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Tape Mark I (re-enactment)

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Una lettura di Elvira Vannini a partire da un esperimento letterario di Nanni Balestrini

“Nei primi anni Sessanta, anche se non esisteva ancora il digitale, si sperimentavano le prime tecnologie elettroniche. A Milano c’era lo Studio di Fonologia della RAI, dove i musicisti producevano la prima musica elettronica. Ci operavano Bruno Madera, Luciano Berio e Luigi Nono con cui collaboravo. Nel 1961 ho realizzato la prima poesia con un calcolatore elettronico. L’IBM mi aveva messo a disposizione un ingegnere con il quale preparammo un programma che combinava una serie di versi secondo alcune semplici regole che venivano comunicate alla macchina con le schede perforate che si usavano allora. E in poco tempo il calcolatore produsse un grandissimo numero di poesie, tutte diverse combinazioni di quei versi. La cosa fece scandalo: in che modo una cosa sublime come la poesia poteva essere creata da una macchina (che in verità non crea niente, esegue solo passivamente delle istruzioni)? L’interesse dell’esperimento è nella velocità con cui le combinazioni si compiono, e nei risultati imprevisti e casuali che si ottengono”.

Tape Mark I è una “poesia combinatoria composta con l’ausilio di un calcolatore elettronico IBM (così allora veniva chiamato il computer)” nel 1961 da Nanni Balestrini, pubblicata insieme a un articolo esplicativo apparso nell’Almanacco Letterario Bompiani nel 1962; il numero dei risultati e delle associazioni possibili era ampissimo, quindi quella che apparve come una piccola serie di varianti, di uno dei primissimi testi (certamente il primo in Italia) di scrittura poetica combinatoria e computeristica, costituiva un campione sufficiente a mostrare il senso dell’operazione, in cui una serie di frammenti di frasi venivano montate in successione, fino a formare sequenze di versi, seguendo semplici regole trasformate in un algoritmo che guidava il lavoro della macchina, capace di effettuare concatenazioni di diversi elementi linguistici secondo un programma prestabilito. Tape Mark I non è una poesia lineare, nè di facile lettura, le parole si mescolano in un flusso narrativo asintattico e polisemico, ad alto grado di figuralità, con accumuli di versi spezzati che stravolgono i normali rapporti di causa e tempo, in un riuso linguistico di lacerti e citazioni, collage testuali e frammenti di varia provenienza letteraria, configurati in un “meccanismo puramente verbale” e aleatorio, di completa autonomia del significante.

“Arrivati a Balestrini non basta essere preparati a una violazione radicale del codice. Occorre, a intendere il suo lavoro, rendersi conto che ci si trova di fronte a un codice totalmente nuovo”. Una poesia priva di soggetto: la messa al lavoro del processo creativo attraverso un sistema meccanico e tecnologico, oltre che programmatico, è connessa alla posizione dell’intellettuale calato nella realtà industriale. La scrittura non è l’esito dell’affermazione di un’istanza autoriale ma tende piuttosto alla sparizione del soggetto, alla riduzione della sua presenza: “non c’è nessun linguaggio ma un processo di ricombinazione. Non c’è nessun soggetto ma un effetto di soggettività”. In generale rispetto alla produzione di questi anni il funzionamento strutturale del segno linguistico, che conserva ancora una base semantica, ossia assolve alla sua funzione di rappresentazione, si colloca radicalmente in una dimensione extra-soggettiva ed extra-estetica, che fa della poesia un’arte della ricombinazione e non dell’espressione.

Oggi Tape Mark I è stato ricostruito e riprodotto in un moderno computer, esposto in occasione dell’ampia mostra retrospettiva che all’inizio del 2017 lo ZKM di Karlsruhe ha dedicato a Nanni Balestrini, significativamente intitolata For anyone reading ths there is nothing left to fear, dove un piccolo box/TV di legno (oggetto realizzato da Emiliano Russo del MIAI, Gabriele Zaverio del MusIF e da Vittorio Bellanich) riproduce su un tubo catodico in bianco e nero le poesie generate dal software.

