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Le radici materiali della violenza contro le donne

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 Una riflessione di Silvia Federici

Troppo insistentemente all’ordine del giorno, la violenza contro le donne è diventata macabro tratto distintivo dei nostri tempi. Non si tratta però di una coincidenza né di una peculiarità del neoliberismo in crisi. La violenza contro le donne, nelle sue differenti declinazioni storiche, è un elemento costitutivo e strutturante dei rapporti sociali capitalistici. Silvia Federici, in questo saggio (di prossima pubblicazione per ombre corte, in un volume che raccoglie i lavori di Federici sul tema dell’accumulazione originaria e delle lotte sul terreno della riproduzione) ne indaga le radici materiali, inquadrando l’escalation di violenza in una prospettiva storica: dalla caccia alle streghe nel Sedicecismo e Diciassettesimo secolo alla globalizzazione e al lavoro coatto nella maquilas, fino e alla svolta neoliberale e alla crisi, passando per la sterilizzazione in massa di donne povere e nere durante la Grande depressione e dall’attacco alle donne nere e migranti inserite nei programmi di welfare in America e non da ultimo dalla lotta delle donne e le battaglie femministe. Ci aiuta in qusto modo a mettere a fuoco le specificità del presente e soprattutto ci ricorda che «costruire alternative al capitalismo è una condizione essenziale per sradicarne le cause».

Introduzione

Fin dal suo inizio, il movimento femminista ha identificato nella violenza contro le donne una tematica centrale del suo percorso organizzativo, promuovendo la formazione del primo tribunale internazionale sui crimini contro le donne che si è tenuto a Bruxelles nel marzo del 1976[1]. Da allora le iniziative femministe contro la violenza si sono moltiplicate, mentre i governi, sull’onda delle conferenze mondiali sulle donne organizzate dalle Nazioni Unite, hanno approvato leggi in materia[2]. Ma invece di diminuire, la violenza è cresciuta in ogni parte del mondo, al punto che si parla ora di "femminicidio". Non solo continua ad aumentare il numero delle donne uccise e abusate, la natura stessa della violenza è cambiata, diventando più pubblica, più brutale, spesso assumendo forme tipiche dei tempi di guerra.

Perché questa nuova ondata di violenza contro le donne?  E che cosa ci dice riguardo alle trasformazioni che hanno subito l'economia globale e la posizione sociale delle donne? Senza dubbio le sue cause sono molteplici, ma è evidente che alla sua base ci sono le nuove forme di accumulazione del capitale, che implicano vasti processi di esproprio dalla terra, la distruzione dei regimi comunitari, nonché l’intensificazione dello sfruttamento delle ricchezze naturali e del lavoro. Resta da chiarire, tuttavia, quali sono le specifiche condizioni che producono questa violenza, come conseguenza o strumento dell’espansione dei rapporti capitalistici. In questo saggio rispondo a questa domanda, con una prospettiva storica sul rapporto tra violenza domestica-interpersonale e violenza pubblica e con un esame delle politiche istituzionali adottate a livello internazionale per disciplinare le donne. Il mio obiettivo è dimostrare che l’aumento della violenza contro le donne, pur nelle sue forme diverse, ha come comune denominatore l'ulteriore svalutazione della loro vita e del loro lavoro che la globalizzazione, come sempre lo sviluppo capitalista, promuove. In altre parole, la nuova ondata di violenza contro le donne è radicata in tendenze  strutturali, e in ogni periodo storico costitutive, dello sviluppo capitalista e del potere statale. Ciò significa che costruire alternative al capitalismo è una condizione essenziale per sradicarne le cause.

