Stampa

La differenza brasiliana

on .

Articolo di Giuseppe Cocco e Bruno Cava (UniNômade Brasil) sulla parabola del governismo di sinistra

Abbiamo e manteniamo un’inestimabile stima per la persona, il militante ed il filosofo Antonio Negri. Ma la nostra stima non significa – e non ha mai significato – alcuna fedeltà e tantomeno un qualche tipo di fede. Al contrario: essa permane viva nella diversità delle valutazioni e nel dissenso che sono apparsi lungo il tempo e soprattutto rispetto a ciò che è accaduto in seguito alla restaurazione – in parte opera del PT e del “voto critico” – successiva alla sollevazione del giugno del 2013.

Da parte nostra, non v’è alcun dubbio sulla profonda e duratura eredità che i concetti inventati da Negri imprimono sulle nostre pratiche di lotta, esodo e resistenza. Nel militante riconosciamo la figura di colui che ha attraversato la sconfitta del movimento autonomo della fine degli anni Settanta con la dignità di chi ha sempre cercato, usando le sue stesse parole, di “riconoscere la sconfitta” senza con ciò accettare che questa diventi un orizzonte invalicabile. Il filosofo è stato (ed in parte continua ad essere) la nostra fonte d’ispirazione nella sua instancabile volontà di invenzione di concetti attraversati dalle sfide delle lotte e della democrazia nel capitalismo contemporaneo, sempre con allegria, passione e amore genuino per la marcia della libertà. Negli anni Ottanta e Novanta la sua riflessione si è concentrata ad un tempo 1) sul rinnovamento dell’analisi della composizione di classe, proponendo una nuova Einleitung alla ricerca militante, con il rinnovamento dei concetti marxiani del General Intellect e del lavoro vivo ed immateriale, travi maestre per la costruzione di un nuovo prospettivismo all’interno dell’inflessione postfordista del regime di accumulazione; e 2) sulla ricomposizione attraverso la via filosofica delle potenze sotterranee dell’altermodernità, quella disegnata dal filo della metafisica maledetta che lega insieme Machiavelli e Spinoza e questi a Marx e Tronti. Nel volgere del secolo, la trilogia su Impero, Moltitudine e Comune è riuscita a stabilire un dialogo fecondo con due grandi cicli di lotte globali: quello neozapatista di Seattle, Buenos Aires e Genova e, più di dieci anni dopo, quello delle primavere arabe, il quale si è aperto in una piccola città della Tunisia, è passato per la Spagna del 15M e si è chiuso quando la terra ha tremato in Brasile, Turchia ed Ucraina. La globalizzazione imperiale si è disvelata realmente come il terreno di lotta delle moltitudini fatte di singolarità capaci di cooperare tra loro e mantenersi come tali, nella maglia eterogenea delle differenze, nella fusione delle prospettive ontologiche. Così, noi riconosciamo in Negri questa figura eccezionale di coinvolgimento ad un tempo affettivo, politico e teorico, in tutta l’irriducibilità delle sue peripezie, delle sue scelte e dei suoi paradossi.

Ma Negri ci ha insegnato a leggere Spinoza. E noi l’abbiamo letto e studiato. Da Spinoza abbiamo tratto perlomeno tre lezioni che ci interessano qui direttamente. La prima ha a che fare con la preoccupazione spinoziana per eccellenza: “perché gli uomini desiderano la loro stessa servitù?”. La seconda è la distinzione, che Spinoza introduce nella sua discussione sul funzionamento del potere, tra potentia e potestas. La terza riguarda la scomunica che ha subito il filosofo del secolo XVII venendo espulso dalla Sinagoga dai baroni del Rabbinato – e nei più vessatori dei termini. In ciò noi stiamo col cattivo maestro e non con quella frazione della sinistra che, a fronte della sollevazione del giugno del 2013, si è scandalizzata al punto da formulare una domanda che ha senso unicamente dal punto di vista della potestas: “perché costoro si rivoltano?”. Quando in verità, a partire dalla prospettiva costituente, la domanda era e continua ad essere: “perché non si rivoltano continuamente, perché non rifiutano la servitù?”. Sono quegli intellettuali che nello stesso tempo in cui concedevano interviste e proferivano conferenze bollando le “moltitudini” come fasciste – arrivando ad elencare nel ruolo degli accusati gli intellettuali legati allo stesso Negri e (sic!) a Michel Foucault e Giorgio Agamben –, corroboravano il consenso repressivo che alimenta la polizia più assassina al mondo. Infine, non ci interessano i baroni del rabbinato di sinistra, le loro analisi su commissione ed il loro leader consacrato. Noi stiamo dalla parte dei maledetti.

