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Comunicazione dei movimenti e uso dei social network

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Appunti e proposte di lavoro di Sasso Nello Stagno

Gli appunti che seguono vorrebbero provare a fornire alcuni spunti riguardo a un tema che in questi anni ritorna spesso nella riflessione dei compagni e delle compagne attivi nelle lotte sociali o che lavorano per farne nascere di nuove: la questione dei linguaggi, dei mezzi e delle strategie comunicative, in particolare per quel che riguarda un uso militante e di parte dei social network.

È bene specificare fin da subito che chi scrive non è uno studioso di scienze della comunicazione né un lettore assiduo della bibliografia ormai abbondante che è stata prodotta sui social network da ogni angolazione possibile: dalla sociologia della comunicazione al social media marketing, dalla filosofia alla psicopatologia ecc. Assunta in piena umiltà questa insufficienza, è dunque possibile che una serie di punti e di indicazioni pratiche che verranno qui proposte possano scontare un eccesso di empiricità o apparire in qualche caso banali e semplicistiche. Correremo questo rischio, sperando che queste poche pagine possano comunque servire da stimolo a ulteriori ricerche, discussioni, sperimentazioni, o anche solo a un uso più consapevole dei mezzi di comunicazione a nostra disposizione ai fini del potenziamento della lotta di classe e delle sue ragioni.

Davvero il nostro problema è l’innovazione?

Perché è importante riflettere sulla qualità della nostra comunicazione politica? La risposta è molto semplice: perché parlare di comunicazione ci spinge inevitabilmente a riflettere su quello che siamo, su come ci autorappresentiamo, sui soggetti a cui vogliamo parlare, su quello che abbiamo da dire loro e, non da ultimo, se quello che abbiamo da dire descrive o meno il nostro lavoro sui territori, i conflitti che riusciamo a organizzare, se produce o meno la sedimentazione di un pensiero e di un punto di vista critico e partigiano sul presente. In breve, parlare di comunicazione ci porta a parlare del noi come comunità militante, delle nostre potenzialità e carenze rispetto alla possibilità di giocare un ruolo da protagonisti dentro e contro la realtà che abitiamo.

In genere si sente spesso ripetere che la nostra comunicazione è autoreferenziale (dunque, alla lettera, inesistente), che non riusciamo a parlare e ad essere compresi al di là delle nostre cerchie. Questo perché, si sente dire il più delle volte, i nostri linguaggi sono vecchi, astrusi, le nostre prese di parola non sono abbastanza smart e just in time, perché abbiamo bisogno di innovazione. Detta in maniera esplicita, penso che questa sia una spiegazione abbastanza superficiale e fuorviante di un problema che sicuramente c’è.

Ora, come dovrebbe essere evidente ai più, l’ideologia dell’innovazione è una delle cifre caratteristiche del nostro tempo. Nella sua pervasiva potenza sussuntiva, dopo gli anni ’70 il capitale è riuscito a sconfiggere e a porre ai margini l’idea politica di rivoluzione come opzione forte di trasformazione del mondo non solo con la repressione, con la lotta di classe dall’alto, con la disarticolazione della forza sociale, politica e sindacale accumulata dai movimenti operai, ma anche facendo suo il paradigma del cambiamento e dell’innovazione continua come strumenti di riproduzione del suo dominio e dei suoi dispostivi di accettazione e disciplinamento. Basti solo pensare, per non andare troppo lontano, al ruolo perverso che ha avuto la “rottamazione” e il giovanilismo durante la stagione renziana, dimostrando nelle sua prima fase una notevole efficacia.

Forse, dovremmo considerare maggiormente la possibilità che i limiti dei nostri linguaggi non siano di natura comunicativa, ma più propriamente politica. Ad esempio chiedendoci: quanti dei termini che usiamo fanno il verso a mode intellettuali, a teorie disincarnate da qualsiasi materialità? Quante volte produciamo discorsi sui soggetti sociali a cui facciamo riferimento, invece di cedere la parola direttamente a loro? Forse perché abbiamo paura che contraddicano le nostre convinzioni, le nostre certezze da piccola cerchia o che parlino con parole inquinate dalla propaganda del nemico?