Capitalismo e violenza contro le donne

La storia ha molto da insegnarci a questo riguardo. Ci mostra che il capitalismo, pur costruendo il suo potere attraverso la guerra, la conquista e la schiavitù, ha riservato le forme più brutali di disciplinamento alle donne delle classi inferiori, in particolare le donne nere e indigene. L’assoggettamento delle donne a forme particolarmente brutali di violenza è stata un elemento strutturante della società capitalista fin dal suo inizio. La nascita del capitalismo si accompagna a una guerra contro le donne: la caccia alle streghe del Sedicesimo e Diciassettesimo secolo, che ha portato alla morte migliaia di donne, giovani e vecchie, in Europa e nel "Nuovo Mondo". Come ho scritto in Calibano e la Strega, questo fenomeno storico senza precedenti è stato un evento fondante della società capitalista, e un elemento centrale del processo che Marx ha definito "accumulazione originaria", la cui realizzazione ha richiesto la distruzione di un vasto ambito di soggetti e pratiche femminili che erano incompatibili con l’accumulazione della forza-lavoro e  l'imposizione di una più intensa disciplina del lavoro[3]. In Europa, la persecuzione delle "streghe" ha spianato la strada al confinamento delle donne al lavoro domestico, imposto come lavoro non retribuito; ha legittimato la loro subordinazione agli uomini dentro e fuori la famiglia e ha conferito allo Stato il controllo sulla loro capacità riproduttiva, messa al servizio della procreazione di nuovi lavoratori. In questo modo, i cacciatori di streghe hanno costruito un ordine specificamente capitalista e patriarcale che continua nel presente, anche se costantemente ricostituito in risposta alla resistenza delle donne e alle mutevoli esigenze del mercato del lavoro.

Le atroci esecuzioni a cui le cosidette streghe furono sottoposte hanno insegnato presto alle altre donne ad essere obbedienti, silenziose e ad accettare il duro lavoro e gli abusi degli uomini, come l’unico modo per essere accettate socialmente. Fino al Diciottesimo secolo a quelle che si ribellavano si ingabbiava la testa in  una museruola di metallo e cuoio, usata anche per gli schiavi, che lacerava la lingua delle donne se tentavano di parlare. Forme specifiche di violenza di genere sono state perpetrate anche nelle piantagioni americane dove le aggressioni sessuali dei padroni si sono trasformate in una sistematica politica di stupro, quando i proprietari delle piantagioni, soprattutto nella Virginia ma anche nei Caraibi, hanno tentato di sostituire l'importazione di schiavi dall'Africa con la loro riproduzione in loco [4].

La fine della caccia streghe e della schiavitù non ha posto fine alla violenza contro le donne. Al contrario, la violenza si è normalizzata, per la necessità da parte della classe capitalista di controllare la capacità riproduttiva delle donne e costringerle a lavorare senza alcun compenso sotto la tutela degli uomini. Negli anni Trenta, durante la “grande depressione”, negli Stati Uniti si sono sterilizzate molte donne nere e donne bianche proletarie, disoccupate, che ricevevano sussidi dallo stato, per timore che avessero figli a spese dello Stato. [5] La sterilizzazione delle donne nere e migranti inserite in programmi di welfare è continuata fino agli anni Settanta. Non solo, finché le femministe non ne hanno costretto il riconoscimento, per lo Stato non esisteva lo stupro in famiglia. E, come ha sottolineato Giovanna Franca Dalla Costa in Un lavoro d'amore[6], la violenza è sempre stata presente, come sottotesto, come possibilità, nella famiglia nucleare, poiché attraverso il salario si è dato agli uomini il potere di controllare il lavoro domestico non retribuito delle donne, di servirsene come serve e di punirle qualora si rifiutassero di servirli. Per questo la violenza domestica maschile non è mai stata considerata un crimine, al contrario, è stata tollerata dai tribunali e dalla polizia come risposta legittima alle donne che si rifiutavano di ottemperare ai doveri domestici, proprio come lo Stato ha legittimato il potere dei genitori di punire i propri figli come condizione della formazione dei futuri lavoratori [7].

Tuttavia, se la violenza contro le donne è stata normalizzata come aspetto strutturale delle rapporti familiari e di genere, ciò che si è sviluppato negli ultimi decenni supera la norma. Stiamo infatti vivendo uno di quei momenti pericolosi nella storia in cui la classe capitalista è pronta a "mettere il mondo sottosopra" per consolidare il proprio potere, che le lotte degli anni Sessanta e Settanta (lotte anti-coloniali, femministe, per il Black Power) hanno minato. Ciò comporta l’istituzione di un regime di guerra permanente, a partire dalla distruzione delle condizioni materiali della riproduzione del proletariato a livello mondiale.