Il programma è stato elaborato da Emiliano “fanfani” Russo del MIAI nell’autunno e segue fedelmente le 4 regole di combinazione definite da Balestrini nel 1961; “tutti i dettagli di implementazione, dal diagramma di flusso in poi, sono strettamente legati all’hardware ed al funzionamento dell’IBM 7070”.

Come raccontano gli ideatori del re-enactment, l’impossibilità di reperire i materiali originali (tabulati, schede perforate, nastri magnetici, immagini di archivio) presso gli Archivi di Bompiani e IBM non ha costituito un impedimento e il coinvolgimento diretto di Balestrini (grazie alla mediazione di Franco Piperno) ha posto alcune interessanti questioni (“qual e’ l’opera? L’evento del 1961? Il software originale? La poesia scelta da metri e metri di tabulato? L’intero tabulato? Le 4 regole combinatorie e i dati di partenza? Tutto questo insieme?”) rispetto al dogma della riproducibilità nei linguaggi visivi, performativi e sonori, chiarite in questa video-intervista (realizzata da Federico Bonelli, MusIF/Dyne.org) in cui il poeta ricorda le vicende storiche e le criticità usando la metafora di uno spettacolo teatrale, dove il copione è il programma informatico, l’evento del 1961 la prima esecuzione scenica, quindi ripetibile ogni volta senza per questo inficiarne l’autorialità.

In fondo, sottolinea Balestrini nello stesso video, fare poesia col calcolatore sfruttandone le capacità combinatorie, era un’operazione che aveva delle ragioni strutturali, oltre che storiche: dalle parole in libertà futuriste, in cui la causualità e l’elemento aleatorio rompevano la sintassi generando significati inusuali, o la poesia dada e surrealista, nell’accostamento apparentemente illogico di lettere e parole rifiutando tutti i valori costituiti a cominciare dall’arte – che si produce, se e quando si produce, secondo le leggi del caso – fino al celebre esperimento di Tristan Tzara e la tecnica di scrittura rovesciata per la poesia (versi e parole ritagliati, mescolati in una borsetta ed estratti per comporre una poesia dadaista). Nel 1985 si tenne al Centre Pompidou la mostra Les Immatériaux, in cui gli elementi discreti – onde elettriche, sonore e luminose, corpuscoli invisibili, elementari – con cui l’ideatore Jean-François Lyotard afferrava le inquietudini ineffabili del proprio tempo, sono flussi discontinui in una struttura instabile di interazione che problematizzano i concetti di spazio e di tempo. Tra le varie declinazioni dell’immateriale, sostenute dal filosofo: la luce, l’energia, i calcolatori elettronici, i processi di proliferazione naturale, le immagini al microscopio di fibre chimiche, i dati e le analisi di mercato come movimenti invisibili di merci e denaro, dentro una macchina espositiva che metteva in scena il disorientamento della condizione postmoderna in una sorta di archeologia delle sperimentazioni hi-tech. Balestrini fu invitato con altri letterati e scrittori a un tentativo di scrittura sommatoria e collettiva in rete, poi visualizzata graficamente nella seconda parte del catalogo Epreuves d’ecriture.

Tape Mark I costituisce ancora oggi una esplorazione estrema del mezzo, la “creazione di strutture testuali con l’assemblaggio meccanico di spezzoni di tessuto linguistico (Sanguineti parla di una “poesia ex machina” a proposito degli esperimenti di poesia elettronica). Se Giuliani evoca, in una prospettiva artistica autonoma, i collages di Schwitters, Sanguineti, in Ideologia e linguaggio, evidenzia l’eteronomia balestriniana: l’apertura del testo viene infatti situata nell’accidente formale (performativo), calcolata proposta in un universo formato da infinite potenziali possibilità e combinazioni”. La funzione intra-verbale della parole e i suoi significati, si muove dentro al nostro sistema linguistico, ma le micro-sequenze narrative non sono prodotte da nessun autore, se non quello meccanico-tecnologico dell’elaboratore di dati elettronico (o come disse Umberto Eco: «Balestrini si presenta come lo scrittore più pigro che sia mai esistito, perché si potrebbe dire – esagerando un poco – che di suo non ha mai scritto una sola parola e ha soltanto ricomposto brandelli di testi altrui»). Seguiranno il primo romanzo multiplo in copia unica» Tristano (1967) e Tristanoil, «il film più lungo del mondo» (di oltre 2.400 ore) generato attraverso un computer che riassembla configurazioni potenzialmente infinite, presentato nel 2012 alla kermesse internazionale dOCUMENTA (13) di Kassel. Un approccio che, come vedremo più avanti, si rivela di grande anticipazione, come tutta la sua straordinaria attività intellettuale, di proliferazione della moltitudine, delle soggettività contemporanee (oltre che del proprio sfruttamento), nell’indisponibilità alla mediazione intellettuale, nell’emersione di una prospettiva conflittuale dentro i binari del paradigma artistico di opere ed enunciati collettivi, senza però riconoscersi nella prassi creativa dell’istituzione artistico-culturale né tantomeno nella matrice rappresentativa e predicatoria dei contributi politici:

«La proletarizzazione del lavoro intellettuale apre la prospettiva dell’uso operaio della tecnologia. Lo sviluppo capitalistico raggiunge il suo limite, e la contraddizione tra produzione di valore d’uso e valorizzazione si rivela in tutta la sua pienezza. Per il potere la cultura deve funzionare come mediazione tra gli interessi della società capitalistica e gli interessi dello strato intellettuale, ma deve cercare di realizzare questa funzione in modo complesso. Ma ormai la mistificazione dell’indipendenza della cultura dal processo produttivo è messa in crisi dalla stessa massificazione di questa figura sociale. Il movimento operaio ha pensato che l’aggregazione degli intellettuali avesse la forma della mediazione culturale (Gramsci), oppure la forma di un’adesione volontaristica al partito (Lenin). Queste ipotesi sono superate nel momento in cui il lavoro intellettuale entra a far parte della composizione sociale del lavoro produttivo»

“I testi di Balestrini praticano una violenta oggettivazione della parola”, appropriandosi di una procedura fondata sul remix, sul cut-up, sul collage, al fine di ricostruire uno sguardo che sia al contempo personale e collettivo; come scrittore e artista assume una metodologia che può essere chiamata “ricombinazione”, in quanto preleva e ricombina frammenti preesistenti e di natura disparata tratti dal discorso pubblico in corso (notizie estrapolate dai giornali, volantini, pubblicità, voci di strada, discorsi politici, testi scientifici e tecnicni di vario genere e registro narrativo). Dai suoi assemblaggi testuali e visuali iniziati con i primi Cronogrammi nel 1963, questa pratica è poi trasposta anche su un’ampia parte della sua produzione letteraria. Il collage, nelle arti visive, produce una frattura linguistica e concettuale, il cui layout, l’estetica dello slogan, la composizione grafica, la parola-oggetto e le sue implicazioni semantiche riposizionano la natura retorica e mendace della comunicazione mediale e dei fatti di cronaca, con un risultato visivamente violento, che esprime tutta la rabbia, l’incertezza e l’utopia di un’epoca di lotte sociali: Potere operaio, Sì alla violenza operaia.

“Sulle barricate c’erano delle bandiere rosse e su una c’era un cartello con si scritto: Cosa vogliamo? Vogliamo tutto”. Anche negli esperimenti letterari, come accade ne La violenza illustrata (1976), Balestrini sceglie un “protagonista corale”, un individuo singolo la cui espressione assume una postura plurale. è questo il criterio compositivo che si ritrova nel romanzo Vogliamo tutto (1971) che ha per protagonista un operaio della Fiat migrato in cerca di fortuna dall’Italia Meridionale, la cui voce collettiva è trascritta da Balestrini come se fosse un documento politico, la cronaca di una conflittualità operaia e sociale, nel corso dell’autunno caldo delle lotte alla FIAT, raccontate attraverso un nuovo soggetto politico, l’operaio-massa, che è parte di un’organizzazione antagonista e della sua storia.