La crisi della rappresentanza non è qualcosa che si limiti alla forma-partito

Non si tratta semplicemente di una crisi della Politica, a fronte della quale sarebbe eventualmente necessario l’avvento di una Riforma (o di una Contro-Riforma) capace di restituirne il senso originario che i mutamenti di soggettività degli ultimi trenta o quarant’anni avrebbero fatto scomparire. Tale crisi è ben più estesa e riguarda pure le reti di conricerca e di pensiero debitrici della filosofia dell’autonomia degli anni Settanta, ivi compresa la rete di università nomadi che Negri ha aiutato a costruire in Europa dopo averne conosciuto la precorritrice brasiliana – ciò durante la sua prima visita nel 2003. Ma a questo punto non v’è nulla di cui rammaricarsi. Sicuramente non pensiamo a noi stessi come se ci trovassimo in un malinconico fin de siècle, come se avessimo perso qualcosa di prezioso lungo le giornate di affermazione e lotta alle quali abbiamo partecipato e alle quali continueremo a partecipare. Al contrario riteniamo che questa crisi ampia, che è anche crisi di quelle teorie che fino a poco tempo fa si ritrovavano incarnate in singolarità vibranti, abbia un lato positivo e perfino salutare. Che i morti seppelliscano i propri morti. Dopo innumerevoli visite organizzate da UniNômade Brasil tra il 2003 e il 2014, Negri è stato ancora due volte in Brasile: nel 2016, quando ha visitato la USP e alcune altre istituzioni a São Paulo e, in questa primavera del 2017, a Rio de Janeiro e poi di nuovo a São Paulo, per comparire ad una messa per i cento anni della Rivoluzione Russa. In entrambi i casi il PT e lo stesso Lula hanno dato risalto alla visita del filosofo come pure alle sue dichiarazioni ed interviste (favorevoli al PT e allo stesso Lula). Certamente l’importanza data alle due ultime venute di Negri da parte del PT realmente esistente è più un segno della disperazione recente di quest’ultimo che non l’attestato di una sua lucidità tardiva. In mancanza di meglio, perfino il vecchio autonomo italiano che è sempre stato considerato agli antipodi del pensiero stato-centrico e sviluppista può servire al proposito di ingrossare il piagnisteo di orfani del governismo di sinistra.

