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L’indipendenza della Catalogna: storia, mobilitazione popolare e autodeterminazione

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Articolo e testimonianza da Barcellona di Julià Gómez Reig

Lo scorso 20 settembre Barcellona si è svegliata colpita da una visita attesa ma inusuale in una supposta democrazia del XXI secolo: la Guardia Civil ha fatto irruzione nella sede del governo di Carles Puigdemont per arrestare 14 dirigenti dell’amministrazione catalana compromessi con l’organizzazione del referendum per l’autodeterminazione previsto per il primo ottobre. Il referendum è il risultato di sei anni di mobilitazioni della società civile e del plebiscito del 27 settembre 2015 a favore dei partiti che si schieravano per il referendum per l’autodeterminazione come principale strumento per rispondere all’appello di migliaia di persone che negli ultimi anni sono scese nelle strade di Barcellona per rivendicare il diritto a votare per l’indipendenza della Catalogna.

Pochi minuti dopo l’irruzione della Guardia Civil nella sede del governo si sono radunate 40.000 persone attorno al ministero dell’economia e alla sede del partito anticapitalista ed indipendentista CUP, che era stata circondata dalle forze dell’ordine disposte a entrare nell’ufficio degli indipendentisti per cercare documenti relativi al referendum. Dopo questo tentativo c’è stata una chiamata per difendere un mandato popolare che oggi è in pericolo a causa di un colpo di Stato. A meno di due settimane dalla data prevista per il referendum, il governo centrale dello Stato spagnolo – che ha sempre considerato illegale la legge approvata dalla camera parlamentare catalana lo scorso 6 settembre per garantire il referendum – ha ordinato l’insediamento di 7mila effettivi delle forze dell’ordine spagnole (Policía Nacional e Guardia Civil), oltre ai 6mila già presenti, creando uno stato d’eccezione che ha acceso la fiamma della protesta. Ma come si è arrivati a questa situazione? Perchè l’indipendentismo è in crescita?

Breve storia di una terra ingovernabile

Per rispondere a queste domande si deve andare un po’ indietro, senza volere in questo articolo approfondire la storia della Catalogna e dei Paesi Catalani, e vedere quando l'indipendentismo è diventato un movimento di massa. Già dal secolo scorso, infatti, esistevano partiti e organizzazioni operaie che, al di là del nazionalismo catalano borghese, vedevano nell’impresa indipendentista uno strumento per mettere in scacco tanto la borghesia spagnola quanto quella regionale, immaginando l’indipendentismo come un’idea rivoluzionaria in grado di permettere una liberazione nazionale e di classe.

La questione nazionale ha come principale riferimento storico la sconfitta nella Guerra di Successione, quando fra il 1707 e il 1714 i territori di lingua catalana furono occupati dagli eserciti di Filippo di Borbone dopo le rivolte contadine; all’occupazione armata fece seguito l’abolizione delle libertà del popolo conquistato e delle istituzioni rappresentative della Corona d’Aragona. È da questo momento in avanti che la storia dei catalani diventa la storia di un popolo occupato per più di trecento anni, fino a oggi; sebbene il romanticismo nazionalista ha creato la sua mitologia intorno a questa sconfitta, non si può capire la resistenza e la costruzione dell’identità catalana senza la permanenza di una lingua parlata dai ceti popolari. Tra il XIX e il XX secolo la borghesia della regione aveva invece ormai accettato le imposizioni del regno di Spagna, inserendosi nel disegno nazionale di Madrid, tentando di essere il principale veicolo di un’industrializzazione che aveva i suoi cardini in Catalogna e nel Paese Basco, a esclusivo profitto dei proprietari delle fabbriche.

È nell’emergere di questo nuovo contesto industriale che Barcellona diventava un luogo importante del conflitto di classe, attraverso le prime organizzazioni operaie e i sindacati prevalentemente di tendenza anarchica. Nel 1898 il governo spagnolo guidato da Antonio Maura perdeva le colonie di Cuba, Porto Rico e Filippine, concentrando a quel punto le sue aspirazioni coloniali verso il nord del Marocco con l’invio di riservisti nei possedimenti spagnoli. Il reclutamento di questi riservisti, perlopiù padri di famiglie operaie, si scontrò con un sciopero generale di una settimana a Barcellona fra il Iuglio e l’agosto del 1909 per protestare contro le guerre coloniali dello Stato, che significavano la morte di centinaia di operai. Dieci anni dopo, nel 1919, lo sciopero della Canadenca, partecipato da operai di tutta la Catalogna e cominciato a Barcellona, fermò il 70% della produzione industriale dell’intera regione. Nello stesso anno Salvador Seguí, uno dei sindacalisti più importanti della storia della CNT (il sindacato anarchico fondato a Barcellona nel 1910), disse in un importante discorso a Madrid: “Sapete chi sono i primi a non accettare l’indipendenza della Catalogna? I mercanti della Lega regionale, la borghesia catalana stessa, che rientra nella Lega regionale, non accetterà in alcun modo l’indipendenza della Catalogna”.

