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Rivoltarsi alla Storia

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Gigi Roggero recensisce “Non esiste la rivoluzione infelice di Marcello Tarì

Bisogna sempre diffidare di un libro di cui tutti parlano bene. Se uno dice cose che sono gradite a tutti, è perché non ha niente da dire. Bisogna soprattutto diffidare del suo autore, in particolare se dice di essere un intellettuale militante (e già che ci siete, fate che diffidare a priori della categoria di intellettuale militante). Il pensiero rivoluzionario è infatti sempre divisivo: non si parla e si scrive per piacere a tutti, si parla e si scrive per separare gli amici dai nemici, per rischiare un passaggio o un salto in avanti, per spaccare le dannose compatibilità, anche quelle interne alla propria parte. La lingua dell’uomo è una tromba di sedizione, avvertiva Hobbes. La lingua del militante annuncia la guerra, non la pace.

È questa attitudine offensiva che rende per noi utile e apprezzabile il libro di Marcello Tarì Non esiste la rivoluzione infelice (DeriveApprodi, primavera 2017, pp. 238). Del volume condividiamo gli obiettivi polemici e lo spirito che lo muove. È tanto, politicamente buona parte dell’essenziale. La parola spirito, sia detto per inciso, non la usiamo in modo generico. È lo spirito di cui parla Tronti, insieme a Benjamin il riferimento principale del testo. È la costruzione di una fortezza soggettiva inespugnabile per il nemico, è la necessità di essere in pace con se stessi per andare in guerra con il mondo. Niente di spiritualista, per come è venduto nel mercato della religiosità postmoderna. Va inteso piuttosto in senso nietzscheano, è la vita che taglia nella propria carne, è l’incudine che nel patire accresce il sapere. E non ci si stupisca, leggendo il libro, dell’uso di termini e figure che appartengono alla tradizione religiosa: la teologia politica ha prodotto il vocabolario della politica moderna, se non si contro-utilizza consapevolmente la tradizione se ne viene inconsapevolmente utilizzati.

Il programma del libro è contenuto nel suo sottotitolo: il comunismo della destituzione. Per immaginare una teoria della destituzione Tarì usa frammenti e filoni diversi, da Benjamin al Colectivo Situaciones, da Jesi ad Agamben. Questa teoria è però incarnata in comportamenti concreti, anzi prende le mosse dal postulato secondo cui “tutte le rivolte e le insurrezioni occorse negli ultimi anni sono state rivolte e insurrezioni destituenti”. Nei tanti esempi citati, dall’insorgenza argentina del 2001 alle lotte in Francia contro la Loi Travail, l’autore tenta di intravedere tracce e sintomi non di un modello da seguire e riprodurre, bensì di un possibile paradigma, cioè un’irruzione di verità situata. A partire da qui Tarì chiarisce cosa si intende per potenza destituente, opposta in modo risoluto e non dialettico al potere costituente. La potenza può essere solo destituente, il potere solo costituente. Non si tratta cioè di una fase temporanea, sospesa tra il non più del vecchio potere costituito e il non ancora di un nuovo potere costituente. È, invece, proprio l’interruzione dell’immaginato continuum tra non più e non ancora, uno squarcio nella Storia che condensa e apre un divenire altro.

È infatti la Storia – seguendo Benjamin e Tronti – il nemico: la Storia dello storicismo, la Storia degli stadi di sviluppo, la Storia del progressismo, che è un altro modo per dire sinistra. Vivere contro il presente, contro il tempo in cui siamo situati, contro la Storia: qui va colto il divenire rivoluzionario. Il punto è dunque cercare il punto di rottura nella dialettica tra lotte e sviluppo, impedire che diventi un gioco a somma zero, un destino a cui non si sfugge. Va definitivamente abbandonata ogni filosofia della storia, la sua implicita teleologia che ha impregnato e ancora impregna tanto pensiero marxista e sedicente radicale. È l’interruzione della Storia e non la sua velocizzazione il terreno rivoluzionario, perché – leggiamo – dove il capitale accelera la rivoluzione rallenta, e viceversa. La nefasta utopia accelerazionista è invece parte di quello che viene chiamato il “modello apocalittico” del capitalismo: non il segno della sua crisi mortale, ma al contrario della sua “infernale vitalità macchinica”. La destituzione assume varie strade, può perfino degenerare (come la rivoluzione, del resto): dalla depressione al suicidio, Tarì elenca dei percorsi destituenti che si risolvono nelle patologie dell’io perché non incontrano la costruzione di un noi. Allora, attraverso le tracce benjaminiane si tratteggia l’idealtipo di uno sciopero destituente in alternativa a uno sciopero politico, l’accumulo di forza contro l’accumulo di rivendicazioni. Per quanto si potrebbe obiettare, o forse è sufficiente precisare, che le rivendicazioni spesso aprono la strada all’affermazione della forza: il punto è se sono un mezzo o un fine, se cioè si assume la lotta sull’interesse particolare come apertura di un processo che eccede se stesso nella misura in cui si forma una contro-soggettività che mette in discussione la soggettività formata dal rapporto di capitale. D’altro canto, in quel grido “destituire tutto ciò che si è” risuona il gesto originario dell’operaismo, la ricerca di un soggetto che lotta per abolire se stesso.