Che Negri ritenga che il cadavere del PT costituisca un bottino politico da contendersi è, ovviamente, un suo diritto che noi rispettiamo. Ma se lui si dissocia (e ne spiegheremo più avanti il perché) da UniNômade Brasil, noi ci dissociamo da lui. Riteniamo infatti positivo e produttivo che questa differenziazione tra la UniNômade Brasil e Negri appaia chiaramente e con ciò non stiamo denunciando proprio nulla, bensì cogliendo soltanto l’occasione per chiarire la nostra posizione in modo tale che non vi sia nessun fraintendimento. Durante queste due visite, Negri ha moltiplicato gli sforzi per presentarsi come moderato e responsabile di fronte al “dramma brasiliano” e ci ha tenuto a difendere la “sinistra” e ciò che sarebbe il suo male necessario: Lula. Al contrario, noi riteniamo che questa attitudine formalmente “responsabile” di fronte alla gravissima crisi brasiliana è, se dovessimo ammettere questi stessi termini per fare delle scelte, realmente irresponsabile – e che pertanto, il suo riavvicinamento alla sinistra identificata con colui che ne sarebbe il leader incontestato, contribuisce ad aggravare ancor di più la paralisi delle lotte e ad intralciare l’impeto della reinvenzione delle singolarità che hanno abbracciato l’esodo. Non c’è un significante vuoto da disputare, sia esso il petismo moribondo, un surrogato di lulismo o la sinistra orfana delle grandi narrazioni dopo la fine del blocco storico del socialismo reale in Europa o di quello “del ventunesimo secolo” in America Latina. Non v’è un vuoto da riempirsi con un nuovo discorso – una Nuova Sinistra, il Comune come catena di equivalenze, un’assembly di gruppuscoli residuali – semplicemente perché l’esodo che si è espresso nel giugno del 2013 (e in tutto il ciclo delle primavere arabe) è una pienezza, cosicché le percezioni di un sentimento antipolitico o anti-corruzione sono semplicemente i lati negativi di un continuum di rifiuto attivo. Sembra che Negri sia impegnato nel costruire (to assemble) non più per mezzo dell’invenzione di concetti affinati alla composizione sociale del lavoro vivo, ma attraverso mondi immaginari che permettano ai concetti di riprodurre un determinato pubblico – un pubblico peraltro abbastanza circoscritto a determinati simboli, bandiere e a un determinato leader. Il che ci porta a chiedere, a partire dal titolo di un libro negriano del 2006: sarà che il suo Bye Bye Mr.Socialism era soltanto un irrisolto arrivederci?

Narrative fantasiose

Quando nel novembre del 2014, uno degli almeno quattro siti della galassia post-autonoma in Italia pubblicò un’analisi politica sulla rielezione di Dilma Rousseff, manifestando la convinzione nella persistenza di uno stato di salute del ciclo progressista in America del Sud e menzionando appena alcuni suoi peccati veniali, noi due, membri di UniNômade Brasil, proponemmo una lettura differente. Dicevamo che la vittoria di Dilma era, in primo luogo, una sconfitta del movimento radicalmente democratico di giugno e, in secondo luogo, una vittoria di Pirro che poteva risolversi in una crisi destituente ben più dannosa – dal punto di vista delle lotte – che non un’eventuale vittoria di un avversario di partito del PT. In quest’articolo dicevamo pure che Dilma avrebbe fatto esattamente il contrario di quanto promesso in campagna elettorale. Il giudizio di Negri fu lapidario: quest’analisi venuta dal Brasile poteva solo essere il frutto di “narrative fantasiose” e – molto democraticamente – l’articolo non venne neppure pubblicato (naturalmente senza nessuna discussione). Si dà però il caso che, indipendentemente dai giudizi di valore (se il profilo tenuto fosse politicamente positivo o negativo, di sinistra o di destra, ecc.) ciò che stava scritto nell’articolo brasiliano era ciò che poi di fatto avvenne, solo che in una versione ancora peggiore. L’aver ragione, d’altra parte, valse soltanto a gonfiare ancor più l’accusa – nella quale si potevano avvertire echi stalinisti – secondo cui i d’ora in poi dissidenti erano risentiti, rabbiosi, psicologicamente scossi o – molto più semplicemente – impazziti. Quel che sembra è che qualora dinnanzi ai fatti non si possa semplicemente gettare la traiettoria militante e intellettuale dei dissidenti fuori dalla sinagoga, nella fossa comune degli interessi privati, si debba chiamare in causa una qualche irrazionalità occulta, un qualche vizio caratteriale o desiderio di vendetta. In questo episodio Negri ha ratificato l’applicazione ad altri di ciò che un tempo era stato applicato a lui, in particolare ad opera della sinistra italiana, durante la crisi destituente che ha fatto seguito al collasso del Compromesso Storico. Troviamo qui uno spunto di riflessione sul funzionamento della sinistra quando diviene fede in una Idea, carattere normativo, valore in sé, e ciò non riguarda il solo Negri, ma l’intero campo militante ed intellettuale della sinistra, noi stessi compresi.

