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Una vita contro il lavoro

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Gigi Roggero recensisce “Una vita contro il lavoro” di Franco Berardi Bifo

Nella sua breve prefazione della voluminosa raccolta di saggi Quarant’anni contro il lavoro (a cura di Federico Campagna, DeriveApprodi 2017, pp. 377, € 22), Franco Berardi svela da dove viene quel nomignolo che, insieme appunto alla lotta contro il lavoro, ha segnato la sua vita. Glielo ha dato suo cugino Angelo, di qualche anno più grande, prendendo la prima e l’ultima lettera del cognome e del nome: ecco qua Bifo. In greco significa dire due volte, come scoprirà Franco in seguito. E quella doppiezza, quel parlare con una lingua biforcuta, se la porterà dietro per sempre.

La raccolta di saggi, evidenziando il percorso e i suoi cambiamenti, le solide continuità e le necessarie discontinuità, i salti e i tentativi, ci mostra con chiarezza i tre fondamenti su cui poggia la linea di sviluppo del suo pensiero e della sua prassi: il metodo composizionista, il rifiuto del lavoro, la ricerca dell’autonomia. È noto il Bifo degli anni ’70, quello di A/traverso e del maodadaismo, cioè la combinazione tra il dadaismo, che “voleva rompere la separazione fra linguaggio e rivoluzione, fra arte e vita”, e il maoismo, inteso “come capacità di sintetizzare i bisogni e le tendenze presenti nella realtà materiale di lavoro e vita”. È lì che la rigidità della struttura viene rovesciata nella processualità della composizione, l’alienazione in rifiuto, l’estraniazione in autonomia.

Nel decennio successivo quell’esperienza viene ripercorsa senza mai voltarsi indietro, senza mai “adeguarsi ai tempi mutati”. Scrive nel 1987: “Coloro che più insistentemente avevano spinto verso la lotta armata si trasformarono in accesi sostenitori della democrazia, e i predicatori della lotta continua si atteggiarono a scaltri managers della politica postmoderna”. Ma non è intenzione di Bifo individuare delle responsabilità individuali o di altri gruppi politici. Soprattutto, non si può credere che il movimento di liberazione sia stato sconfitto dalla repressione: “la repressione viene dopo, quando il movimento è sconfitto” dalla sua incapacità di comprendere le forme nuove del reale. La sconfitta si consolida poi attraverso “una precisa politica culturale che accolse l’eredità più superficiale del ’77, e la avviò verso il suo destino sociale di dipendenza dal mercato e dal potere”. L’immaginazione è stata paralizzata nell’immaginario, e l’immaginario modella le immaginazioni individuali. Così le industrie della comunicazione e della creatività si sono riempite di intelligenze provenienti dai movimenti sovversivi. Qui e non nelle paranoiche ricostruzioni della sinistra vanno situate le origini del berlusconismo, che Bifo anticipava già a metà degli anni ’80.

Analogamente il thatcherismo, il reaganismo e l’affamata bestia neoliberale sono la risposta all’insorgenza proletaria: “Gli operai chiedevano libertà dalla regolazione capitalista, e poi il capitale ha fatto la stessa cosa, ma in maniera rovesciata”. Il grido “precario è bello” con cui si rompevano le catene della fabbrica, è stato stravolto nel lamento “precario è sfigato” che è diventato il leitmotiv dei nostri giorni. Negli anni ’90 Bifo si concentra sulla mutazione: della tecnologia, della percezione, dell’esperienza, del tempo. Insomma, mutazione antropologica. Accetta la sfida di attraversare il deserto, si fa accompagnare nei tecno-abissi dal cyberpunk, si immerge con coraggio nei territori delle psicopatologie prodotte dal capitalismo, si impegna in un estenuante corpo a corpo con i virus inoculati dalla merce comunicazione nel cervello sociale.

Dalla profondità di queste altezze pone la domanda: bisogna resistere alla mutazione? No, risponde: “dobbiamo vivere la mutazione secondo un’intenzione libertaria”. Concordiamo con la critica di un’idea meramente reattiva della resistenza, basata sulla riproduzione di una micro-identità debole. Vorremmo problematizzare l’idea opposta, che rischia di farci ricadere in una narrazione storicista e teleologica. Dobbiamo cioè evitare di pensare la tendenza in termini di ineluttabilità, per ripensarla in termini di campo di tensioni, conflitti e forze antagoniste, di potenzialità. È proprio una delle straordinarie definizioni che Bifo ci dà dell’autonomia, ossia “l’espandersi del possibile e il recedere del necessario”.

Sullo stesso crinale emerge un rapporto di doppiezza rispetto a sviluppo e scienza. In fasi differenti le ipotesi di Franco sono legate alla separazione tra sviluppo e capitale, alla pratica di un uso operaio della scienza. Talvolta si rischia quasi una visione neutrale della scienza e dello sviluppo, subito produttivamente contraddetta dallo stesso Bifo (si veda in particolare gli scritti degli anni ’00, quelli in cui è incipiente il segno della crisi o secondo lui del collasso sistemico). Forse su questo terreno dobbiamo essere tutti un po’ “bifidi”, muoverci sul filo della doppiezza, parlare con lingua biforcuta, immergerci nell’ambivalenza con un punto di vista irriducibilmente autonomo.

Qui si apre e certo non si risolve il problema della liberazione collettiva. A più riprese e con sempre maggiore insistenza Bifo denuncia l’insufficienza di una semplice dialettica contrappositiva. E tuttavia, ci sembra che il capitalismo contemporaneo ci abbia mostrato come una strategia di sottrazione e secessione priva di una capacità di rottura sia consegnata alla marginalità e alla sussunzione (laddove la realtà del primo termine implica l’inevitabilità del secondo). Per noi la sfida è un Vladimiro e l’altro Vladimiro, non un Vladimiro o l’altro Vladimiro. Come ripensare oggi “scismogenesi” e rottura della macchina? Ci pare una questione ineludibile, per continuare a lottare contro il lavoro per i prossimi quarant’anni almeno.

 

* La recensione è pubblicata anche su Alfabeta2.