La mia tesi, in altre parole, è che stiamo assistendo ad un'escalation della violenza contro le donne, specialmente afro-discendenti, perché la "globalizzazione" è un nuovo processo politico di “accumulazione originaria”, cioè di separazione dei produttori dai propri mezzi di riproduzione (dalla terra ai servizi, ai posti di lavoro) e di ulteriore svalutazione della forza lavoro. Questo non è possibile senza una guerra contro le donne che sono direttamente responsabili della riproduzione delle loro comunità.  E non sorprende che la violenza contro le donne sia più intensa nelle regioni che sono più sfruttate dalle imprese (Africa subsahariana, America Latina, Asia sudorientale) e dove la lotta anti-coloniale è stata più forte. Brutalizzare le donne è funzionale alle "nuove recinzioni". Apre la strada alla confisca delle terre, alle privatizzazioni e alle guerre formali e informali che da anni devastano intere regioni. Tuttavia, la brutalità degli attacchi è così estrema che spesso sembra non avere alcuna utilità. In questo senso, la sociologia femminista brasiliana Rita Segato, riferendosi alle torture inflitte al corpo delle donne da paramilitari e narco-trafficanti che operano in varie regioni dell'America Latina, ha parlato di «violenza espressiva» e «crudeltà pedagogica». Sostiene che l’obiettivo di questa violenza è di terrorizzare la popolazione, fargli comprendere  che qualsiasi resistenza è inutile, perchè si scontra con individui che non hanno pietà[8]. Ma il messaggio non è mai fine a se stesso. La violenza contro le donne apre il terreno alle società minerarie e petrolifere che oggi smantellano numerosi villaggi spesso per aprire una sola miniera. Traduce inoltre il mandato delle agenzie internazionali come la Banca Mondiale, che stabilisce i codici minerari ed è responsabile delle condizioni neo-coloniali che le imprese impongono sui territori. È dunque ai piani di sviluppo del capitale internazionale che occorre guardare per comprendere che cosa ha motivato le milizie, nei bacini minerari di diamanti, coltan e rame della Repubblica Democratica del Congo, a sparare nella vagina delle donne, o i soldati guatemaltechi a sventrare donne incinte e uccidere i bambini che portavano in grembo. Rita Segato ha ragione. Questo tipo di violenza non emerge dalla vita quotidiana di una comunità[9]. È pianificata, calcolata ed eseguita con la massima garanzia dell'impunità – la stessa impunità con cui oggi le compagnie minerarie inquinano terre, fiumi e ruscelli con prodotti chimici letali, mentre le persone espulse dalla terra vengono arrestate dalle guardie di sicurezza delle stesse compagnie, se osano fare resistenza. Solo gli Stati e le agenzie internazionali possono dare via libera a questa devastazione, a prescindere da chi ne siano gli esecutori materiali, e garantire che i colpevoli non siano mai assicurati alla giustizia.

Nella nuova guerra globale, la violenza contro le donne è un elemento chiave. Non solo per l'orrore che evoca o per i messaggi che invia, ma perché le donne tengono insieme le comunità e difendono un’idea non commerciali della ricchezza e della sicurezza economica. Ad esempio, in Africa e India, fino ad un’epoca recente, le donne avevano accesso alle terre comuni e dedicavano buona parte della loro giornata lavorativa all'agricoltura di sussistenza. Ma sia il possesso della terra  sia l'agricoltura di sussistenza sono da tempo oggetto di un forte attacco istituzionale, osteggiate dalla Banca Mondiale come cause della povertà femminile nel mondo, secondo il principio che la terra è un "bene morto", mentre è il denaro che crea la ricchezza, cosicchè la terra deve essere utilizzata come garanzia per ottenere prestiti bancari con cui avviare un'attività imprenditoriale[10]. In realtà, è grazie all'agricoltura di sussistenza che molte persone sono riuscite a sopravvivere in presenza di brutali programmi di austerità. Ma questi discorsi, ripetuti nelle riunioni delle autorità governative e dei capi locali, hanno attecchito e, in Africa e in India le donne sono state costrette a rinunciare alla produzione di sussistenza e lavorare come aiutanti dei propri mariti nella produzione di prodotti agricoli per il mercato.  Questa dipendenza imposta – che è uno dei modi specifici con cui (come ha osservato Maria Mies) oggi nelle aree rurali le donne sono «integrate nello sviluppo», è di per sé un processo che genera violenza. Non solo rafforza la soggezione delle donne agli uomini, dai mariti ai proprietari terrieri[11],  ma svaluta il loro ruolo agli occhi della comunità e in particolare dei giovani.