Torneremo su questo punto, l’importante per ora consiste nel sottolineare che quando parla di Brasile e di America del Sud, Negri sembra parlare di qualcosa che non esiste nel mondo dei fatti, se non all’interno delle narrative del PT e, più in generale, dell’ex governismo – o chissà nelle sperimentazioni concettuali del “Laboratorio”, con sede a Buenos Aires, da lui inventato per aiutare a modellare il sistema-mondo negriano. Non vi è infatti nessuna analisi materiale della dinamica della crisi nella quale ci ha fatti annegare il governo Dilma-Temer, limitando così la diagnosi della connessione con le trasformazioni reali che determinano gli avvenimenti politici ed economici al punto da ridurre l’analisi ad affermazioni ideologiche su complotti delle destre e a generici appelli a movimenti che sembrano più sigle elencate in manifesti da movimento studentesco. Come se fossimo vittime di un’ondata fascista ex machina e dovessimo pertanto serrare le fila assieme agli ultimi rappresentanti della civiltà di sinistra, anche quando quest’ultima risulti chiaramente in errore tanto nella pratica quanto nella teoria. La valutazione degli effetti delle politiche sociali di Lula si uniforma a studi statistici e a riassunti sociologici, derivati dal marketing lulista sull’emergere di una nuova classe media e sul presunto sradicamento della miseria – un passe partout ripetuto a mo’ di giustificazione universale. Ma questa giustificazione – alla quale anche Negri si unisce – della corruzione del governo Lula e del PT – fatti, questi, che non necessitano dei grandi media conservatori per essere tali – si ferma qui.

La congiuntura brasiliana ed i suoi elementi non congiunturali

In Brasile stiamo vivendo un duplice disastro: 1) l’esperimento neosviluppista naufragato nei suoi stessi termini e 2) il ritorno di un neoliberismo che non è mai stato in alcun modo superato e che adesso digrigna i denti nel mezzo del fallimento del progetto di potere del PT. Ora le riforme rimbalzano sulla popolazione come “unica soluzione” e la sinistra non ha più alcuna proposta di riforma, alcuna immaginazione, poiché quest’ultima dipende, come già affermava Tronti in Operai e capitale, dalla classe che la nutre della vitalità e della conoscenza delle lotte. Lula-Dilma e Temer non hanno mai toccato gli interessi globali, come potrebbe far credere la narrativa dal sapore anni ’90 di una dicotomia tra neoliberismo e progressismo, al contrario, hanno riempito le tasche di vecchi e nuovi imprenditori multinazionali dell’aristocrazia dell’Impero: dall’acquisto sovrafatturato della raffineria di Pasadena (in Texas) fino all’inserimento miliardario della Friboi dei fratelli Batista nel mercato statunitense, per citare soltanto due esempi, dove i milionari diventano ancora più milionari con soldi pubblici. La caduta del prezzo delle commodities è posteriore all’inizio della recessione brasiliana. Denunciare il neoliberismo all’università statale di Rio de Janeiro (UERJ) implica nella sua stessa essenza una spaventosa mistificazione: chi ha mandato Rio in bancarotta è stato il governo progressista e neosviluppista. Il quale ha perfino già riconosciuto la responsabilità della crisi. La prima delazione infatti non è stata quella del doleiro (figura di banchiere informale specializzato nell’evasione di divise) che lavava il denaro derivante dal saccheggio della maggiore impresa statale brasiliana (la Petrobras), bensì l’imposizione, subito dopo la rielezione di Dilma, della peggiore delle regolazioni fiscali: una regolazione sregolata che ha fatto precipitare il Brasile in una recessione le cui principali vittime sono stati quegli stessi poveri che quel governo diceva ad ogni momento di proteggere e rappresentare.