Se ci parliamo addosso, è perché spesso finiamo per impostare la nostra agenda politica basandoci sulle scadenze e le logiche competitive della nostra iperframmentata comunità militante, invece che sugli umori, le tensioni e i conflitti latenti che attraversano quella classe a cui dovremmo guardare.

Ecco, è proprio questo il punto fondamentale quando parliamo di linguaggi e di comunicazione: chiarire prima di tutto a noi stessi a cosa devono servire, verso quale progetto politico devono essere messi al servizio. Non abbiamo bisogno di parole nuove in quanto nuove, abbiamo bisogno di parole che facciano presa sulla realtà, che la descrivano efficacemente, che la rendano davvero più comprensibile e, soprattutto, attaccabile. Questo dovrebbe essere il principio base che dovrebbe guidarci. Liberiamoci dunque dall’ossessione del nuovo a tutti costi. Anche perché, lo si è visto proprio con Renzi, oggi niente è più usurabile del nuovo.

Fatta questa doverosa premessa, proverò ad offrire alcuni spunti di riflessione attorno a tre questioni: funzioni e caratteristiche di una buona informazione di parte, diversi gradi di efficacia dei mezzi di comunicazione, uso militante dei social network. In tutti questi casi, l’intento è sempre quello di risalire dalla comunicazione alla prassi politica, dal che dire al che fare.

Che cosa deve essere un’informazione di parte

Negli ultimi decenni, a fronte di un progressivo arretramento dei valori egualitari e di una prospettiva di cambiamento radicale della società, i buoni siti di informazione di parte (sia quelli presenti su scala locale sia i portali che hanno raggiunto nel tempo una diffusione nazionale e a volte anche internazionale) hanno mantenuto aperto nel nostro paese uno spazio di dissenso e di formazione dei pensiero critico che, per quanto sia rimasto ben lontano dal mettere in discussione la potenza di fuoco dei media mainstream, ha comunque rappresentato un elemento di resistenza politica nel bel mezzo del riflusso post-anni ’70.

Non è un caso infatti che siano stati spesso proprio questi siti a mettere in connessione tra loro realtà autorganizzate di diversi territori, a costituire un punto di riferimento per i contesti più periferici e provinciali senza grandi cicli di lotte alle spalle, a stimolare un ritorno alla politica di diversi centri sociali, oltre a impedire che le varie correnti del pensiero critico radicale venissero del tutto confinate in qualche riserva indiana dell’accademia.

Quale ruolo e quale funzione dovrebbe avere oggi un’informazione di parte all’altezza delle sfide del presente, un presente che ci impone l’esigenza di passare dalla resistenza all’attacco?

Una funzione basilare e che tutto sommato già facciamo è quella di raccontare e far vedere le poche lotte che ci sono in cui abbiamo una qualche internità (e fare inchiesta su quelle dove ancora è assente un intervento, cosa che invece facciamo ancora troppo poco). Ci riferiamo a mondi e pratiche che o facciamo vedere noi, o non farà vedere nessun altro, se non in una luce riduttiva, distorta e diffamatoria. Il fatto che noi certe cose le vediamo, deve sempre farci sentire la responsabilità di comunicarle e quindi farle esistere, per combattere quella mancanza di immaginazione e di sfiducia nell’azione collettiva, conflittuale e autorganizzata che i media e la cultura mainstream sistematicamente alimentano per produrre acquiescenza e rassegnazione diffusa.