La trasformazioni che si sono avute nei rapporti di proprietà della terra e nella concezione del valore e della ricchezza, sono anche la causa di un fenomeno che, dagli anni Novanta, continua a produrre morte e  miseria per molte donne, soprattutto in Africa e in India: il ritorno della caccia alle streghe. Sebbene molti fattori contribuiscano alla diffusione delle accuse di stregoneria, si è visto che tali accuse sono più frequenti nelle aree destinate a progetti commerciali o in cui sono in corso processi di privatizzazione della terra (come nelle comunità tribali indiane), e dove le presunte streghe dispongono di terre da confiscare. In Africa in particolare, le vittime sono donne anziane, che vivono da sole[12], mentre gli accusatori sono membri più giovani delle loro comunità o addirittura delle loro famiglie, generalmente giovani disoccupati, che vedono gli anziani come usurpatori di ciò che gli dovrebbe appartenere. È chiaro, tuttavia, che questi giovani sono in genere manipolati da attori che rimangono nell'ombra, come i capi locali, spesso d’accordo con le imprese commerciali per alienare le terre comunali. Anche in questo caso, la prospettiva della confisca della terra che le donne possiedono, o a cui hanno accesso, gioca un ruolo importante. Ma altri fattori contribuiscono a questa persecuzione.  Anzitutto la disintegrazione della solidarietà tra i membri delle comunità, dovuta a decenni di un impoverimento di massa che acuisce i conflitti sociali. Influiscono inoltre la diffusione dell'AIDS e di altre malattie, in società in cui i sistemi sanitari sono crollati e la malnutrizione favorisce le epidemie; vi è poi la proliferazione di sette evangeliche che predicano un cristianesimo neo-calvinista che attribuisce la povertà a carenze personali o all’azione malvagia delle streghe. Non ultima è la crescente svalutazione della vecchiaia, e in particolare della vita delle donne anziane, a seguito dell'espandersi dell’economia monetaria, che genera tra l’altro una guerra generazionale, che prende anche la forma di nuova caccia alle streghe.

 Altre circostanze, ugualmente connesse alle nuove forme di accumulazione capitalistica, istigano alla violenza contro le donne. La disoccupazione, la precarizzazione del lavoro e il crollo dei salari nelle famiglie sono fattori chiave. Privi di terre, salari sicuri e altre forme di reddito, gli uomini sfogano sulle donne, le proprie frustrazioni; o cercano di recuperare il denaro e il potere sociale che hanno perduto sfruttando il loro corpo e il loro lavoro. Questo è il caso degli «assassini per la dote» in India - uomini di classe media che uccidono le mogli che non forniscono una dote soddisfacente, per sposare un'altra donna e ottenere un'altra dote[13].

 Va anche notato che con la crisi del reddito familiare, per molti uomini il valore delle donne risiede sempre meno nel lavoro riproduttivo che queste svolgono gratuitamente nelle case e sempre pià invece nella vendita del loro lavoro e del loro corpo sul mercato[14]. Qui la politica micro-individuale si incrocia con quella macro-istituzionale. Anche per il capitale, infatti, il valore delle donne risiede sempre più nel lavoro a basso costo che oggi svolgono nell’industria o nel settore dei servizi, e meno nel loro lavoro domestico non pagato. Quest’ultimo richiederebbe un salario maschile stabile, capace di sostenerlo, cosa che il capitalismo contemporaneo è determinato a eliminare, se non per settori limitati della popolazione. C’è dunque collusione tra l'interesse del capitale e quello di molti uomini riguardo al lavoro femminile che, da una parte deve procurare agli uomini i redditi che non possono più avere e, dall'altra, deve procurare al capitale lavoro a basso costo per incrementare i profitti. In entrambi i casi, il lavoro domestico non retribuito delle donne non scompare, ma non è più una condizione sufficiente per la loro accettazione sociale. Emerge così una nuova economia politica che favorisce relazioni familiari più violente, perché dalle donne ci si aspetta che portino soldi a casa ma allo stesso tempo si maltrattano se trascurano i lavori domestici o chiedono più potere e il riconoscimento del contributo che danno con il lavoro extra-domestico.