In questa direzione, guardando ai movimenti e alle esplosioni degli ultimi anni, l’autore pone fin dall’inizio un doppio problema. Il primo è come fare in modo che quella potenza non si chiuda mai, che non venga cioè catturata nella forma del governo. Il secondo è come trasformare la rivolta in insurrezione, e questa in rivoluzione. La risposta alla prima domanda è la comune, “aspetto costruttivo, inseparabile da quello distruttivo, con il quale si mostra adesso la potenza destituente”. L’origine è la meta, la distruzione del presente si accompagna all’exit dalla sua gabbia: non si può praticare alcuna politica dei due tempi, perché entrambi vivono su un unico piano di consistenza. Per dare una risposta alla seconda domanda, Tarì riprende la distinzione di Jesi tra il tempo della rivolta, il qui e ora, e il tempo della rivoluzione, il futuro. Attaccando il futuro, l’autore cerca di riportare al qui e ora il problema della rivoluzione e del suo rapporto con l’insurrezione. Rovesciando la sequenza tradizionale, pone la rivoluzione nell’ambito della tattica e la rivolta in quello della strategia.

Ci pare che intervengano qui almeno tre ordini di problemi, da intendere come materia di dibattito politico e non di mere osservazioni teoriche. Il primo riguarda la necessità di sottrarre la potenza del qui e ora alla folgorazione della teoria dell’evento e alle illusioni cooperativistiche sull’esodo, dare quindi a quella potenza profondità genealogica e apertura prospettica. Tarì precisa, correttamente, che non è possibile pensare a comodi ripari nel deserto del presente. E tuttavia abbiamo l’impressione che non sia ancora sufficiente: dall’Egitto non si fugge, l’Egitto bisogna distruggerlo. Il faraone del capitale non è un parassita che sopravvive solo grazie alle sue truppe. L’Egitto contemporaneo è una straordinaria macchina di produzione: di potere, di desideri, di bisogni, di soggettività. Se non si attaccano i livelli alti, quelli dell’accumulazione di dominio e capitale, è illusorio pensare a vie di fuga attraverso gli interstizi e i livelli bassi.

Il secondo ordine di problemi ha a che fare con la temporalità. Il rapporto tra militanza e forme di vita è affrontato a più riprese dall’autore in pagine di estremo interesse (per esempio in quelle sulla rivoluzione del ’17). Se è condivisibile l’offensiva alla dittatura del futuro, a quel carico normativo che nella tradizione socialcomunista è servito per sacrificare le lotte e la potenza del presente, andrebbe al contempo osservato come oggi il “just for one day” sia continuamente mangiato dal fuoco fatuo del nichilismo del consumo. Andrebbe cioè evitata una certa idea di irreversibilità della destituzione, una sorta di punto di non ritorno da cui comincia la “vera vita”. Per farlo, dobbiamo distinguere in modo radicale, ancor più contrapporre la dittatura del futuro dalla costruzione di tendenza e prospettiva, la religione del progresso dalla materialità del processo, che è fatto di accumulo e di salti, di continuità e di interruzioni. Mentre futuro e progresso appartengono alla Storia, prospettiva, tendenza e processo appartengono al qui e ora che siamo in grado di rompere e conquistare, a una linea di possibilità di minoranza antagonista ad altre linee di possibilità maggioritarie. Del resto a ciò fanno riferimento i termini prima evocati di tattica e strategia, e più in generale l’arte della guerra.

Vi è, infine, l’annosa questione del soggetto e della soggettività. In alcuni passaggi ci sembra che si corra il rischio di liquidare il materialismo storico insieme allo storicismo, la classe insieme alla sua riduzione economicista. O per dirla in altri termini: a partire dalla corretta premessa di mettere in discussione la presunta oggettività tecnico-economica del soggetto, si arriva alla problematica conclusione di ignorare la sua materialità storicamente determinata. Pensando alle lotte cosiddette territoriali, a ragione Tarì sostiene che il territorio non preesiste al processo di lotta che lo costituisce in quanto tale. Ciò dal nostro punto di vista non porta all’abolizione del soggetto, o del contro-soggetto per usare le categorie alquatiane, ma al problema della sua rottura e trasformazione rispetto all’essere attore della trama sistemica, ossia ciò che preesiste al processo di lotta. Non ci inventiamo nulla: è ancora Tronti che ha dimostrato, una volta per tutte, che non c’è classe senza lotta di classe.

Cionondimeno, lungo tutto il testo, pienamente condivisibile è la tensione continua alla destituzione dell’io celebrato dal pensiero anarco-liberale (“bisogna farla finita per sempre con l’infantilismo anarchicheggiante che ancora predica le virtù taumaturgiche dell’individuo moderno”) e alla ricerca di un noi collettivo da costruire interrompendo la Storia. Sarà bene precisare, infatti, che il discorso di Tarì non vuole abolire il problema dell’organizzazione: tenta invece di collocarlo su un nuovo piano di consistenza. Si può parzialmente divergere dagli esiti, si deve sicuramente essere concordi nell’esigenza di farlo. Ritenere questa ricerca interamente aperta è uno dei più importanti meriti di un libro che è molto più di un libro: è un ragionamento collettivo a voce alta, da sviluppare insieme a chi pensa che la rivoluzione sia la questione centrale delle nostre vite. Perché un rivoluzionario felice di gestire il proprio miserabile presente, semplicemente non è un rivoluzionario.