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La conricerca come stile della militanza

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Intervento di Gigi Roggero al seminario Lire La Horde d’or (Parigi, 10-11 giugno 2017). La versione francese è pubblicata su Plateforme d’Enquêtes Militantes

Voglio innanzitutto ringraziare gli organizzatori di questa iniziativa, per la possibilità di essere qui a discutere, ascoltare e imparare da quello che sta accadendo in Francia. Voglio ringraziarli anche per lo straordinario lavoro compiuto con La Horde d’or: è molto più di una traduzione, è la costruzione della possibilità di comprendere e utilizzare politicamente questo libro. Se oggi in Italia si vuole riattualizzare L’orda d’oro, un editore militante dovrebbe tradurre questa versione francese con il suo apparato di note e spiegazioni.

Suddividerò il mio schematico intervento sulla conricerca in tre parti: il contesto politico e sociale in cui nasce e si sviluppa questa pratica militante in Italia, una specificazione su cos’è la conricerca e le differenze rispetto all’inchiesta operaia, perché essa non si esaurisce con gli anni ’60 e con la centralità della fabbrica taylorista.

1. Il contesto in cui si sviluppano le esperienze di conricerca operaista, tra la fine degli anni ’50 e gli anni ’60, è quello segnato dall’entrata ritardata dell’Italia – rispetto ad altri paesi dell’Occidente capitalista – nel taylorismo-fordismo. Vista la confusione che verrà fatta di questi due termini nel tempo dei “post”, il tempo in cui tutte le vacche diventano nere, sarà bene precisare stenograficamente che per taylorismo si intende un modello di organizzazione del lavoro industriale in fabbrica e per fordismo un modello di organizzazione della società industriale attorno alla fabbrica. Questo ritardo viene rovesciato dagli operaisti in elemento di forza e possibilità di anticipazione, anche attraverso lo studio e l’analisi dei cicli di lotta operaia in altri paesi (dalla Germania agli Stati Uniti). Risulterà importante per le pratiche di conricerca l’utilizzo della letteratura politica rivoluzionaria e operaia là prodotta (si pensi al libro di storie di vita operaia di James Boggs, al diario di Paul Romano o a quello di Daniel Mothé alla Renault). Verrà utilizzata, o meglio contro-utilizzata anche la letteratura sociologica, dalla sociologia del lavoro francese alla sociologia industriale americana, che mostrava come il taylorismo non funzionasse applicando pedissequamente le rigide regole formali dell’ingegner Taylor, ma innanzitutto attraverso l’uso capitalistico dell’informalità operaia, ovvero dei comportamenti operai di resistenza e sottrazione per risparmiare fatica e lavoro. Da sempre e continuamente, infatti, il padrone tenta di utilizzare e catturare la forza-invenzione operaia per trasformarla in forza-innovazione. (Quando parliamo di innovazione parliamo sempre di un processo nelle mani del capitale, in quanto risposta e utilizzo delle lotte; per questo abbiamo più volte affermato che il contrario di innovazione non è conservazione, ma rivoluzione.)

In questo contesto un gruppo di militanti che farà parte delle esperienze di Quaderni Rossi e Classe Operaia va davanti alle fabbriche di Torino a discutere con gli operai: si tratta di Romano Alquati (cresciuto a Cremona e transitato per alcuni anni a Milano), Pierluigi Gasparotto (che viene da Milano), Emilio Soave e Romolo Gobbi, entrambi piemontesi. È noto il rapporto tra Alquati e Danilo Montaldi, entrambi cremonesi; attraverso Montaldi, inoltre, Alquati entra in contatto con compagni ed esperienze internazionali, innanzitutto quella di Socialisme ou Barbarie, che costituiscono punti di riferimento importanti per la storia dell’operaismo politico italiano. È al contempo necessario sottolineare una differenza importante nei percorsi e nelle scelte di queste due fondamentali figure, ai cui nomi vengono ricondotte le pratiche di conricerca e inchiesta militante: Alquati va dentro e contro il cuore del processo di taylorizzazione, nella città-fabbrica Torino, e anche quando si occupa delle campagne è attento a individuare innanzitutto i processi di industrializzazione e lotta nella “Padania irrigua”; Montaldi, invece, va nei luoghi e tra i soggetti marginalizzati dallo sviluppo della modernità, raccontando le storie della “leggera” come esempi di resistenza.