Anche la necessità delle donne di lasciare la casa, emigrare, o portare il proprio lavoro riproduttivo nelle strade (come venditrici ambulanti, commercianti o lavoratrici del sesso) per sostenere le proprie famiglie, è all’origine delle nuove forme di violenza contro di loro. È noto, per esempio, che le donne migranti provenienti dall'America Latina prendono contraccettivi prima di partire poiché sanno che saranno violentate dalla polizia, attraversando un confine che è sempre più militarizzato. Analogamente le venditrici ambulanti si scontrano con la polizia che spesso confisca le loro merci. Come ha notato la femminista francese Jules Falquet, in una situazione in cui, invece di servire un uomo oggi molte donne servono più uomini, le donne diventano più vulnerabili agli abusi[15]. La violenza maschile è  poi la risposta all'aumento della domanda di autonomia e di indipendenza economica da parte delle donne e, più in generale, è una sfida contro l'espandersi del femminismo[16]. È questo il tipo di violenza che è esplosa all'Università di Montreal nel dicembre del 1989, quando un uomo è entrato in un’aula e, dopo aver separato gli uomini dalle donne, ha aperto il fuoco su queste gridando "siete tutte schifose femministe", uccidendone quattordici[17]. Anche negli Stati Uniti, sin dagli anni Ottanta, sono cresciuti i “femminicidi”, con più di tremila donne uccise ogni anno. È una misoginia aggravata dall'odio razziale che ha portato all'assassinio di molte donne nere e indigene[18]. Anche in Canada la violenza razziale contro le donne indigene è in aumento. Come ha di recente riportato il New York Times, decine di donne indigene sono scomparse e poi trovate morte in quella che ora è chiamata “l’autostrada delle lacrime”[19].

Queste forme di violenza sono ovviamente diverse da quelle inflitte alle donne da paramilitari, narcotrafficanti, dagli eserciti privati delle imprese o dalle guardie di sicurezza. Eppure, sono profondamente collegate tra loro. Come hanno notato i redattori di “Aftermath”, ciò che connette la violenza in tempi di guerra a quella in tempi di pace è il rifiuto dell'autonomia delle donne, e lo stretto rapporto che esiste tra violenza e controllo sessuale da una parte e la distribuzione delle risorse dall’altra[20]. Anche Maria Mies ha notato che in tutte le relazioni produttive basate sulla violenza e la coercizione nei confronti delle donne esiste un legame tra padri, fratelli, mariti, protettori, lo Stato e l'impresa capitalistica[21]. La violenza domestica e quella pubblica si alimentano reciprocamente. Da un lato, i "codici d'onore" degli uomini, che assumono le donne come loro proprietà, hanno spesso impedito la denuncia degli abusi subiti, perché le donne temono di essere rifiutate dalle loro famiglie o addirittura di essere sottoposte a ulteriori violenze[22]. Dall'altro, la tolleranza istituzionale della violenza domestica crea una cultura di impunità che contribuisce a normalizzare la violenza pubblica inflitta alle donne.

In tutti i casi fin qui discussi, la violenza è violenza fisica. Ma non dobbiamo ignorare la violenza perpetrata dalla politica economica e sociale, e dalla commercializzazione della riproduzione. La povertà stessa, quale esito dei tagli al welfare, all'occupazione e ai servizi sociali, deve essere considerata come una forma di violenza. In egual misura una forma di violenza sono le condizione semi schiavistiche di lavoro nelle maquilas, le nuove piantagioni dell'era moderna. Anche la mancanza di assistenza sanitaria, la negazione dell'aborto, l'aborto dei feti femminili e la violenza del microcredito che colpisce le donne che non possono ripagare i prestiti contratti[23], sono forme di violenza. A ciò si deve aggiungere la crescente militarizzazione della vita quotidiana e la conseguente celebrazione di modelli aggressivi e misogini di mascolinità. Come ha rilevato Jules Falquet, la proliferazione di uomini armati e lo sviluppo di una nuova divisione sessuale del lavoro in cui la maggior parte dei posti di lavoro aperti agli uomini richiede l’esercizio della violenza (come guardie private, guardie di sicurezza, guardie carcerarie, membri di bande, mafie, ed eserciti privati) svolgono un ruolo chiave in questo processo[24]. Le statistiche mostrano che coloro che uccidono sono spesso uomini che hanno con le armi familiarità e facile accesso, e sono abituati a risolvere i conflitti con la violenza. Negli Stati Uniti sono spesso poliziotti o veterani delle guerre in Iraq o in Afghanistan, o guardie di sicurezza. Come ha sottolineato Frantz Fanon, con riferimento ai francesi il cui compito era di torturare i ribelli algerini, la violenza è indivisibile e non si può praticare come occupazione quotidiana senza “portarla a casa”, e praticarla nella vita privata[25]. Di pari passo va la costruzione mediatica di modelli femminili iper-sessualizzati e aggressivi che, campeggiando nei cartelloni pubblicitari sparsi in ogni angolo delle nostre città, contribuendo alla diffusione di una cultura misogina, in cui l'aspirazione delle donne all'autonomia è degradata e rappresentata come una provocazione sessuale lanciata agli uomini.