Rispetto a questo compito primario e necessario si pone però un problema che resta tutt’ora aperto: quale deve essere la posizione che un sito di informazione di parte deve assumere di fronte alle lotte e ai conflitti che racconta? Una volta definita l’appartenenza ideologica a una determinata parte, come si guarda a quanto avviene in quel campo, se lo scopo è quello di espanderne il raggio d’azione? L’internità alle lotte deve essere implicita oppure dichiarata? E che cosa significa avere un’internità? Vuol dire porsi al servizio di un’esigenza di propaganda oppure assumere una postura almeno parzialmente esterna, aperta anche alla possibilità di formulare valutazioni (auto)critiche in forma pubblica? In che modo una voce di questo tipo può acquistare attenzione e autorevolezza, e da parte di chi?

Si tratta di interrogativi che riguardano probabilmente buona parte dei siti per cui come militanti e attivisti scriviamo, in forma anonima o meno. Coerentemente con l’assunto di partenza di questi appunti, e cioè che da una riflessione sulla comunicazione si arriva per forza di cose a un approfondimento di alcuni nodi più politici, proverei a mettere in ordine le domande che sono sul tavolo sulla base di un interrogativo che le dovrebbe precedere, ovvero: che cosa intendiamo per la “nostra parte”?

A questa domanda si possono dare fondamentalmente due risposte: il “partito” organizzato, nelle sue forme storicamente mutevoli (i militanti, gli attivisti, coloro che si sono già soggettivizzati come parte nel conflitto e lavorano per intensificarlo e generalizzarlo) da un lato, la classe da organizzare e da portare allo scontro dall’altra. Si tratta di due dimensioni del “noi” profondamente diverse: l’una è reale e già data, l’altra invece, se ci rifacciamo alla lezione degli operaisti secondo cui la classe non esiste come soggetto se non si riconosce come tale nel conflitto, è soltanto potenziale.

Troppo spesso oggi si tende o a confondere o, all’opposto, a tenere separate queste due dimensioni, e lo si vede anche nella comunicazione “di movimento”. L’assecondare il sentimento di impotenza e di rassegnazione diffuso (ad esempio concentrandosi sempre sulla forza repressiva del nemico, finendo col farlo apparire più forte di quanto effettivamente non sia), oppure il dare adito ad autorappresentazioni conflittualiste da avanguardie senza esercito, con un alto tasso di retorica, sono entrambi sintomi di uno stesso problema: l’incapacità di articolare un rapporto proficuo tra i militanti e la classe da mobilitare.

Si pone allora l’esigenza di definire meglio quali sono i diversi ruoli e dunque le diverse posture che un’informazione di parte deve assumere per avere efficacia.

Partiamo da un punto fermo, per sgombrare il campo da equivoci: i siti scritti da militanti per altri militanti ci vogliono eccome, ed hanno un ruolo importantissimo nel mettere in circolazione saperi ed esperienze dei diversi territori, oltre ad essere laboratori di un pensiero fortemente ancorato alla prassi di cui oggi c’è bisogno più che mai. Proprio perché questi siti puntano a essere letti in primo luogo da un pubblico specifico e mirato, i contenuti che vi trovano spazio possono benissimo presentare caratteristiche che risulterebbero perdenti in un’ottica di propaganda: lunghezza, complessità, uso di un certo lessico ecc. Perché l’autoreferenzialità di cui spesso soffriamo non si combatte parlando a tutti, ma sapendo calibrare di volta in volta la referenza giusta.

Un sito che assume questa fisionomia risulta quindi necessario, e non solo per i militanti a ben vedere: c’è infatti un soggetto specifico su cui questi incubatori di saperi sovversivi dovrebbero cercare di far presa, e cioè gli strati più istruiti del ceto medio in via di impoverimento. Un soggetto qualitativamente rilevante rispetto a dei processi di contrapposizione più ampia ancora di là da venire, e che, specie in contesti universitari, può essere in parte avvicinato a una politica antagonista proprio in base alla nostra capacità di articolare un discorso solido e convincente sulla messa a valore capitalistica dei saperi e quindi sulla necessità di costruire dei saperi al servizio della nostra parte.

