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Dimenticare il futuro

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Gigi Roggero recensisce “Malinconia di sinistra” di Enzo Traverso

Carmen Castillo è una cineasta, suo marito Miguel Enríquez era il leader del movimento rivoluzionario cileno Mir, assassinato nell’ottobre 1974 dalla polizia del regime di Pinochet. Luogo dell’uccisione è Rue Santa Fe, allora base clandestina del Mir e casa in cui vivevano Carmen, Miguel e altri militanti rivoluzionari. A Rue Santa Fe è dedicato un film di Castillo, uscito nel 2007. Nella seconda parte della pellicola, dopo aver descritto il significato che in quel luogo si è cristallizzato, Castillo racconta la sua idea di acquistare la casa per farne un museo. A farle cambiare idea sono dei giovani militanti cileni, che infrangono quell’immagine malinconica e priva di prospettive che restituisce un contesto apparentemente normalizzato, in cui a dominare erano l’arroganza dei vincitori e la tristezza dei vinti. “Ho capito che questi giovani siamo noi”, sostiene Castillo; capisce cioè che la memoria deve diventare carne viva per la lotta nel presente e non museificazione di un passato non più redimibile.

È questa una delle storie narrate da Enzo Traverso in Malinconia di sinistra (Feltrinelli, 2016). La sinistra di cui parla Traverso è definita in termini “ontologici: i movimenti che, nel corso della storia, si sono battuti per cambiare la società mettendo il principio di uguaglianza al centro dei loro progetti e delle loro lotte”. La sua memoria è “un vasto continente, un prisma nel quale si rifrangono conquiste e sconfitte, mentre la malinconia è un sentimento, uno stato d’animo e un impasto di emozioni”. Si tratta quindi di far emergere una tradizione nascosta, come recita il sottotitolo. Una tradizione seppellita sotto le sue sconfitte e, forse allo stesso modo, sotto le macerie delle sue conquiste. Il 1989, sostiene l’autore, suggella la definitiva sussunzione pubblica nel canone totalitario dell’intera storia del comunismo; ciò ha creato società ossessionate dal passato, divenute preda del nazionalismo.

La malinconia non deve essere elusa o rimossa, ci dice Traverso in una prospettiva chiaramente benjaminiana, oltre che esplicitamente debitrice a Daniel Bensaïd. La malinconia rivoluzionaria volge infatti il proprio sguardo ai vinti, non alle vittime. La differenza è sostanziale: i primi hanno combattuto, i secondi hanno esclusivamente subito, nella silenziosa accettazione di un destino giudicato inevitabile. Koselleck ha affermato la superiorità epistemologica dei vinti nell’interpretare la storia, mentre i vincitori cadono inevitabilmente in una ricostruzione apologetica del passato. Ed è noto che Schmitt si definiva, dal versante reazionario, un vinto che scrive la storia. Non si tratta semplicemente di rendere onore ai vinti, ma di vendicarli e reinventare quella storia per cui hanno combattuto.

Del resto il tipo di malinconia di cui si parla nel libro è sempre esistita, in un complesso e mutevole rapporto tra storia e memoria. La memoria marxista era strategica, orientata verso il futuro. La fine del socialismo ha determinato un collasso tra passato e futuro in una sorta di eterno presente. Ciò ha coinciso con una transizione dall’utopia alla memoria. Al contempo, il venir meno del futuro ha portato i movimenti a reinventare se stessi senza inventare una tradizione, come invece avevano fatto generazioni militanti passate. Si spiega anche così il perché questi movimenti tendano spesso alla “identity politics”, ossia la politica dei frammenti che rivendicano più diritti per gli appartenenti al proprio gruppo sociale o micro-gruppo comunitario. La memoria, chiarisce ancora l’autore, non è riducibile alla commemorazione del passato: serve invece a lottare contro le ingiustizie del presente. La sua assenza è dunque un problema interamente politico: le insurrezioni arabe, sostiene ad esempio Traverso, non avevano un modello del passato e un’immaginazione del futuro. Cosa ne è seguito è cronaca dei nostri giorni.