In considerazione delle varie situazioni che contribuiscono alla violenza che le donne si trovano ad affrontare, è chiaro che anche la resistenza si deve organizzare su molti fronti. Sono già in corso campagne di mobilitazione che rifuggono da soluzioni che si sono rivelate controproducenti, quali la richiesta di una legislazione più punitiva, che serve solo a dare più potere alle autorità che, direttamente o indirettamente, ne sono responsabili. Più efficaci sono le strategie che le donne stesse hanno costruito, aprendo luoghi protetti non controllati dalle autorità e gestiti dalle stesse donne che li utilizzano; organizzando pratiche di autodifesa; costruendo cortei per  "Riprenderci la notte", come quelli organizzati dalle femministe negli Stati Uniti negli anni Settanta, o quelli organizzati dalle donne indiane contro gli stupri; costruendo sit-in nei quartieri da cui provengono i colpevoli della violenza o di fronte alle stazioni di polizia che non si impegnano a rintracciarli. Abbiamo visto anche la comparsa di campagne contro la stregoneria, con donne e uomini che, in Africa e in India, vanno di villaggio in villaggio per istruire le persone sulle cause delle malattie e sui veri interessi dei “guaritori tradizionali”, che pretendono di riconoscere le streghe, e dei capi locali e delle altre figure di accusatori. In Guatemala, le donne hanno cominciato a raccogliere i nomi dei soldati da cui subiscono abusi, per poi denunciarli nei loro villaggi di origine, dove vivono le loro madri e spose. In ogni caso, per il successo di questi sforzi è cruciale la decisione delle donne di combattere, di rompere il loro isolamento e di unirsi ad altre donne. Ma queste strategie non avranno successo nel tempo se non saranno accompagnate da un ampio processo di rivalutazione della posizione sociale della donna e delle attività riproduttive, e se le donne non potranno acquisire le risorse necessarie per non dipendere dagli uomini o continueranno ad essere costrette ad accettare condizioni di lavoro pericolose per la loro sopravvivenza.

(Traduzione dall’inglese di Anna Curcio)


[1] Diana E. H. Russell e Nicole Van de Ven, Crimes Against Women. Proceedings of the International Tribunal. Berkeley (CA): Russell’s Publications, 1990.

[2] Nel 1993 a Vienna, le Nazioni Unite hanno approvato una dichiarazione per l'eliminazione della violenza contro le donne. Poi, di nuovo, «nel dicembre del 2006 l'Assemblea Generale delle Nazioni Unite ha adottato una risoluzione per intensificare gli sforzi volti a eliminare tutte le forme di violenza contro le donne», Holly Johnson, Natalia Ollus, Sami Nevala, Violence Against Women. An International Perspective. New York: Spriger, 2008.

[3] Si veda Silvia Federici, Calibano e la Strega, Milano, Mimesis 2015,Capitolo IV, “La Grande Caccia Alle Streghe in Europa”, pp. 207-261.

[4] Ned Sublette e Constance Sublette. The American Slave Coast. The History of the Slave-Breeding Industry, Chicago: Lawrence Hills Books, 2015.

[5] Negli ultimi anni in Inghilterra si è saputo di donne rinchiuse in giovinezza all’interno di istituti psichiatrici per il loro «comportamento promiscuo», che non hanno mai avuto i mezzi per liberarsi.

[6] G. Franca dalla Costa, Un Lavoro d’Amore, Roma: Edizioni delle donne, 1978.

[7] G. F. Dalla Costa aggiunge che anche lo stupro indirettamente sostiene la disciplina del  lavoro domestico, determinando i tempi e gli spazi in cui le donne possono muoversi senza il pericolo di essere stuprate. [Ibid.]

[8] Rita Laura Segato, La nuevas formas de la guerra y el cuerpo de las mujeres. Città del Messico: Pez en el Árbol/Tinta de Limón, 2014, pp. 22-3.