Detto questo, è evidente che un buon sito di informazione di parte deve avere come obiettivo prioritario quello di raccontare il presente e le sue contraddizioni, i conflitti che ci sono e quelli che mancano. Per fare ciò, bisognerebbe sempre sforzarsi di fare uso di un linguaggio e di un’impostazione del discorso che possano effettivamente raggiungere ed essere compresi al di là delle nostre cerchie, e soprattutto da coloro che dovremmo convincere a passare dalla nostra parte.

Lo sforzo che dobbiamo fare in questo caso, è sempre quello di immaginarsi come dei soggetti che devono ancora essere politicamente convinti a fare una scelta di campo.

Che cosa significa tutto questo nel concreto? Quali linee-guida dovrebbe assumere questa seconda tipologia di sito? Schematizzando:

1) Saper mostrare efficacemente le incongruenze dell’informazione mainstream, demistificandone la presunta imparzialità. È infatti solo a partire da una critica dell’informazione che si può porre il bisogno di un’informazione critica;

2) Tenere sempre insieme il piano dell’informazione con quello dell’interpretazione. Oggi siamo sommersi di notizie (e a una sempre maggiore velocità), ma non per questo è aumentata la nostra comprensione del mondo, tutt’altro. Vista l’alta competizione di siti “alternativi”, è perciò importante sapersi distinguere qualitativamente, esplicitando il carattere partigiano del nostro sguardo e il bagaglio politico-culturale a cui ricorriamo per raccontare la realtà;

3) Compiere un lavoro paziente e meticoloso di attacco e di decostruzione degli ordini del discorso a noi nemici. Legalità, decoro, competitività, equilibrio di bilancio, sicurezza, nonviolenza si sono rivelate delle armi micidiali di pacificazione di massa, capaci di scaricare la conflittualità su piani individuali, orizzontali o comunque compatibili con l’esistente. Distruggere il senso comune capitalista che viene creato da questi concetti è un compito ad oggi tanto difficile quanto prioritario che l’informazione di parte deve prefiggersi;

4) L’informazione di parte non deve essere confusa con la propaganda. Le narrazioni retoricamente trionfalistiche a fronte di una realtà ben diversa (nel riportare i numeri di un corteo, gli umori della piazza, i risultati effettivi di una vertenza ecc.) non fanno guadagnare in credibilità e finiscono col dare agli stessi militanti una rappresentazione falsata che impedisce loro di porsi in sintonia con la soggettività della nostra classe;

5) Non avere paura di adottare uno sguardo autocritico, scambiandolo per una forma di debolezza. Tutto ciò che di negativo il presente ci consegna (la frammentazione, il senso di impotenza, il nichilismo diffuso, la mancanza di lotte capaci di generalizzarsi e di produrre un immaginario di massa) non deve essere rimosso, così come non devono essere rimosse le nostre insufficienze. Non per piangere sulla mancanza o sui nostri fallimenti, ma per trasmettere l’idea che viviamo davvero nello stesso presente delle persone a cui ci rivolgiamo, che è poi l’unico modo per starci contro. Per questo motivo, il non farsi remore nell’ammettere anche pubblicamente i propri limiti, è un atto di umiltà che dovremmo coltivare più spesso e che ci farebbe guadagnare in interesse, credibilità, invito a una partecipazione più ampia;

6) Evitare di usare i nostri portali di informazione per frecciatine al veleno o rese dei conti con altre famiglie politiche con cui siamo in polemica. Si tratta di messaggi in codice che capiscono solo gli addetti ai lavori, espressi con il mezzo più sbagliato per giunta. Gli scazzi tra compagni e compagne di diverse aree dovrebbero essere affrontati in assemblee in cui ci si incontra dal vivo, se necessario ci si urla contro e ci si prende a sediate, e non in una guerra di comunicati e di accuse incrociate che alimentano rancori, rissosità e producono ulteriore frammentazione, sotto gli occhi compiaciuti della repressione pronta a farne buon uso.