Contrariamente a quanto si può pensare ex post, la scelta di andare politicamente davanti ai cancelli delle fabbriche era, tra la fine degli anni ’50 e i primi ’60, tutt’altro che scontata. Da un lato, perché era allora piuttosto impensabile che dei militanti non appartenenti alle istituzioni del Movimento Operaio potessero andarci con giornali e volantini (gli scontri ai cancelli con il Pci e il sindacato in molti luoghi erano all’ordine del giorno). Dall’altro, soprattutto, perché le fabbriche erano state politicamente abbandonate. Dopo la sconfitta della Fiom (la federazione dei metalmeccanici della Cgil, il sindacato legato al Pci) alle elezioni per la commissione interna alla Fiat nel 1955, la classe operaia veniva ritenuta pressoché perduta, ormai integrata nei meccanismi di funzionamento del capitalismo occidentale. Era una sorta di francofortismo implicito, funzionale nel caso del Pci alla sua strategia dell’ormai avvenuto abbandono di ogni prospettiva rivoluzionaria, dell’inseguimento dei ceti medi e, più avanti, del compromesso storico. Andare alla Fiat e all’Olivetti, dove si svolgeranno le principali esperienze di conricerca, parlare con gli operai e organizzarsi con loro, era dunque una scommessa inattuale, nel senso nietzscheano, cioè di un agire contro il tempo, sul tempo e per un tempo a-venire. L’Olivetti di Ivrea, poi, con il suo padrone “illuminato”, la sua idea comunitaria e di conciliazione degli interessi tra operai e capitale nel nome del progresso, era – e rimarrà ancora oggi – il modello della sinistra (quando parliamo di sinistra parliamo del nemico, di ciò che non siamo mai stati, di ciò con cui l’operaismo rompe, indipendentemente dalle successive traiettorie individuali).

Cosa trovarono i militanti operaisti nelle fabbriche? In primo luogo, militanti del sindacato e del partito (quello comunista più di quello socialista) rassegnati, che formavano un circolo vizioso con la direzione imboccata dal vertice. In altre parole: il Pci aveva scelto di inseguire i ceti medi e la via italiana al socialismo (una via senza lotta di classe rivoluzionaria), i militanti di fabbrica rispondevano che effettivamente non c’era possibilità di lotta di classe rivoluzionaria, la linea del vertice era così confermata e confortata. In secondo luogo, evidenziarono la contraddizione tra la crescente socializzazione del processo produttivo e la funzione esclusivamente politica della gerarchia capitalistica (si veda in particolare l’articolo di Alquati su composizione organica del capitale e forza lavoro all’Olivetti sul secondo numero dei Quaderni Rossi, ripubblicato nella sua fondamentale raccolta dei testi degli anni ’60 Sulla Fiat e altri scritti). A scanso di pericolosi equivoci, è bene precisare che tale passaggio non va immaginato con il divenire immediatamente autonomo della cooperazione sociale a fronte di un capitale parassitario; è invece l’identificazione di una contraddizione aperta nel cuore delle nuove forme di organizzazione industriale e tendenzialmente iper-industriale. In terzo luogo e soprattutto, i militanti operaisti trovarono molteplici forme di resistenza, insubordinazione e rifiuto che si muovevano sotto la coltre di ciò che era visibile, circolavano sul piano dell’informalità, non assumevano ancora una dimensione collettiva. Contenevano cioè una politicità intrinseca aperta a differenti sviluppi, dall’esaurirsi sul piano della sottrazione individuale al lavoro fino all’assumere un carattere esplicito di lotta e rottura. Invisibile allo sguardo accecato delle istituzioni rappresentative del Movimento Operaio, la vecchia talpa aveva continuato a scavare e ora stava per irrompere sulla scena. I militanti operaisti se ne accorsero in anticipo e ben prima della rivolta di Piazza Statuto iniziarono a parlare della disponibilità al conflitto delle “forze nuove” operaie.