“Le politiche della letteratura non sono le politiche dei suoi scrittori. Non si occupano del loro impegno personale nei confronti delle questioni sociali e politiche e delle lotte del prprio tempo. Non si tratta né dei modi di rappresentazione degli eventi politici, né della struttura sociale e delle lotte sociali nei loro libri o discorsi. Il sintagma “politiche della letteratura” significa che la letteratura «fa» politica come letteratura in sé – che c’è uno specifico legame tra la politica come modo definito di fare e la letteratura come pratica definita di scrittura e di parola”.

Così, fin dagli esordi letterari accompagnanti dalle eccedenze linguistiche della neoavanguardia letteraria – dai Novissimi all’esperienza nel Gruppo 63 di tendenza marxista e strutturalista – Balestrini manifesta la propria criticità nei confronti dei codici della letteratura dominante ma certo è che nei suoi romanzi successivi, da Vogliamo tutto (1970) a La violenza illustrata (1976), Le Ballate della signorina Richmond (1977), Blackout (1980), da Gli invisibili (1987) a L’editore (1989), da I furiosi (1994) a Una mattina ci siam svegliati (1995), a Carbonia eravamo tutti comunisti (2012), si è riappropriato di un forte rapporto con la realtà, senza abbandonare tuttavia lo sperimentalismo, in cui scrittura e azione politica sono inestricabili. In mezzo c’è stato il ‘68.

“C’era il Maggio francese, io ero già andato a Parigi più volte in quel periodo – racconta Balestrini in una intervista su Flash Art -. Quando a La Tartaruga ci fu il progetto intitolato ‘Teatro delle Mostre’ ero là per raccogliere materiale per la rivista di cui mi occupavo, Quindici. Plinio De Martiis mi aveva chiesto di ideare qualcosa per il “Teatro delle Mostre”, e vedendo gli slogan della contestazione scritti sui muri della Sorbona avevo pensato di trasferirli sulle pareti della galleria. Tornai a Roma in aereo all’ultimo momento il giorno dell’inaugurazione e dall’aeroporto dettai per telefono le prime frasi tradotte per farle scrivere sui muri della galleria”.

Il Teatro delle mostre si tenne nel mese di maggio dal 6 al 31, alla galleria romana “La Tartaruga”. Ciascuno degli artisti invitati, non solo artisti visivi ma anche scrittori e musicisti, esponeva per un solo giorno in una dimensione di contingenza vicina all’happening. Plinio de Martiis, l’ideatore del format espositivo, voleva riportare il teatro in galleria, ma la concezione di teatro, non era legata alla spettacolarità delle opere quanto al loro carattere preminente di azioni, nonchè alla trovata della successione scenica degli artisti-attori. Così in pieno clima di contestazione Nanni Balestrini, di ritorno da Parigi, dettò telefonicamente i primi slogan delle lotte studentesche durante il maggio francese che avevano gettato il germe della soggettivazione politica (da cui il titolo dell’azione I muri della Sorbona, tra le scritte: “L’immaginazione prende il potere”, “É proibito proibire”, “La più bella scultura è il pavé”, “Dire sempre di NO per principio”, etc.) che venivano riportate e ripetute con i gessetti colorati nelle pareti dello spazio espositivo da Alfredo Giuliani, Cesare Milanese, Giulia Niccolai e Achille Bonito Oliva (che si era occupato delle schede critiche degli artisti in catalogo). Poi giunse direttamente Balestrini dall’areoporto e completò la trascrizione. Questa azione non è stata la rappresentazione di una manifestazione ma il montaggio straniante e decontestualizzato in una pittura murale delle scritte della rivolta. Maurizio Calvesi, curatore della mostra affermava nel saggiointroduttivo: “Impassibilmente distaccata (una pura operazione di riporto), ma ostentatamente ideologica l’operazione di Balestrini, che trasferendo le scritte della Sorbona occupata sui muri della galleria ne ha verificato, tra l’altro, il parziale spaesamento, riproponendosi il rapporto strutturale tra parola e medium. Balestrini èriuscito a inserirsi nel solco della comuneesperienza figurativa, visualizzando le parole, sfruttando, in sostanza, ad un livello non più formalistico bensì esistenziale, risolto in un gesto, le risorse a lui ben note della poesia visiva. La scrittura inneggiante a “l’immaginazione al potere” forniva del resto, in termini marcusiani, la chiave di volta del nuovo sodalizio tra estetica e ideologia”.

