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Banche e ceto medio: crisi di un modello di riproduzione

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Articolo di Antonio Alia sulla crisi bancaria e l'esaurimento del ceto medio

A meno di due anni di distanza dalla risoluzione di Banca Etruria, Banca Marche, Carichieti e Cariferrara (22 novembre 2015), che ha comportato l'esproprio di centinaia di migliaia di piccoli risparmiatori, il governo Gentiloni è stato costretto ad intervenire nuovamente in materia bancaria. Nonostante il ricorso al fondo Atlante per 3,5 miliardi di euro (denaro parzialmente pubblico proveniente dalla Cassa Depositi e Prestiti), Banca popolare di Vicenza e Veneto Banca non sono riuscite a risolvere il problema della ricapitalizzazione obbligando il governo a disporne per decreto la liquidazione coatta amministrativa. Il provvedimento – come in molti hanno sottolineato – è un regalo dello Stato al secondo gruppo bancario del paese, ovvero Banca Intesa-San Paolo che alla cifra simbolica di 1euro ha potuto acquistare le “parti buone” dei due istituiti veneti ricevendo inoltre ben 4,8 miliardi di euro di denaro pubblico. Il costo complessivo per le casse dello Stato potrà raggiungere i 17 miliardi di euro se si considerano i 12 miliardi stanziati come garanzia per rischi futuri di varia natura. A fronte di questo esborso lo Stato attraverso la SGA, una società specializzata nel recupero crediti e controllata dal Mef, potrà gestire i crediti deteriorati o inesigibili (le parti cattive) delle due banche venete, le cui previsioni di recupero non sono affatto promettenti. Per farla breve: al privato vanno i profitti, alla collettività tutti i costi.

L'operazione restituisce in maniera esemplare la cifra del rapporto di subordinazione, che lega lo Stato e il Pd ai principali interessi bancari del paese. Il governo Gentiloni-Padoan ha infatti rispettato pedissequamente le condizioni che sono state imposte da Banca Intesa e per assicurarsi che il provvedimento non rischiasse di incontrare intralci in Parlamento lo ha sigillato richiedendo la fiducia.

In perfetta continuità con il precedente decreto salva-banche firmato dal governo Renzi, anche quest’ultimo adottato dal governo Gentiloni colpisce gli obbligazionisti subordinati e gli azionisti i cui risparmi sono stati utilizzati, in ottemperanza delle regole UE, per assorbire le perdite (burden-sharing) dei due istituti veneti. Da un punto di vista tecnico i due interventi hanno caratteristiche differenti così come diverse sono le storie e le condizioni delle banche, tuttavia dal punto di vista che ci interessa, ovvero quello dei soggetti sociali colpiti, gli effetti sono identici. Fino ad oggi la crisi bancaria e le politiche adottate per fronteggiarla hanno privato dei risparmi, totalmente o parzialmente, quasi mezzo milione di famiglie: un terremoto sociale – come dicono i risparmiatori – con cui bisognerà fare i conti a lungo e che ora, con il caso della Banca popolare di Vicenza e di Veneto Banca, colpisce la locomotiva d’Italia mettendo in crisi il sistema di integrazione, se non l’antropologia proprietaria, alimentati dal suo modello di sviluppo.

A differenza della rappresentazione che viene offerta dai media, all'origine della crisi bancaria non c'è né l’avidità dei banchieri né la corruzione clientelare del sistema politico-economico. I “cattivi sentimenti” hanno sicuramente avuto un peso nell'aggravarla ma non sono stati determinanti. Come sostiene Silvano Cacciari, il modello di banking a livello continentale sta attraversando una mutazione paragonabile a quella che l'industria ha subito nel cosiddetto passaggio dal fordismo al post-fordismo. Pertanto i fattori all'origine della crisi, a cui bisogna aggiungere l’impatto sui bilanci della crisi economica, sono soprattutto di natura strutturale e in Italia hanno avuto effetti negativi sullo stato patrimoniale, la redditività e il valore azionario.

Con buona pace di Padoan e Visco, il dissesto bancario non è né risolto né passeggero e continuerà ad avere un impatto fortissimo sulle condizioni e le prospettive di vita di ampie fasce di popolazione, quelle che con i propri risparmi e l’acquisto al dettaglio (retail) di bond e azioni hanno consentito al settore di restare a galla. In Italia infatti l’emissione incontrollata di titoli obbligazionari e il collocamento forzato delle azioni, più che una condotta fraudolenta pure presente, sono stati soprattutto una necessità sistemica, che si è aggravata con la crisi del debito sovrano del 2011, per rimediare all’impossibilità di ricorrere ai mercati istituzionali del risparmio e per tamponare scompensi patrimoniali.

Di fronte a questi problemi strutturali la critica giustizialista, quella che punta il dito contro la corruzione o le lacune delle Istituzioni di vigilanza, ha il fiato corto perché non coglie che la situazione attuale è prima di tutto la “normale” conseguenza di un modello economico giunto al capolinea, che le Istituzioni non sono grado di regolare e che ora tenta di sopravvivere espropriando ricchezza dal basso e attaccando le condizioni di vita di fasce sociali che fino ad oggi si sono percepite come garantite. Dentro il quadro di compatibilità neo-liberale la crisi bancaria non è risolvibile quindi senza produrre altro impoverimento e senza esercitare nuova predazione di ricchezza. In questo scenario la punizione dei corrotti - non a caso alimentata dai principali mezzi di informazione e, anche se con qualche imbarazzo, da tutta la politica istituzionale – funziona come specchietto per le allodole perché mette alla gogna pochi, anche se colpevoli, capri espiatori per salvare il normale andamento del sistema e proteggerlo da una crisi di legittimazione.

Quanto sta accadendo attorno alle banche ha quindi una portata strategica. Assistiamo all'esplosione delle contraddizioni dell'economia del debito che proprio negli ambienti di “movimento”, con grande lungimiranza, è stata criticamente individuata come una delle fisionomie contemporanee del capitalismo. Se in Spagna questo processo ha assunto la forma specifica della crisi immobiliare, in Italia assume quella dell'attacco al risparmio (welfare familiare). In entrambi i casi il soggetto colpito – tra gli altri – è lo stesso: il ceto medio in crisi di mediazione che in modi contestualmente differenti subisce il tendenziale esaurimento di un modello finanziarizzato di riproduzione. Banche, credito, moneta, debito - come ci ricorda Silvano Cacciari - sono soprattutto dispositivi di regolazione della vita sociale che da questa crisi usciranno radicalmente mutati, con ovvie conseguenze sulle forme della soggettivazione e sui livelli di legittimità e fiducia sistemica.

Davanti a questi processi chi si pone in una prospettiva antagonista non può limitarsi a denunciare la collusione tra Stato e banche né a ripetere lo slogan “save people not bank”. Senza la costruzione di un soggetto collettivo capace di incidere sui rapporti di forza continueremo ad assistere al drenaggio di ricchezza dal basso verso l'alto. D'altronde per quale ragione i padroni dovrebbero fermarsi se il loro progetto di predazione non incontra ostacoli di sorta?

Oggi l'organizzazione di questo potenziale soggetto collettivo, che non è mai già dato né si costruisce nel vuoto pneumatico, deve anche e necessariamente fare i conti con il nodo del ceto medio in crisi di mediazione e quindi, quanto meno in Italia, con la questione della crisi bancaria che è ancora aperta. Nessuno ha la pretesa di annunciare la scoperta di una nuova centralità, nel deserto che ci circonda è forse già molto provare a tracciare una potenziale linea di forza per una possibile ricomposizione di classe.