Non tutte le memoria, allora, sono uguali. La memoria dell’Olocausto ha fagocitato e rimosso la memoria delle lotte. Dalla vendetta dei vinti si è passati alla celebrazione delle vittime. L’ordine costituito ha così rimesso le cose a posto. Traverso suggerisce dunque la necessità di reimmaginare una politica basata su una differente alleanze tra storia e memoria. Per l’azione rivoluzionaria, ci dice, serve un fondamento strategico così come un fondamento affettivo, di cui la malinconia fa parte. C’è poi la malinconia che precipita l’azione e quella che accompagna la riflessione, esse appartengono a momenti e fasi diverse, ma sono legate tra di loro. Nessuna delle due va confusa con la rassegnazione, ed entrambe sono state cancellate dalla centralità assegnata alle vittime. La rivoluzione non va commemorata, ma rimemorata; ovverosia, per riattivare il passato bisogna cambiare il presente.

Per Traverso la malinconia può dunque trasformarsi in un processo attivo, la premessa per un’elaborazione collettiva del lutto che apre la strada verso il conflitto con l’esistente: “i fantasmi che si aggirano oggi per l’Europa non sono le sollevazioni del futuro, ma le rivoluzioni sconfitte del passato”. Nel 18 brumaio Marx afferma che le rivoluzioni proletarie, al contrario di quelle borghesi, non procedono di successo in successo, ma “interrompono a ogni istante il loro corso; ritornano su ciò che già sembrava cosa compiuta per ricominciare daccapo”. È attraverso la sconfitta che l’esperienza rivoluzionaria si trasmette da una generazione all’altra, perché in questo processo di rimemorazione si acquisisce consapevolezza delle potenzialità del passato, di quelle inespresse, di quelle distorte o tradite. Questo processo indica la fedeltà alle promesse della rivoluzione, non ai suoi risultati.

La “dialettica della sconfitta”, tuttavia, è stata parte dello storicismo marxista, dell’idea cioè che la sconfitta preannunci la vittoria, la porti oggettivamente nel suo grembo. È visibile nei film dei registi comunisti analizzati nel testo, ad esempio in Pontecorvo. La memoria serve cioè per il futuro, la dialettica della sconfitta diviene teleologia della necessaria vittoria. L’adesso viene così ridotto a passaggio dialettico tra un passato incompiuto e un futuro utopico. È qui che dobbiamo spezzare la catena della storia, interrompere la lineare narrazione dei vincitori e quella delle vittime, riaprire il presente alla possibilità rivoluzionaria.

In qualche modo già Traverso rovescia il rapporto tra memoria e storia consolidato nel marxismo, secondo cui la prima è soggettiva perciò inaffidabile, la seconda oggettiva e dunque scientifica. Quella memoria non deve però diventare un luogo, un museo in cui archiviare un passato che si vuole disarmare della sua potenzialità per il presente. Aggiungiamo che, insieme a una critica radicale della teleologia, andrebbe altrettanto radicalmente criticata l’utopia, che tutto sommato ne costituisce l’altra faccia. Non sentiamo nessuna nostalgia del futuro, perché quel futuro è stato usato come strumento per bloccare le possibilità rivoluzionarie, sacrificandole sull’altare di un sol dell’avvenire che necessariamente avrebbe illuminato il progresso della storia. Non dobbiamo allora commettere l’errore di trasformare la genealogia in passato, il presente in presentismo, la prospettiva in futuro. Solo così possiamo sottrarre la memoria alla celebrazione delle vittime, rovesciarla nella costruzione di una storia di parte contro la storia dei vincitori. Perché il telos sta nella volontà della lotta, non nel destino della storia.

È perciò pienamente condivisibile la critica alla fede nel progresso e alla religione illuminista che, coerente con la lezione benjaminiana, corre per tutto il libro. Traverso ci ricorda ad esempio che, contrariamente alle interpretazioni dominanti, il fascismo non era la barbarie a cui opporre la civiltà, ma piuttosto un figlio della civiltà illuminista, un modernismo reazionario; basti pensare al culto cieco della tecnologia moderna che lo qualificava. A questo punto viene da chiedersi perché l’autore si ostini a richiamarsi, fin dal titolo, alla sinistra, con la sua fede nel progresso e nell’illuminismo storicista, con la sua nostalgia nel senso patologico del termine, ossia un culto delle vittime teso a impedire la vendetta dei vinti, per farsi rappresentante di una sconfitta e di un dolore (degli altri) che devono per lei restare tali. Questa è la sua ontologia. È vano quindi cercare lì un rifugio identitario, per definire quello che siamo attraverso una categoria che a ciò che siamo si è sempre risolutamente contrapposta. Varrebbe invece la pena di riannodare i fili della nostra storia di parte cominciando a sostenere che il contrario di sinistra non è destra, ma rivoluzione. Ecco allora che forse la nostra tigre può tornare a balzare contro la storia dei vincitori.