L’indignazione dei panelaços[1]e le manifestazioni per l’impeachment nel 2015 e nel 2016 sono state giuste – ancora una volta: un altro fatto che prescinde dalla rincorsa opportunista dei grandi mezzi di comunicazione – e la nuova destra le ha egemonizzate perché l’intera sinistra è caduta nella trappola della difesa del PT e di Lula. Negri non sta parlando del Brasile reale nel quale viviamo, ma di un luogo immaginario, in risposta più alla necessità di continuare a sostenere le sue analisi sbagliate sul lulismo che non a quella di cogliere ciò che sta succedendo. Egli infine definisce i mutamenti avvenuti negli ultimi 13 anni alla stregua di una “rivoluzione sociale”. È sufficiente constatare la situazione di guerra biopolitica nella quale ci troviamo immersi – e da ben prima di questa crisi – per avere un’idea di ciò che sta succedendo nelle metropoli e nelle provincie del paese. Ma per Negri si è trattato proprio di una rivoluzione. Ma non insisteremo sulla semantica, cadendo in quel vizio linguistico che pare contaminare i dibattiti (chi è più di sinistra, chi è “di lotta”, ecc.).

Le piccole brecce che sono state aperte durante gli anni 2000 ci hanno interessato per ciò che riguarda i processi di radicalizzazione democratica che rendevano possibili. Vale a dire: per ciò che riguarda la produzione di nuove soggettività quali getti ad alta pressione del lavoro vivo e comune passati attraverso tali brecce nonostante l’orientamento maggioritario del governo, nelle sue alleanze con il blocco razzista di biopotere e le oligarchie urbane e rurali. A sollecitare quegli unici cambiamenti che ci interessino non sono i governi, bensì le lotte, benché queste possano ritrovare nei governi condizioni più o meno favorevoli. Il che significa che i governi non sono tutti uguali – una premessa metodologica che ci ha guidati durante il percorso teorico e pratico di comprensione del lulismo –, ma ciò a sua volta non vuol dire che dobbiamo accantonare l’analisi della composizione delle lotte (di classe). Ora, se proprio vi è stata una rivoluzione, questa è accaduta in giugno, e rispetto a ciò Lula e il PT si sono rivelati dei controrivoluzionari. La Restaurazione che ha fatto seguito al giugno del 2013, i cui apici sono stati la Copa das Copas (il Mondiale dei Mondiali) nel luglio del 2014 e poi la falsa polarizzazione finanziata dai miliardi deviati durante le elezioni di ottobre, non è stata soltanto l’esplicitazione del fatto che il governo Dilma-Lula ed il PT si erano convertiti in pieni ingranaggi del potere costituito – della potestas intesa qui come hard power, quel corpo del re che non muore mai; è stata anche la chiusura definitiva ed irreversibile di qualunque processo che anteriormente avrebbe potuto consentire una qualche valutazione positiva dei governi del PT, in quanto spazi ambivalenti di costruzione e trasformazione.

Il ritratto di questo Brasile immaginario ha rasentato il teatro dell’assurdo quando Negri ha cominciato a ripetere ipsis litteris la stessa analisi che facevamo dodici anni fa, all’epoca in cui esplose lo scandalo del mensalão (nel 2005 vi fu un primo scandalo legato all’acquisto dei voti dei deputati del parlamento per mezzo di una mancia mensile). La nostra linea discorsiva, in quell’occasione, era orientata dal riconoscimento che la logica del potere, per governare con questo Congresso e con questi meccanismi elettorali e partitici, implicasse di stare al gioco al fine di, per così dire, “corrompere la corruzione”. Forse siamo stati ingenui nell’affermare ciò o, chissà, abbiamo creduto molto facilmente a quel privilegio morale che la sinistra concede a se stessa, un tipo di riserva mentale secondo la quale, quando essa aderisce a strategie per nulla lodevoli, o francamente riprovevoli (la più spregevole delle immoralità), lo fa in vista di un bene maggiore.

Tuttavia, ciò che si è rivelato a posteriori non concede alcun margine ad analisi intricate e a volteggi dialettici hegeliani. È accaduto l’opposto di quanto avevamo previsto in quell’occasione, un fatto ben più ordinario e facile a capirsi. Quel che è accaduto è che la corruzione ha corrotto Lula e il PT. Non soltanto Lula e il PT non hanno saputo approfittare del recupero avuto nel 2006 dopo la rielezione, ma lo hanno usato assieme alla notoria popolarità, da un lato, per omologarsi alla modalità patrimonialista di saccheggio del comune per mezzo dello Stato neocoloniale e, dall’altro, per elevare la corruzione al quadrato, istituzionalizzandola nell’ambito di un magniloquente progetto neosviluppista. Non soltanto Lula ha preferito mantenere le sue relazioni filo-padronali con Odebrecht padre (Emilio), ma le ha anche modernizzate elevandole ad un piano politicamente ed economicamente organico, con Odebrecht figlio (Marcelo) a prua del transatlantico, come nel film Titanic subito prima dell’impatto con l’iceberg. Ma che bella rivoluzione!