Le due tipologie di sito qui delineate ovviamente non vanno intese come delle forme rigide e anzi, soprattutto la seconda dovrebbe avere dei margini di ibridazione, facendo da ponte per la prima.

I linguaggi non hanno tutti la stessa potenza

Gli strumenti comunicativi non sono tutti allo stesso livello, ma sono disposti in una gerarchia di efficacia e di ampiezza di ricezione. Il comunicato è (potenzialmente) più efficace del documento analitico, così come la frase breve e lo slogan sono (potenzialmente) più efficaci del comunicato. L’immagine è più potente della parola, e il video è più potente dell’immagini. Dobbiamo avere sempre presente questa gerarchia, per cercare tendenzialmente di convergere verso i vertici di massima efficacia. Senza illuderci, chiaramente, che il mezzo possa di per sé sopperire a un’eventuale carenza di messaggio.

Tralascio per mancanza di competenze sufficienti un’analisi sistematica delle potenzialità e dei limiti di tutti questi diversi mezzi di comunicazione, limitandomi a fornire alcuni brevi spunti rispetto a due di essi: il video e lo slogan.

Un ricorso sistematico e metodico a dei video brevi è probabilmente per noi il mezzo migliore per conseguire tre scopi:

- far parlare direttamente i soggetti sfruttati per evitare l’autoreferenzialità (non è il gruppuscolo che parla e lotta, ma pezzi della nostra classe);

- far vedere, quando parliamo noi in quanto militanti, le cose che diciamo e il tono in cui lo diciamo. Malgrado la personalizzazione delle politica che si fonda sulla centralità di un leader sia un fenomeno che esiste più o meno informalmente anche nei nostri ambienti, si tratta di un qualcosa che ideologicamente siamo portati a rifiutare. Questo principio (giusto) non deve però portarci a sottovalutare e ad espellere dal rango della nostra comunicazione quella che è una dimensione costitutiva della politica di massa, e cioè la potenza oratoria, sia essa funzionale alla persuasione e al convincimento rispetto alle proprie idee o che sia volta all’esortazione allo scontro e alla creazione di senso di appartenenza a una parte contrapposta a un’altra;

- costruire immaginario (per noi stessi e soprattutto per chi sta fuori) e memoria rispetto a un corteo particolarmente importante e riuscito o rispetto a un ciclo più o meno ravvicinato di lotte e manifestazioni.

Di nuovo, vedere e sentire sono molto più efficaci del leggere, per cui laddove manchino occorrerebbe dotarsi delle competenze adeguate per usare al meglio questo strumento.

Un altro dei mezzi di comunicazione di cui dovremo fare un uso più consapevole è quello dei cori all’interno di una manifestazione. Il cantare insieme, come ci insegna il mondo ultras, è uno degli strumenti più efficaci per cementare una comunità, per costruire un senso del noi coeso e gioioso. Occorre dunque non trascurare affatto questa dimensione dentro i cortei, cercando di stimolarla adeguatamente e in maniera intelligente. Occorre cioè selezionare e saper inventare slogan che veicolino messaggi comprensibili e che puntino alla ricomposizione di classe, all’attacco diretto del nemico di cui fare i nomi e cognomi, alla narrazione di un noi e della nostra forza, calibrandoli a seconda della composizione di un corteo e dei luoghi in cui si sfila. Meglio evitare dunque i cori troppo identitari, che possono andare benissimo alle manifestazioni in trasferta in cui si è tra compagni e compagne, ma che rischiano di apparire inevitabilmente tribali e folclorici dentro città e quartieri politicamente ancora da conquistare. Tra i due estremi della spontaneità assoluta e della scaletta rigida e predefinita con qualcuno che ne ha la regia, ci vuole un giusto compromesso. Dobbiamo essere soprattutto capaci, di nuovo, di evitare l’autoreferenzialità.