L’indipendentismo non era infatti inteso come una priorità, ma di fronte all’idea di una Catalogna indipendente la borghesia e il suo partito, la Lega regionale, restavano legati all’establishment statale. Allora, se la borghesia catalana non era indipendentista, c’era un partito o organizzazione che fosse appunto indipendentista? Sì, e si formò come partito nel 1922 con il nome di Estat Català (Stato Catalano). Il suo leader era Francesc Macià, che arrivò a proclamare la Repubblica Catalana per la prima volta come presidente della deputazione di Barcellona, non senza prima aver provato la sollevazione armata contro la dittatura di Primo di Rivera nel 1926, nell’episodio storico conosciuto come i fatti di Prats de Molló. Più tardi condusse la lotta attraverso uno sciopero generale in alleanza con la CNT e altri gruppi operai che simpatizzavano per l’indipendentismo. Dall’esilio di Cuba, e influenzati dall’esperienza della liberazione cubana dal colonialismo spagnolo, crearono la bandiera che oggi è riconosciuta come la bandiera indipendentista: l’estelada.

Arriviamo così al 1936, con il colpo di Stato di Franco e dei settori militari a lui fedeli, che condusse alla guerra civile a alla rivoluzione sociale, con il protagonismo di anarchici e socialisti di tutta la Spagna. Le organizzazioni operaie e indipendentiste si unirono per formare le Milizie Antifasciste di Catalogna fuori dal controllo statale. Dopo la guerra, durante i quarant’anni di dittatura, l’indipendentismo fu portato avanti anche insieme a militanti comunisti e anarchici: nella Spagna di Franco, infatti, non c’era posto per altra lingua che non fosse lo spagnolo, mentre erano vietate tutte le tendenze politiche e sociali che non rispondevano alla volontà fascista o clericale.

Condannati alla clandestinità, la musica, la letteratura, le arti e la politica catalane trovarono pochi modi di sopravvivere. Tuttavia, non riuscirono a sopprimere l’indipendentismo della lingua catalana come nucleo della produzione culturale; negli ultimi anni del franchismo c’è stato un rinascimento della lingua e della cultura catalane, con la dittatura che nel frattempo era costretta ad attenuare la repressione nel nuovo scenario europeo. A quel punto però il franchismo aveva vinto non solo una guerra ma anche la socialità, e il processo di ripresa dell’uso della lingua catalana fu fatta da cantautori e artisti che si esprimevano contro la dittatura per mezzo dell'ironia e le metafore.

Una volta morto Franco, comodamente deceduto nel suo letto, la transizione a un regime parlamentare sul finire degli anni ’70 non fu democratica né si proponeva di esserlo, sebbene il discorso ufficiale parlasse di fine della dittatura. La dittatura fascista fu sostituita da un regime capitalistico protetto da uno Stato autoritario. Una costituzione redatta dai giuristi che formavano una parte del potere giuridico controllato da Franco, l’imposizione di un re e la premessa della Spagna come nazione indivisibile sono alcune delle tante espressioni del franchismo che persiste ancora oggi nello Stato spagnolo, e che i figli politici del franchismo – vestiti con abiti democratici e con il neoliberismo per bandiera – difendono strenuamente perché è la garanzia del loro privilegio in quanto classe. È in questi anni che il movimento studentesco inizia a protestare contro questo stato di cose, contro il regime e la repressione, diventando il motore delle mobilitazioni.

Possiamo trovare gli inizi dell’indipendentismo moderno in proposte come quella del PSAN (Partito Socialista per la Liberazione Nazionale), di orientamento marxista, o nella storica ERC (Sinistra Reppublicana della Catalogna), tra i primi tentativi di fare dell’indipendentismo un movimento popolare e politico, di classe, prendendo come esempio modelli come l’Irlanda. Anche su questo esempio si è creata l'organizzazione armata Terra Lliure (Terra Libera), coetanea della popolare ETA nel Paese Basco, di ispirazione marxista-leninista, ma senza l’impatto prodotto da altri gruppi armati. Negli anni ’80 veniva creato l'MDT (Movimento in Difesa della Terra), anch’esso di ispirazione marxista, che riuscì a coagulare la maggior parte dell’indipendentismo politico al di fuori delle istituzioni nate dal regime post-franchista.