Quando il 7 luglio 1962 a Piazza Statuto a Torino centinaia e centinaia di operai assaltano la sede della Uil (sindacato confederale che aveva appena firmato un accordo-bidone alla Fiat) e si scontrano per tre giorni con la polizia, Pci e sindacato fecero un comunicato in cui sostenevano che la rivolta era stata provocata da infiltrati pagati dai padroni. A essere degna di nota non è certo la paranoia inquisitoriale del Pci, da sempre e per sempre marchio di fabbrica della sinistra: ogni volta che i soggetti di classe prendono in mano il proprio destino e agiscono autonomamente, rifiutando il ruolo di vittime e turbando lo status quo, per la sinistra si tratta di provocatori da denunciare ed eventualmente sbattere in galera. Interessante sono invece le motivazioni con cui veniva giustificata la denuncia dei provocatori: quelli che si erano scontrati, sostenevano le istituzioni del Movimento Operaio, non erano operai perché non ci comportavano da operai, non si vestivano da operai, erano troppo giovani e avevano i capelli troppo lunghi per esserlo. Vi è qui, sotto la maschera del pensiero paranoico, una drammatica verità: non avevano capito nulla delle trasformazioni della composizione di classe e della soggettività, e continueranno a non capire nulla quando nel decennio successivo, sulla spinta della radicalità delle lotte e dei massificati comportamenti di rifiuto, cambieranno di nuovo.

Composizione di classe e soggettività sono due concetti chiave, che qui riassumiamo in modo estremamente conciso. La composizione di classe si determina storicamente nel rapporto tra composizione tecnica e composizione politica, cioè tra l’articolazione capitalistica della forza lavoro nel suo rapporto con le macchine e il formarsi della classe come soggetto indipendente. La composizione tecnica e la composizione politica non ci restituiscono delle fotografie di elementi statici, cioè della forza lavoro totalmente subordinata al capitale da una parte e della classe totalmente autonoma dall’altra: si tratta di processi entrambi attraversati dal conflitto, dallo scontro, dalla possibilità della rottura e del rovesciamento. Tra questi due processi non vi è una dialettica conciliativa, così come non vi è sintesi e specularità. Il soggetto centrale o più avanzato per l’accumulazione capitalistica non è necessariamente il soggetto centrale o più avanzato delle lotte, come si pensava nella tradizione socialcomunista, e come si è spesso implicitamente tornato a pensare nelle elaborazione sul cosiddetto “postfordismo”. Non si tratta quindi della riproposizione del rapporto marxista tra classe in sé e classe per sé, mediato da un’idealistica coscienza di classe semplicemente da disvelare. Ricomposizione di classe non vuole infatti dire sintesi, ma rottura. Conseguentemente, la soggettività non è qualcosa di oggettivamente dato dal rapporto di capitale, come si postula nella tradizione marxista, così come non è qualcosa di completamente indipendente dalla materialità dei rapporti di produzione e di forza, come risulta nelle varie declinazioni del pensiero debole postmoderno. La soggettività è sempre la posta in palio di un processo di lotta, di un rapporto di conflitto e di forza, dell’antagonismo potenziale o in atto tra i processi di soggettivazione capitalistica e i processi di contro-soggettivazione autonoma. Quest’ultimo termine non va inteso solo come soggettivazione contro il capitale che abbiamo di fronte, ma al contempo contro il nemico che si incarna dentro di noi. Gli operaisti non amavano gli operai, ma scommettevano sugli operai che odiavano se stessi, che lottavano per estinguere la propria condizione di sfruttamento. Dunque, la stessa classe non esiste oggettivamente: nella natura del capitale esistono solo le classi in quanto tassonomie delle stratificazioni sociali. La classe – in senso politico, dunque forte – è legata al conflitto. Per dirla con Tronti: non c’è classe senza lotta di classe.