[9] Si veda la presentazione di Rita Segato al Forum internazionale sulla violenza contro le donne che si è tenuta a Buenaventura (Colombia) tra il 24 e 28 marzo del 2016.

[10] È questo l’argomento utilizzato dalla Banca Mondiale per convincere i contadini in Africa, India, e nell’America Latina a eliminare la proprieta’ comunitaria della terra e a sostituirla con il possesso individuale. (Banca Mondiale 2003, citata da Ambreena Manji, The Politics of Land Reform in Africa: From Communal Tenure to Free Markets. London and New York: Zed Books, 2006, pp.7,8,9).

[11] Maria Mies, Patriarchy and Accumulation on a World Scale. London: Zed Books, 2014[prima edizione 1986, p.145-6].

[12] Sul tema della caccia alle streghe e la globalizzazione si veda Federici, Witch-Hunting, Globalization and Feminist Solidarity in Africa Today. “ Journal of International Women’s Studies”, Vol. 10, #1, October 2008.

[13] Sulla lotta delle donne contro gli assassini per motivi di dote in India si veda Radha Kumar, The History of Doing. Illustrated Account of Movement for Women’s Rights and Feminism in India 1800-1990. London: Verso, 1993, 115-126. Secondo Maria Mies tra il 1976 e il 1977 più di cinquemila donne sono morte bruciate, probabilmente per mano dei loro mariti o delle famiglie dei loro mariti e, nel corso degli anni Ottanta il numero è ulteriormente cresciuto (op. cit., 2014 p. 150).

[14] In questo contesto, è significativo che la gravidanza aumenti la vulnerabilità delle donne alla violenza maschile. Oggi negli Stati Uniti la violenza da parte del partner è la seconda causa degli aborti spontanei.

[15] Jules Falquet, Femmes de Ménage, Loueuses D’ Utérus, Travailleuses Du Sexe Et Travailleuses Du Care. Le “Dés-Amalgamage Conjugal” En Contexte Néolibéral: Libération Ou Nouvelle Formes D’Appropriation?” Travail, Care et Politiques Sociales. Débats Brésil-France.

[16] Jane Caputi and Diana E.H. Russell. “Femicide: Sexist Terrorism Against Women” in Radford and Russell eds., op. cit., 1992, 13-21.

[17] Ivi, 13.

[18] Esempi di questo tipo abbondano: «dal 28 gennaio al 30 maggio del 1979, nella città di Boston sono state uccise tredici donne, dodici nere e una bianca, in un raggio di circa tre chilometri di distanza l’una dall’altra; tutte, tranne una, sono state ritrovate in quartieri a predominanza nera, molte di queste erano state rapite prima di essere uccise» (Jaime M. Grant. “Who’s Killing Us?” In Radford and Russell eds., op. cit.,145). E ancora, ad Atlanta «tra il 1978 e il 1989 sono stati ritrovati i corpi senza vita di trentotto donne. La maggior parte di queste erano giovani afroamericane il cui omicidio è rimasto irrisolto (Diana E. H. Russell and Candida Ellis.  “Annihilation by Murder and by the Media.”, 161-162).

[19] Levine 5/24/2016

[20] Sheila Meintjes, Anu Pillay e Meredeth Turshen eds. The Aftermath. Women in Post-Conflict Transformation, London &New York: Zed Books, 2001, 11.

[21] Mies, op.cit., 2014, 146.

[22] Come hanno rivelato dei testimoni al South African Truth and Reconciliation Commission: «quando una donna ammette lo stupro da parte di un “nemico” perde il rispetto e la protezione della sua famiglia e della comunità … Molte comunità rigettano queste donne ». In Sudafrica, infatti, gli uomini hanno spesso ucciso le donne che sono ritornate nella comunità con dei figli nati dallo stupro. The Aftermath, p. 12.

[23]  Questa violenza va dagli abusi verbali all’appropriazione dei beni della famiglia, citati in Lamia Karim, Microfinance and its Discontents. Women in Debt in Bangladesh, Minneapolis: Minnesota University Press, 2011, 84-85.

[24] Jules Falquet, Des assassinats de Ciudad Juárez au phénomène des féminicides: de nouvelles formes de violences contre les femmes in Contretemps, 1.10. 2014, http://www.contretemps.eu).

[25] Frantz Fanon, I dannati della terra, Milano, Einaudi, 1961.