A cosa serve adesso, quando la nave sta andando a picco, rinchiudersi nel salone nobile dell’imbarcazione per suonare l’Internazionale Socialista? Noi non abbiamo la vocazione dello struzzo. La corruzione non è affatto un problema di diritto costituzionale, qualcosa che potrebbe risolvere il formalismo neokantiano di un Norberto Bobbio. Se Negri volesse davvero valorizzare la nozione di “accumulazione per spossessamento” di David Harvey, eccoci qua: la corruzione di cui parliamo è il rinnovamento permanente e neocoloniale dell’accumulazione originaria. Assumere la corruzione – quella che ha saccheggiato la Petrobrás ed è ingrassata allo stesso ritmo della crescita economica e del boom delle commodities – quale tema centrale non significa cadere in una critica idealista o in una spudorata nostalgia dell’Idea di Sinistra o di Socialismo, bensì analizzare il modo di funzionamento del biopotere in Brasile. Un modo mafioso che si estende capillarmente nei territori, nella forma della guerra di sterminio di poveri, indios e neri. Corruzione e razzismo non sono temi separati né tantomeno opposti, come se si trattasse di problemi situati rispettivamente su lati tra loro contrastanti dello spettro ideologico.

Una posizione responsabilmente irresponsabile

Negri ha rotto le relazioni con UniNômade Brasil in un periodo preciso e quanto a ciò non può esservi alcuna ambiguità. Ciò è accaduto tra il settembre e l’ottobre del 2014, quando ha appreso che una parte dei membri della rete aveva annunciato l’appoggio a Marina Silva al primo turno delle elezioni brasiliane. Votare Lula si può e sempre, votare Marina no. Il militante italiano si concede in Brasile ciò che non ha mai assunto per sé nel suo contesto europeo. Nel 2005, durante la campagna francese per il referendum sulla Costituzione Europea, Negri non aderì al ricatto che pretendeva il voto per il “no” in forza del presunto contenuto neoliberista della definizione giuridica di quella Carta. In quell’occasione Negri chiamò al voto per il “sì”, venendo per questo rimproverato in seguito da tutta la sinistra neo-sovranista del vecchio continente. Ma a suo avviso in Brasile la situazione sarebbe ben diversa, qui dovremmo accettare il ricatto e allo stesso tempo distogliere lo sguardo da qualunque via d’uscita istituzionale moderata. Quest’uscita – per chi non puntasse tutto sulle lotte alla maniera proudhoniana o sull’astensionismo, peraltro legittimo in quella congiuntura – si è presentata, per un breve momento e per effetto della contingenza, come un’alternativa reale nel 2014, e con un nome. Questa si chiamava e continua a chiamarsi Marina Silva. Fu perché alcuni membri di UniNômade Brasil – una frazione che non era neppure maggioritaria – avevano chiamato a votare Marina al primo turno che Negri decise di rompere i contatti.