Come ha acutamente scritto Bifo nella recente prefazione alla traduzione inglese di Blakout definendo Balestrini come il poeta più radicalmente formalista della scena italiana e il più esplicitamente impegnato in un senso politico: “Fin dagli anni Sessanta la cultura italiana è stata attraversata dal fuoco freddo di un certo tipo di sperimentalismo chiamato Neoavanguardia, per distinguere quel movimento dall’avanguardia storica che nel primo decennio del secolo bruciava con un fuoco passionale, aggressivo e distruttivo. Umberto Eco, Edoardo Sanguinetti, Alberto Arbasino e molti altri erano coinvolti nella Neoavanguardia, il cui stile era basato su un elegante gioco di citazioni, ammiccando e suggerendo. Poi, dal suo fuoco freddo emerse il volto angelico e diabolico di Nanni Balestrini, dalla sua testa fredda e il cuore caldo. O, contrariamente, il cuore freddo e la testa calda, chissà. [...] Comunque, Balestrini riuscì a mantenere uno stile sperimentale freddo mentre si occupava di soggetti molto caldi e oggetti verbali. […] Balestrini è stato testimone letterario nel teatro del conflitto sociale, ma contemporaneamente è stato un attore sul palco. Tuttavia è riuscito ad essere ironico e lontano, pur essendo coinvolto nel corpo e nell’anima. Ecco perché il suo sguardo letterario è sia complice che distaccato”.

«Cosa importa chi parla?»: è il punto di partenza della conferenza intitolata Che cos’è un autore? pronunciata nel 1969 davanti alla Société Française de Philosophie da Michel Foucault che teorizzava così una collocazione della funzione-autore non nell’individuo parlante che ha pronunciato o scritto un testo o un enunciato, ma l’autore come principio di raggruppamento dei discorsi, come unità ed origine dei loro significati.

Come non avvicinare a quest’analisi la decentralizzazione del soggetto (che accomuna Balestrini ad altre figure radicali del sistema dell’arte italiano, da Piero Gilardi a Carla Lonzi, per fare due esempi)? Non semplicemente il paradigma della sparizione dell’autore che si dissolve in una funzione collettiva rispetto alle assegnazioni delle gerarchie del potere, ma l’autore come fondatore di discorsività, o moltiplicatore di discorsi, in cui la pluralità delle fenomenizzazioni della letteratura, la comunicazione, il linguaggio e l’informazione, soprattutto nell’opera e nella vita di Balestrini, si rivelano terreno di scontro sociale.

Il libro come agente di enunciazione collettiva pone la questione del linguaggio in un processo di deterritorializzazione in cui l’uso della lingua è voce dell’impegno rivoluzionario attraverso rivisitazioni e cut-up letterari sperimentati nei linguaggi visivi. Nell’avanguardia letteraria di Balestrini il linguaggio è esperienza diretta e immagine della lotta e della violenza, in un controcanto composto di discorsi reali, proclami e slogan.

“Dopo il ‘68, dopo la fine dello sperimentalismo italiano, trova spazio una tendenza che i critici hanno definito ‘letteratura selvaggia’. E’ stata un’esperienza di spiazzamento del luogo stesso della scrittura: testi di operai, carcerati, donne […] il soggetto collettivo scrive nella storia reale contro l’ordine costituito delle cose. L’interruzione del flusso razionale del processo produttivo di merci, della valorizzazione è il modo in cui il soggetto collettivo scrive […] ma il soggetto collettivo scrive, oltre che nella sua pratica complessiva di deterritorializzazione pratica, anche sul terreno specifico della comunicazione, della produzione di testi. […] Nei testi del movimento è un soggetto collettivo che parla: non c’è un soggetto esterno al mondo, lo scrittore, intento a osservare un oggetto nuovo, il proletario in lotta, dal luogo dell’istituzione letteraria democratizzata. Il soggetto che entra nelle forme di comunicazione dominanti, le interrompe ironicamente, le riduce ad essere – loro – oggetto, le osserva inerti, disarticolate, ridotte a segni deconcettualizzati”.