Fino agli inizi del presente secolo la Catalogna è stata governata dalla destra regionale, una destra in sintonia con il sistema delle autonomie imposto dallo Stato spagnolo, sempre pronta a collaborare con il PP(Partido Popular) o con qualsiasi altro soggetto che rispondesse ai suoi interessi di classe. Intanto, una rigenerazione dell’indipendentismo rivoluzionario rispetto all’MDT e al PSAN era portata avanti da Esquerra Independentista (Sinistra indipendentista), un movimento di base, extraparlamentare e con l’aspirazione di liberare i Paesi Catalani senza accettare i confini imposti dallo Stato spagnolo e francese. Questo movimento rifiuta le istituzioni e propone un indipendentismo di classe e femminista, come alternativa politica allo Stato spagnolo. A partire dal 2006 ha iniziato a rafforzarsi l’indipendentismo per come lo si conosce oggi, come un movimento di massa.

Una disorientata sinistra parlamentare e riformista composta da ERC, PSC (articolazione politica del PSOE) e ICV (eurocomunisti ecologisti) è salita al potere dopo un risultato favorevole nelle elezioni del 2003. Questo tripartito è durato fino al 2010 con una proposta catalanista in senso culturale e di sinistra; nel 2006 emerse il progetto di creare un nuovo statuto di autonomia per la Catalogna che rinovasse le condizioni di governo, senza rappresentare una vera opzione di rottura in direzione di un reale autogoverno. Anche questa proposta fu rimodellata dal Tribunale Costituzionale spagnolo con le stesse logiche autoritarie e nazionalistiche di sempre. Ne nacquero mobilitazioni, proteste e cortei raccolte sotto il lemma “Som una nació, nosaltres decidim” (siamo una nazione, noi decidiamo) che davano alle idee indipendentiste l’opportunità di crescere e, per la prima volta negli anni duemila, di socializzarsi su un piano di massa.

L’indipendentismo oggi: perché bisogna essere indipendentisti?

Il punto culminante che ha portato alla situazione attuale va situato l’11 settembre 2012, con il corteo organizzato a Barcellona dall’allora giovane Assemblea Nacional Catalana (ANC). L’ANC ha per obiettivo l’indipendenza della Catalogna e si caratterizza per la trasversalità ideologica; ha rappresentato la chiave per il sorgere di una massa indipendentista plurale e intergenerazionale, che ha obbligato l’elite borghese catalana a scegliere fra indipendentismo e spagnolismo. Da allora fino a oggi il processo indipendentista è stato il frutto di mobilitazioni continue nelle strade di tutte le città e paesi della Catalogna, che hanno rivendicato non solo l’uscita dello Stato spagnolo, ma anche la possibilità di costruire una repubblica catalana, un nuovo paese che risponda alla necessaria democratizzazione delle strutture di governo comunali e del parlamento. Senza dubbio, tutta questa protesta non si capisce da sola, se non mettendola in relazione con il rifiuto delle politiche di austerità e del restante spirito del 15M: questo insieme di fattori ha portato le persone in strada non solo per combattere contro la riduzione dei servizi pubblici come la sanità, ma anche per esigere l’autogoverno nella sua totalità, per esigere cioè la libertà di scegliere su tutto ciò che ci appartiene.

A fronte dell’allargamento di massa dell’indipendentismo, il movimento dell’Esquerra Independentista si è proiettato nelle istituzioni catalane, con un’avventura obbligata dalla situazione, nonostante il pluralismo che caratteriza l’indipendentismo odierno. È grazie al suo braccio istituzionale – la CUP (Candidatura d'Unità Popolare), che si è presentata alle elezioni del parlamento catalano nel 2012 – che il leader più rappresentativo delle politiche di austerità e neoliberali in Catalogna, Artur Mas, è stato cacciato dalla presidenza dopo un’assemblea di tutto il movimento dell’Esquerra Independentistaper creare un governo pro-referendum nel parlamento catalano. Questo governo, composto da una maggioranza indipendentista, ha fatto un primo tentativo per dare l’opportunità di votare attraverso un referendum non vincolante, a causa delle restrizioni imposte dal governo centrale il 9 novembre 2014. Questa prima volta, anche se non ha rappresentato una vera rottura, è stato comunque il primo tentativo di disobbedire allo Stato spagnolo e alle minacce del suo governo. La partecipazione fu di 2,3 milioni di persone (la Catalogna ha una popolazione complessiva di 7 milioni), e il risultato ha visto un 80,76% dei votanti favorevoli all’indipendenza. Questo risultato ha giustificato un anno dopo altre elezioni vinte dalle forze indipendentiste che avevano come programma di fare un referendum per l’autodeterminazione realmente vincolante. Oggi noi catalani ci troviamo così con un referendum convocato per il prossimo primo ottobre che è stato dichiarato illegale dal governo spagnolo, un referendum che dovrebbe rappresentare un esercizio democratico e che ha provocato le reazioni più demofobiche da parte di uno Stato il cui patto costituzionale figlio della dittatura si decompone davanti a un movimento pacifico, democratico e partecipativo.