Quello che è stato definito operaio massa, cioè l’operaio della fabbrica taylorizzata, non era dunque un soggetto quantitativamente maggioritario dentro l’articolazione capitalistica della forza lavoro. La centralità che assunse nelle lotte degli anni ’60 in Italia era determinata dalla combinazione (non oggettivamente data, ma soggettivamente costruita) tra una certa baricentralità nei processi di accumulazione del capitale e comportamenti di rifiuto e conflitto che, all’epoca in cui gli operaisti cominciarono le pratiche di inchiesta e conricerca, erano non solo sotterranei ma per quasi tutti impensabili. Anzi, per i militanti sindacali e del partito il futuro operaio massa era un opportunista, perché spesso arrivava addirittura a votare per i sindacati gialli; era passivo, perché non partecipava agli scioperi; era semplicemente alienato, estraneo all’orgoglio per il lavoro. I militanti operaisti, discutendo con le giovani “forze nuove”, scavarono dentro le ambivalenze o anche ambiguità di questi comportamenti: capirono che sì era vero, spesso votavano perfino per i sindacati gialli, perché non si sentivano rappresentati da nessuno; non partecipavano agli scioperi, perché li ritenevano inutili, perfino la passività era una forma di lotta potenzialmente più efficace; e ben presto l’estraneità al lavoro divenne rifiuto e insubordinazione. L’operaio massa, inoltre, perlopiù giovane e immigrato dal Sud Italia nelle metropoli industriali settentrionali, non corrispondeva affatto all’immagine della vittima con le valigie di cartone, tramandata dalla letteratura e cinematografia di sinistra, vogliosa di pianto e compassione; era al contrario una forza potenziale, portatore di nuovi comportamenti e culture del conflitto estranee alla tradizione delle istituzioni del Movimento Operaio ormai co-gestionarie dei processi di sfruttamento in fabbrica.

Insomma, da queste schematiche note si può capire come la conricerca non consista nel semplice racconto di ciò che è stato: è una scommessa politica su ciò che può essere, di anticipazione della tendenza. Quando parliamo di tendenza non facciamo riferimento alla previsione del futuro, niente a che fare con una sorta di astrologia storicistica, né con quell’attitudine teleologica con cui, purtroppo, è spesso stata identificata in alcune teorie del post. La tendenza è l’identificazione di un campo di potenzialità aperto a sviluppi differenti o contrapposti; chiamiamo conricerca, quindi, l’individuazione e azione su linee di forza già esistenti nel presente, anche se in forma frammentata o dispersa.

Quando una quarantina d’anni dopo l’insorgenza di Piazza Statuto venne chiesto ad Alquati se loro, gli operaisti, se l’aspettassero, lui rispose: “non ce l’aspettavamo, ma l’abbiamo organizzata”. Ecco, sta tutta qua dentro la verità della conricerca, e in fondo della stessa militanza rivoluzionaria.

2. Da quanto fin qui detto, dovrebbe già essersi capita una buona parte di ciò che la conricerca è e cosa non è. Andiamo più a fondo. Sarà bene precisare che Alquati detestava essere identificato come l’“inventore” della conricerca perché, diceva, i militanti hanno sempre fatto conricerca. E chi non fa conricerca non è un militante. Qua abbiamo già una risposta importante alla domanda: chi fa la conricerca? I militanti, appunto. Non è dunque una questione di metodologie sociologiche e specialismo professionale, per quanto i mezzi delle scienze sociali possano e perfino debbano essere contro-utilizzati. La conricerca è interamente un processo politico: è lo stile della militanza. Ancora Alquati infatti, riferendosi alle esperienze degli anni ’50 e ’60, più o meno ne parlava così: la conricerca consisteva nell’andare davanti ai cancelli delle fabbriche alle 6 del mattino, alle 2 del pomeriggio e alle 10 di sera [cioè negli orari del cambio-turno], discutere con gli operai e organizzarsi con loro; e poi andarci il giorno dopo, il giorno dopo ancora, e così via.