Così, oltre dieci anni più tardi, per Guattari era subito chiara la grande novità che uno strumento di comunicazione come la radio veniva ad assumere all’interno del movimento. “La guerriglia dell’informazione, il ribaltamento organizzato della circolazione delle informazioni, la rottura del rapporto tra emissione e circolazione dei dati… si situa all’interno della lotta generale contro l’organizzazione e il controllo del lavoro.”

Tanto Radio Alice che la rivista “A/traverso” diventeranno laboratori per l’emersione di un nuovo linguaggio in grado di promuovere nuovi rapporti fra classi sociali e rapporti di produzione per cui il lavoro intellettuale non si pone più all’esterno o al servizio del movimento ma all’interno.

Quello di Balestrini resterà sempre un soggetto collettivo, allo stesso modo per cui “i testi prodotti dal movimento non sono da vedere nè come prodotti dell’istituzione letteraria, nè come un contributo politico predicatorio [...] Non si tratta di mettere gli intellettuali al servizio del popolo: qui gli intellettuali (istituzione letteraria), là il popolo (la politica) [...] Nei testi del movimento è un soggetto collettivo che parla: non c’è un soggetto esterno al mondo”.

«Occupazione senza soggetto. Movimento senza soggetto. Composizione asoggettiva. Gli attuali movimenti di occupazione sono caratterizzati dal loro fare a meno di qualsiasi soggetto» – riflettendo sul microfono umano Gerald Raunig descrive così le giornate di Occupy a Zuccotti Park: «Nessuna unità, nessuna totalità, nessuna classe identificabile. Le teorie classiche della rivoluzione vedrebbero tutto questo come un problema, dato che il soggetto (rivoluzionario) è la condizione per la possibilità della rivolta, dell’insorgenza, della rivoluzione, come una componente imprescindibile di una teoria a stadi: soltanto quando appare all’orizzonte un soggetto uniforme, un blocco molare, la classe operaia, un fronte unito, solo allora – guardando alle cose da questa prospettiva – la rivoluzione può avere inizio. Eppure, l’assenza del soggetto non deve essere interpretata come una mancanza. Al contrario, potrebbe indicare una nuova qualità nella rivoluzione, una rivoluzione d’ora in poi molecolare, e un primato della molteplicità al suo interno. Quando il soggetto non c’è, non è un difetto, come uno spazio vuoto (ancora) da riempire, che supplica di essere colmato. Dal punto di vista della composizione della rivoluzione molecolare non c’è l’esigenza di unità, o della rappresentazione di un soggetto (di classe) unificato dai leader, dal partito e dall’avanguardia». La frammentazione del soggetto appare in tutto il suo fervido potenziale: «In verità» prosegue Raunig, citando Deleuze e Guattari «non è abbastanza dire ‘Viva la moltitudine’ […]. La moltitudine va creata».

Non era stata una straordinaria anticipazione, quella di Balestrini di questo processo dissoluzione dell’uomo/soggetto/autore verso l’intellettualità di massa? L’espressione (o meglio la ricombinazione) estetica, linguistica e creativa può essere svincolata dai rapporti materiali di produzione? In questo principio di rinuncia, da parte dello scrittore, a rivestire il ruolo dell’artista-creatore isolato, a favore di dinamiche moltitudinarie e plurali, pensiamo ancora a Vogliamo Tutto (1971) in cui Balestrini rinuncia all’autoralità, se non quella del ‘montatore’ di un collage testuale composto dalle rivendicazioni, dalle parole e dai desideri collettivi che muovono gli operai stessi. E se, come ormai ampiamente sostenuto, nell’età del lavoro cognitivo “l’attività artistica è completamente integrata alla valorizzazione capitalistica”, queste operazioni di Balestrini (da Tape Mark I, ai I muri della Sorbona, agli esperimenti letterari e gli assemblaggi verbo-visuali) dimostrano, al contrario, come i mezzi di produzione non sempre intaccano quelle stesse azioni artistiche, o almeno le sue libertà.