Il voto per la Costituzione Europea non era per il neoliberismo, ci diceva Negri, ma per l’Europa come campo di lotta. Bene. L’appoggio congiunturale a Marina non era per un “programma definito”, ma per il rinnovamento di un campo istituzionale moderato che evitasse quell’impantanamento che è stata la rielezione di Dilma e Temer. Così, qui in Brasile, Negri ha difeso il peggio, anteponendo dei princìpi astratti alla dinamica materiale. Nello stesso momento in cui discorsivamente afferma la necessità di un’uscita moderata attraverso la “socialdemocrazia” (sic!), si vincola all’operazione di assembly promossa dalla nomenklatura del PT e dalla sua inteligentsia, che consiste nel fare della propria caduta la caduta di ogni e qualsiasi ipotesi alternativa; della morte del suo mondo la fine del mondo. Il golpe-che-non-c’è-stato si è prestato esattamente a ciò. Il cosiddetto golpe non è altro che il nome della matrice irresponsabile di narrative con le quali si rende impossibile ex ante qualunque analisi materiale, diagnosi dotata di consistenza o presa di posizione politico-teorica efficace. Questa falsa uscita riformatrice e “narratocentrica” – nella quale perfino le migliori teste di una generazione sembrano essersi atrofizzate – ha avuto inizio, in Brasile, con la restaurazione seguita al giugno, per poi proseguire con la campagna di “decostruzione” di Marina ed infine con il Fora Temer gestito dal PT (che ogni volta che Temer può realmente cadere, lo difende).

L’immobilismo di sinistra in generale di fronte all’impatto della Lava Jato[2]contro il vertice del PMDB e contro lo stesso Temer, senza dimenticare la solidarietà data dai senatori del PT ad Aécio Neves quando questi veniva destituito dall’STF [Supremo Tribunale Federale], è la dimostrazione di quale sia il contenuto reale della tragedia brasiliana. Negri ha aderito alla campagna che il marketing petista ha condotto contro Marina, l’alternativa praticabile e responsabile in quell’ottobre del 2014 per coloro che non intendessero serrare le fila con il grosso astensionismo diffuso nella popolazione. Noi non abbiamo aderito a quella campagna e non vi aderiremo. Abbiamo anche avuto divergenze con Negri quando, nel mezzo del movimento contro la Coppa, egli concedeva interviste a tutti quei media che ora considera golpisti. Per non parlare del fatto che abbiamo mantenuto una valutazione diametralmente opposta alla sua a proposito di quei media finanziati dagli inciuci petisti, che altro non sono che un insieme di blog produttori di fake news davanti ai quali anche Trump arrossirebbe.

Dissociazioni e riunioni

Consideriamo positiva l’opportunità che Negri ha di esplicitare le sue posizioni politiche. Non nutriamo la stessa speranza rispetto all’apertura che egli identifica nel campo della sinistra dopo la fine del governismo petista e ancor meno rispetto ai pilastri di una nuova doxa della sinistra mondiale, la quale pare più un pastiche di istinti anti-neoliberisti degli anni Novanta e di istinti anti-sessantottini degli anni Settanta. Se, nei termini di Foucault, è un fatto storico-politico che la ragione neoliberista del principio della società-impresa abbia sostituito la ragion di stato del principio di sovranità, la critica di questa svolta si è ridotta ad una denuncia impotente delle logiche neoliberiste di dominio, come se la critica fosse un dovere morale, con l’intento di porre in allerta una società che si presume anestetizzata (dalle pulsioni consumiste, dall’accelerazione dei ritmi, dalla iper-mediatizzazione) e manipolata (dai grandi media, dallo spettacolo, dalle industrie culturali). Invece di puntare nei flussi e nelle forze vive che operano nella “positività” del neoliberismo le istanze di potenza e fuga – come aspirava Foucault nel prendere sul serio quella grande quantità di pensiero che è implicata da tale governamentalità – la critica di sinistra diviene mera lamentela adatta a giustificare l’utopia negativa disponibile sul mercato della rappresentanza: il vecchio busto del leader, il vecchio partito, la vecchia bandiera.

Non stupisce, perciò, che il consorzio dei teorici del comune e dell’accumulazione originaria, da David Harvey a Dardot e Laval, abbia convenuto politicamente e teoricamente con il cattivo maestro nel suo malcelato attaccamento al vero socialismo ed ai suoi rappresentanti idealisti nella sinistra. Per non parlare della riunione inusitata di un largo campo, sui generis ed anti-imperialista, che raggruppa, da un lato, gli Epistemologi del Sud (che comincia a Coimbra, sic!), con il loro feticcio veteromarxista di una “nuova guerra fredda” e, dall’altro, gli intellettuali monocordi del progressismo fallito come Atílio Bóron, per il quale Putin è il nuovo Lenin. Tutti riuniti finalmente nella tesi intramontabile, di spirito stalinista, dell’unità delle sinistre contro l’avanzata delle destre (secondo le mille variazioni sul tema).