Al di là della suggestività del termine, la conricerca non va quindi confusa con altre esperienze e con un generico “andare al popolo”. Non si è mai presupposta alcuna eguaglianza tra chi andava davanti ai cancelli delle fabbriche e chi nelle fabbriche ci doveva andare a lavorare, ma si sperimentava la costruzione della possibilità di organizzarsi insieme. Il prefisso con va quindi inteso in un doppio senso: una ricerca portata avanti dai militanti con gli operai, e una ricerca combinata con i mezzi, cioè in grado di contro-utilizzarli non solo per piegarli a un fine radicalmente differente, ma per costruire un nuovo processo di produzione e organizzazione del sapere e della lotta.

Possiamo a questo punto delineare la differenza tra la conricerca e l’inchiesta operaia, quella a cui è legato il nome di Panzieri e del suo gruppo di giovani sociologi militanti dei Quaderni Rossi. La diciamo così, tagliando con l’accetta: l’inchiesta operaia utilizza il processo di produzione della conoscenza e i mezzi della sociologia cambiandone i fini, cioè indirizzandoli a un obiettivo politico; la conricerca è un processo politico autonomo al contempo di produzione di contro-conoscenza, contro-soggettività e contro-organizzazione, in cui anche il contro-utilizzo dei mezzi capitalistici significa la loro trasformazione. Mentre da una parte si rimane ancorati a una divisione tra pensiero e azione, cioè tra produzione scientifica e organizzazione politica che la usa e rappresenta, dall’altra vi è una radicale messa in discussione di quella divisione, sul piano dell’organizzazione collettiva del soggetto autonomo.

In questo processo, è determinante il rapporto con la temporalità. Panzieri parlava della necessità di una “inchiesta a caldo”, ossia nella fase montante delle lotte. Questa è certo utile, ma non basta. Bisogna infatti capire cosa c’è prima e cosa c’è dopo le lotte, scommettere sulla loro possibilità e direzionare la loro sedimentazione. Quando i movimenti e i conflitti sono conclamati il militante arriva tardi, se non è stato dentro la capacità di anticipare la tendenza – ripetiamo: non prevederla, ma organizzarla. Nei primi anni ’60 Alquati parlava di un’organizzazione invisibile che sotterraneamente si costruiva tra gli operai della Fiat: invisibile per i padroni, invisibile per le istituzioni del Movimento Operaio. È in questa invisibilità che stava la sua forza, la capacità di irrompere e colpire quando e dove non se lo aspettavano. Il tempo decisivo della conricerca è dentro questa invisibilità, all’interno dello sviluppo di una spontaneità organizzata. Come ha sostenuto alcuni anni fa Salvatore Cominu, l’inchiesta alquatiana è “a tiepido”, ovvero nello spazio aperto di possibilità collocato tra ciò che non esiste e ciò che ormai è già esistito. L’hic et nunc dell’evento viene qui ripensato dentro un processo: un processo fatto di continuità e salti, di sedimentazione e rottura, di un presente che diviene anticipazione di una linea di tendenza e costruzione di una prospettiva. Un presente che rompe con il proprio tempo, una tendenza che rompe con la teleologia, una prospettiva che rompe con il futuro.

3. Non si può oggi pensare la conricerca così come è stata praticata negli anni ’50 e ’60, nelle coordinate disegnate tra la fabbrica taylorista e la società fordista. Quante volte è stata ripetuta questa ovvietà? Talmente tante che non sentiamo il bisogno di farlo ancora. Il punto è che la conricerca in quanto metodo di organizzazione autonoma, stile della militanza appunto, non si esaurisce affatto in quelle coordinate. Lo ha dimostrato Alquati già negli anni ’70, con il suo percorso di inchiesta dentro la facoltà di Scienze Politiche a Torino elaborato nel volume Università di ceto medio e proletariato intellettuale. Lì vengono individuati principalmente due processi: l’emergere dell’operaio sociale, che utilizza l’università, il sapere e la formazione per rafforzare la propria autonomia; un ceto medio in crisi di mediazione, dunque non più argine rispetto allo sviluppo della lotta di classe. All’epoca questi processi erano determinati dalla spinta del conflitto; oggi, in una situazione rovesciata, uno dei nodi centrali per l’inchiesta militante resta come si compone il proletariato intellettuale e il ceto medio in crisi di mediazione. Attraverso questo angolo visuale dobbiamo pensare la questione generazionale, in termini materialisti, cioè di composizione di classe, comportamenti, soggettività, possibilità di conflitto.