Ecco l’opportunità per cambiare, per prenderci la sovranità dalla nostra parte, per rompere con un regime statale capitalistico e criptofascista, di farlo non solo per decidere sull’indipendenza ma per esercitare tutte le sovranità possibili sul piano abitativo, alimentare, economico... Per uscire pure dalla UE e dalle sue imposizioni, poiché di fatto se si fa una dichiarazione d’indipendenza in modo automatico la Catalogna sarebbe fuori. Finora la società è stata il motore di un processo che ci deve portare alle urne; è stata la mobilitazione che ha portato la destra al limite della sua contraddizione tra il negoziare con lo Stato perdendo potere nel parlamento regionale oppure schierarsi per l’indipendentismo, idea da sempre rivendicata e legata alla storia rivoluzionaria. Non si tratta affatto di un cedimento della sinistra indipendentista rispetto agli interessi della borghesia neoliberale catalana, come alcuni pseudocomunisti riformisti spagnoli hanno detto, ma al contrario di uno scontro fra un popolo e un governo centrale. Lenin diceva: “Noi rispettiamo questo diritto, noi non difendiamo i privilegi dei grandi russi rispetto agli ucraini, noi educhiamo le masse al riconoscimento di questo diritto, alla lotta contro i privilegi statali di qualsiasi nazione”.

La borghesia catalana ha infatti dovuto prendere partito per l’indipendenza per non perdere i voti, ma ha perso i suoi alleati e il sostegno degli uomini d’affari e delle aziende più ricche della Catalogna, schierati da sempre dalla parte dello Stato. Davanti a una destra indebolita e a un clima sociale di trasformazione, l’analisi che predomina nelle sinistre spagnole e che conviene ai loro progetti politici è la personalizzazione della questione nel Primo Ministro catalano e la demonizzazione dell’indipendentismo con la premessa della Spagna delle nazioni e della classe operaia, che sarebbe rotta dalla destra se vincesse l’indipendentismo. Ma questa analisi viene fatta da una sinistra che finora non è stata capace di fare tremare lo Stato né di proporre niente che assomigli a un progetto di cambiamento della costituzione e della realtà sociale, non è stata in grado neppure di vincere le elezioni, quindi non può offrire niente che serva a migliorare le condizioni materiali di vita dei cittadini, né catalani né spagnoli. È inoltre un’analisi che ignora le diverse nazioni oppresse dallo Stato spagnolo e che viene pensata a partire da una logica statalista, che serve solo alla borghesia dello Stato spagnolo. Tra l’altro, l’accusa di nazionalismo mossa alla sinistra indipendentista non ha senso dal momento che la loro posizione è interna a un nazionalismo spagnolo che oggi serve per inviare le forze dell’ordine a perseguire urne e cartelle elettorali, a cercare documenti nelle sedi giornalistiche o agenzie di stampa, a collocare navi dell’esercito nei principali porti delle capitali catalane per far albergare truppe pronte a confiscare i materiali e chiudere i seggi elettorali. Sì, sembra uno scherzo ma è vero, siamo a un grado di allerta quattro per terrorismo e la priorità del governo è perseguitare con ogni mezzo repressivo chi vuole votare, perfino su internet la polizia è intervenuta per chiudere 140 siti web che davano informazioni sul referendum e su dove votare, arrestando i loro animatori. È un vero attentato contro i diritti civili, la libertà di stampa e la libertà di espressione.

Per il popolo catalano il “vivere vuole dire prendere partito” di Antonio Gramsci ha oggi più senso che mai, soprattutto perché non si può restare indifferenti di fronte a quello che succederà da oggi al primo ottobre, alla repressione, non si può sostenere che in Spagna ci sia una reale opportunità di cambiamento: disobbedire non è un’opzione, è un obbligo. La prossima domenica saremo alle urne per garantire il voto, tanto per il sì quanto per il no, contro la demofobia e il fascismo persistente, e come sempre saremo nelle strade rivendicando il sì, per la rottura con lo Stato spagnolo, per dimostrare che il mondo nuovo che portiamo nei nostri cuori è nato, e non si può fermare.