Tutto ciò ci conduce alla necessità di una riflessione da un lato sulle ambiguità della rottura precedente di Negri con la sinistra, e dall’altro sui revisionismi e le dissociazioni che più recentemente ha cominciato ad operare in relazione proprio a tale rottura. Qualcosa che ci proponiamo di fare, ad esempio, per mezzo di una rilettura di quello che ha scritto circa le dimensioni assolute di una democrazia costituente la quale, in realtà, finisce – a causa delle sue stesse dichiarazioni – per sembrare ricondurci al totalitarismo delle esperienze del socialismo reale, un’esperienza che non è stata sufficientemente metabolizzata da Negri e, più in generale, dal post-operaismo nel suo insieme. Merleau-Ponty ha scritto pagine memorabili sull’impraticabilità della de-stalinizzazione della sinistra al potere, laddove spiega che il principio massimo dello stalinismo è che questo si installi su di un piano morale, puntellato dalle strutture storiche, dal quale giudica tutto e tutti senza poter essere giudicato da nessuno. Ma questo non è lo stalinismo, è la sinistra al potere: nella misura in cui Lula può tutto, Marina non può nulla, e noi ancor meno. Negli ultimi tempi abbiamo avuto alcune prove del fatto che per Negri la sinistra è tornata a meritare quel consenso servile che negli ultimi cento anni ha condotto innumerevoli intellettuali ad appoggiare il socialismo reale prima, durante e dopo Stalin. Che questo non sia coerente con quello che ha scritto sul socialismo reale e sulla sinistra europea – su quella italiana in particolare –, o con ciò che ha fatto durante la sua militanza durante gli anni Settanta, davvero non ci interessa, benché ci inquieti l’irresistibile bisogno di affermare una coerenza superiore, che a sua volta ci esige una revisione più profonda del nostro modo di leggere la sua vita e la sua opera. Ciononostante, non stiamo pretendendo coerenza né denunciando le sue opzioni e dissociazioni. Diamo per acquisito che la differenza di posizioni sia qualcosa di produttivo, quand’anche venga marcata con asprezza e franchezza – allo stesso modo in cui abbiamo ricevuto la notizia di una rottura de facto con noi. E la nave va. Ma vale la pena sottolineare: ci sembra che per Negri la sinistra sia un’entità astratta rispetto alla quale egli ha tenuto a far certificare la sua fedeltà in extremis. Sì, il Bye bye Mister Socialism era allora solo un arrivederci.

Non è questa la sede per una riflessione più profonda sulle ambiguità della (non) rottura di Negri con la tradizione socialista e, indirettamente, con lo stalinismo che l’attraversa – qualcosa che riteniamo urgente e che avverrà con la lentezza e il rigore che competono alla complessità della materia. Quel che ci interessa qui è semplicemente affermare che non conserviamo alcuna fede in dogmi né in alcuna chiesa; che non seguiamo nessun rabbinato, sia esso l’Idea di Sinistra con i suoi rappresentanti fondamentalisti o riformatori, sia esso il corporativismo universitario riorganizzato in una nuova doxa riconciliata.

 
* La versione originale è pubblicata sul sito di UniNômade Brasil. Traduzione di Graziano Mazzocchini.


[1] Modalità tipica di protesta delle manifestazioni del biennio 2015-2016 per l’impeachment di Dilma Rousseff, caratterizzata dalla percussione, in date ed ore convenute, di padelle, pentole o simili, accompagnata da fischi e slogan.[N.d.T.]

[2] La maxi-inchiesta giudiziaria che dal 2013 ad oggi ha scosso e continua a scuotere l’intero assetto partitico-istituzionale ed imprenditoriale brasiliano, da alcuni paragonata all’italiana Mani Pulite [N.d.T.]