A partire dagli anni ’90 ci sono state varie esperienze e tentativi di inchiesta e potenzialmente conricerca, con alterni risultati. Mi limito qui a segnalarne un paio di limiti, decisivi e ricorrenti. Il primo è di immaginare la ricerca militante come la semplice conferma e divulgazione di ipotesi già date, di avere cioè tante risposte, spesso sbagliate, e poche domande vere. E se non si interroga quello che facciamo e quello che non funziona, se non si vuole scoprire quello che non sappiamo, vedere quello che non vediamo, è inutile fare ricerca. Il secondo limite è stato quello di trasformare immediatamente l’inchiesta in auto-inchiesta, con un ragionamento che più o meno suonava così: siccome siamo tutti precari e non siamo più esterni all’ipotizzato “soggetto” rispetto a cui facciamo inchiesta, l’onnicomprensivo precariato, allora basta dirci cosa pensiamo noi militanti per sapere cosa pensa il precariato. È stato un modo per liquidare il problema della composizione di classe, della soggettività e della stessa militanza.

Ora, in particolare, l’urgenza della conricerca emerge per noi innanzitutto dall’insoddisfazione per il nostro noi militante. Purtroppo, al contrario, vediamo intorno a noi tanti, troppi militanti accettanti e soddisfatti del proprio esistente, nella gestione della propria marginalità politica, nell’autogratificazione dell’identità micro-comunitaria. In generale, chi è soddisfatto di gestire l’esistente cessa di essere un rivoluzionario. In questo specifico presente, chi è soddisfatto di gestire l’esistente ha cessato di essere in contatto con la realtà. Dire conricerca significa dare forma organizzata al fuoco del nostro odio. Dire conricerca significa riscoprire, ripensare e dunque reinventare quella linea composizionista dell’operaismo che è avversa alla teleologia del post e alla nostalgia del pre, all’accelerazione del futuro e al rimpianto del passato. Dire conricerca significa costruire una materialissima profezia, nel senso di scavare dentro l’ambivalenza per trovare le strade della potenza, di vedere quello che già esiste e gli altri non vedono, di porsi il problema di scomporlo nella forma del dominio e ricomporlo contro il capitale. Dire conricerca significa rischiare una scommessa politica, abbandonare i porti sicuri di un già noto ormai svuotato e andare là dove non siamo perché là le contraddizioni possono esplodere. Significa organizzare il possibile per essere pronti all’imprevisto. Cos’altro abbiamo da perdere se non le catene del nostro impoverimento soggettivo?

Ci sarà chi esclama, incurante di tutto quello che abbiamo fin qui mostrato sull’inattualità della scommessa di allora: vabbé, ma cinquant’anni fa era tutto molto più semplice, oggi la situazione è estremamente più complessa! La complessità è infatti diventata l’alibi dei militanti ignavi, l’autogiustificazione di chi ha rinunciato a lottare, il mantra degli accademici che disprezzano chi agisce dentro le ambiguità dei comportamenti di classe perché, in fondo, disprezzano una classe che non si comporta come vogliono loro. Costoro non capiscono, e mai capiranno, che la complessità bisogna possederla per agire politicamente la semplificazione. Chissà che tra mezzo secolo qualche futuro ignavo o storico delle lotte del prossimo a-venire non esclamerà: vabbé, ma cinquant’anni fa era tutto molto più semplice, oggi la situazione è estremamente più complessa!