra coscienza sociale e innovazione tecnologica ha iniziato ad ampliarsi continuamente. Per rintracciare le origini di questa divaricazione dobbiamo ritornare alla rivoluzione russa e alla sconfitta della prospettiva comunista, sconfitta che era iscritta nella decisione del 17 come il tramonto è iscritto nell’alba.

La questione è: perché il movimento del ’68 perse l’occasione di legare insieme solidarietà sociale e mutamento tecnico? La risposta sta a mio parere nell’incapacità del ’68 di liberarsi dalla tradizione iniziata col 17.

Dagli anni ’60 è emersa una nuova composizione del lavoro, fondata sulla scolarizzazione di massa e sull’intellettualizzazione della produzione, ma il contesto culturale ereditato dalla rivoluzione russa persisteva come modello mentale dominante degli intellettuali e degli attivisti del ’68.

1914 e 1917

Negli anni della prima guerra mondiale Lenin osò due mosse decisive: la prima a Zimmerwald nel 1914. La guerra stava cominciando e i socialisti tedeschi e francesi votarono a favore dei crediti di guerra nel parlamento dei loro paesi in conflitto. Tradirono cioè l’internazionalismo nel nome dell’interesse nazionale. Lenin disse no a questo tradimento e ruppe con la seconda internazionale. Questa mossa segna l’inizio della storia del comunismo nel Ventesimo secolo.

La seconda mossa venne nell’aprile del 1917 quando, tornando in Russia, Lenin lanciò la rivoluzione bolscevica.

Questa seconda mossa segnò l’inizio della catastrofe del comunismo nel secolo, perché identificò il socialismo con uno stato nazionale e obbligò i proletari del mondo a immaginare la rivoluzione, e a concepire la loro autonomia in termini nazionali.

Nella prospettiva dell’evoluzione di lungo termine la rivoluzione sovietica ha bloccato il processo di organizzazione sociale delle forze internazionaliste che stavano crescendo enormemente sotto il fuoco della guerra imperialista, e lo spirito della guerra nazionale caratterizzò gli anni di Stalin mentre il Fascismo emergeva e guadagnava terreno grazie alla sconfitta dell’autonomia operaia e grazie alla paura borghese del pericolo bolscevico.

Nel 1914 Lenin era andato oltre la razionalità politica dello stato nazionale moderno, oltre Machiavelli e Hobbes. Rompendo con il compromesso nazionale dei partiti socialisti di Germania e Francia, l’autore di Imperialismo fase suprema del capitalismo apriva la via verso la solidarietà degli operai industriali con i popoli oppressi dei paesi colonizzati, un processo di lunga dissoluzione delle nazioni e di lenta formazione dell’auto-governo post-nazionale dei lavoratori del mondo.

Nel 1917 invece Lenin tornò alle regole esistenti del gioco politico e dello stato nazionale, e sottomise così gli interessi autonomi di classe alle regole della guerra nazionale.

Quando negli anni ’60 e ’70 emerse una nuova possibilità di sollevazione comune degli oppressi e degli sfruttati del mondo, l’eredità della rivoluzione sovietica giocò un ruolo ambiguo, obbligando il movimento a ripetere il tentativo leninista e il fallimento leninista. L’eredità e la memoria del bolscevismo condussero gli studenti e gli operai dell’insurrezione globale del ’68 a concentrarsi soprattutto sull’attacco politico allo stato, e persero l’occasione di un’azione post-politica di appropriazione della conoscenza e della tecnologia. Ora, nel nuovo secolo, l’eredità di Lenin si è completamente dissolta: quando è crollata l’eredità del 1917 si è perduta anche la memoria del 1914, di Zimmerwald. Al contrario avremmo dovuto distinguere i due momenti, e riattualizzare il senso dell’internazionalismo abbandonando l’illusione statalista della dittatura come condizione del potere operaio.

L’esperienza italiana degli anni ’70 è stato il migliore esempio di questo errore: il movimento autonomo era culturalmente al di là dei limiti del leninismo, ma il leninismo si impose come unica metodologia politica: il partito che si impadronisce dello stato nel nome degli operai e identifica il socialismo con lo stato fino a costringere la lotta di classe mondiale entro una prospettiva di conflitto tra stati nazionali.

guerra civile globale

Nel 2016, nel pieno della crisi della globalizzazione, mentre i britannici votavano per la Brexit e gli americani ascoltavano Trump, Zbignew Brzesinski pubblicava un articolo intitolato Toward a global realignment.

“Massacri periodici compiuti dai colonialisti europei provocarono nei due secoli passati una violenza sui popoli colonizzati su scala paragonabile a quella dei crimini nazisti della seconda guerra mondiale, coinvolgendo centinaia di migliaia o anche milioni di vite. La volontà di auto-affermazione politica, unita all’umiliazione e al dolore è una forza potente che sembra ora riemergere, assetata di vendetta, non solo nel medio oriente musulmano ma forse anche in molti altri posti.

I dati della violenza occidentale non sono facilmente definibili ma presi in modo complessivo sono impressionanti. Pochi esempi bastano. Nel sedicesimo secolo la popolazione dell’attuale Messico declinò dai 25 milioni a circa un milione di individui per effetto delle malattie provocate dagli esploratori spagnoli. In Nord America si calcola che il novanta per cento della popolazione indigena morì nei primi anni di contatto con i colonizzatori europei. Nel diciannovesimo secolo diverse guerre e re-insediamenti forzati uccisero altri centomila indigeni. La compagnia delle Indie Orientali costrinse la Cina a subire l’importazione dell’oppio con la conseguenza di milioni di morti premature, comprese le morti inflitte ai cinesi durante la prima e la seconda guerra dell’oppio. In Congo, che era proprietà personale del re belga Leopoldo II, si calcola che tra il 1890 e il 1910 siano stati uccise circa 10-15 milioni persone. In Vietnam si calcola che siano stati uccisi tra un milione e tre milione di civili tra il 1955 e il 1975.

Per quanto poi riguarda il Caucaso russo, dal 1864 al 1867, il 90 per cento della popolazione circassa fu forzatamente spostata e tra trecentomila e un milione e mezzo di persone furono costrette a morire di fame. Tra l 1916 e il 1918 decine di migliaia di musulmani furono uccisi quando 300.000 musulmani turchi furono costretti dalle autorità russe a rifugiarsi nelle montagne dell’Asia Centrale In Indonesia tra il 1835 e il 1840, gli occupanti olandesi uccisero qualcosa come 300.000 civili. In Algeria, dopo quindici anni di guerra civile, tra il 1830 e il 1845 la brutalità francese, la fame e la malattia uccisero un milione e mezzo di individui, circa la metà della popolazione. Nella vicina Libia gli Italiani chiusero gli abitanti della Cirenaica in campi di concentramento dove morirono tra 80.000 e mezzo milione di persone tra il 1927 e il 1934. Quanto spaventosa è la dimensione di queste atrocità altrettanto impressionante è la velocità con cui gli occidentali se ne dimenticano.” (The American Interest, June, 2016).

Lo so è una citazione piuttosto lunga ma merita di essere letta, se non altro perché l’autore è un uomo dell’establishment americano, e sembra dirci che il debito si paga, non solo il debito bancario, ma anche quello storico che è più salato.

Quel che Brzesinski racconta qui con parole inquietanti è la premessa dell’esplosione che oggi sta emergendo come una specie di apocalittico finale di partita: gli umiliati del passato sono oggi in condizione di vendicarsi dell’umiliazione. L’armata dei vendicatori è forte di milioni di giovani disoccupati senza speranza di un futuro cui è stata promessa democrazia e benessere mentre hanno ricevuto in cambio miseria e guerra. Costoro non hanno nulla da perdere se non la loro vita, e sono disposti a dare la loro vita in cambio di una vendetta, ora che per la prima volta nella storia hanno accesso ad armi di distruzione di massa.

È del tutto inutile invitare questi milioni di giovani che preparano il loro gesto finale a ragionare in termini politici. Non vogliono né ragionare né fare politica, vogliono solo vendetta. E la loro vendetta è la distruzione della vita normale delle città dell’occidente, la dissoluzione di ogni fiducia tra esseri umani, diffusione di paura. Stanno vincendo questa guerra e questa non è soltanto una tragedia.

La vittoria di Trump può essere vista nel contesto di una sorta di reazione del suprematismo bianco scatenata dalla paura del declino e dalla percezione di una guerra civile in espansione.

I lavoratori bianchi, impoveriti nei decenni dell’egemonia neoliberale si stanno rivoltando contro la democrazia e contro il globalismo. Fin quando il gioco opporrà globalisti neoliberali e nazionalisti anti-globali il conflitto si avviterà in una spirale devastante per la vita sociale e per la pace. Solo l’emergenza di un terzo attore, la solidarietà consapevole tra lavoratori al di là dei limiti nazionali potrà evitare una catastrofe finale.

Per quanto possiamo prevedere questa emergenza appare impossibile.

Secondo John Maynard Keynes l’inevitabile non si verifica in generale perché l’imprevedibile prevale.

È facile oggi vedere l’inevitabile: la terza guerra che si dispiega in maniera differente dalle due precedenti: non uno scontro tra potenze imperialiste ma una guerra civile diffusa in cui si oppongono clan tribù popolazioni fedi religiose in una insaziabile sete di vendetta.

Poiché questo stillicidio è conseguenza della dissoluzione dell’internazionalismo, solo un ritorno della coscienza internazionalista (assai improbabile al momento) potrebbe evitare una prospettiva apocalittica.

La cancellazione dell’orizzonte comunista dalla scena geopolitica ha eliminato quella coscienza, e la precarizzazione neoliberale del lavoro ha distrutto la solidarietà sociale. In queste condizioni la vendetta degli oppressi coloniali diverge drammaticamente dalla ribellione dei lavoratori occidentali. Nessuna decisione politica può rimuovere questa pesante eredità, e gli effetti del trauma che incombe sul ventunesimo secolo. Quel che possiamo fare è creare le condizioni per tempi post-apocalittici. Il primo compito in questa prospettiva è liberarci della mitologia del 17, distinguendo però tra il Lenin di Zimmerwald e il Lenin di Pietrogrado.

 

* A partire da questo testo Bifo interverrà nella giornata di inaugurazione di Se7en - osare fare la rivoluzione a Bologna, 7 novembre 2017. La versione inglese uscirà su Crisis and Critique.