Dentro e contro i social network

Una riflessione sulla comunicazione politica all’altezza dei tempi non può prescindere dai social network come un terreno decisivo su cui cimentare strategie di propaganda e di contro-informazione. Non perché altri ambiti e altri mezzi più classici (volantinaggi, attacchinaggi, scritte sui muri ecc.) siano da abbandonare o da trascurare, anzi, ma semplicemente perché l’uso dei social richiede probabilmente un livello di preparazione e di consapevolezza che ancora forse ci manca, sia in termini di potenzialità che di rischi.

Partiamo da quello che ormai è un dato di fatto: oggi una parte consistente dell’identità delle persone, intesa come insieme di affetti, desideri e convinzioni su di sé, sugli altri e sulla realtà, si forma, si sostanzia e si rafforza nel mondo dei social network. Il virtuale è (parte del) reale.

Informare, dire la propria, interagire con gli altri, criticare e appoggiare idee, personaggi e forze politiche, marcare un’appartenenza ideale, sentirsi parte di una comunità, gran parte di ciò che una volta chiamavamo “vivere la politica” oggi è in larga parte transitato sui social, questo spazio dove pubblico e privato si fanno tendenzialmente indistinguibili.

La posta in gioco dei social network diventa dunque la produzione di identità, soggettivitàe affettività. Produzione che, proprio perché il mezzo è nelle mani del capitale e ne asseconda le tendenze, ha il più delle volte come esito delle soggettività politicamente docili, integrate e inoffensive. Se i social network tendono a rafforzare la passività, la delega, l’inappartenenza sostanziale, la difficoltà a strutturare comunità solide, e sono dunque funzionali alla logica culturale del capitale e al rafforzamento dei suoi dispositivi di comando materiale, le questioni che dobbiamo porci sono: come lavoriamo per farne un controutilizzo? Se i social network tendono a incentivare la dispersione, la fluidità, l’aleatorietà, come produrre i loro opposti, e cioè aggregazione, solidità, sedimentazione? Come riusciamo a far nascere e crescere anche dentro i social network qualcosa che poi sarà necessario portare fuori?

Posti di fronte a domande come queste, ci accorgiamo che molti dei compagni e delle compagne non sanno abitare e occupare questi spazi in senso militante. Oscilliamo fra un uso improvvisato, discontinuo e non metodico (spesso lo stesso della nostra politica pratica); un uso individualistico, narcisista ed espressivista, che non dà alcun contributo all’aumento della forza collettiva; infine, l’abbandono di questo terreno considerato moralisticamente apparente e falso, rifuggendo quell’ambivalenza che invece dovremmo essere capaci di spostare nella nostra direzione.

Piaccia o non piaccia, i social network sono uno dei terreni su cui si fa politica nel mondo contemporaneo. Compresa quella di una forza antagonista. La capacità di mettere in campo una comunicazione efficace ha perciò il valore di uno strumento di misura della coesione e coerenza ideologica di un gruppo, della sicurezza della sua identità, del suo potenziale in termini di radicamento di una visione del mondo, di un senso di appartenenza e, da ultimo, dalla capacità di attrarre nuovi partecipanti alle attività e alle lotte che organizziamo.

Proponiamo qui di seguito alcuni spunti per un uso materialistico e militante di questo terreno.

1) Continuità versus frammentazione

Vale anche per la comunicazione quello che diciamo riguardo all’azione politica vera e propria: occorre sedimentare qualcosa tra un evento e l’altro. Sia esso un conflitto in piazza o una presa di parola capace di fare scalpore e di farci apparire come un soggetto a cui guardare, per la radicalità e l’incisività della polarizzazione che riusciamo a produrre attorno all’oggetto del contendere.

Non possiamo quindi limitarci a condividere solo i nostri eventi e i nostri comunicati. Il messaggio che passa è quello dell’autoreferenzialità e dell’irrelazione tra una cosa e l’altra. Dobbiamo invece saper veicolare punti di vista di parte con continuità, cercando il più possibile di farlo in maniera collettiva (il che non vuol dire impersonale).

A questo scopo hanno una grande rilevanza i buoni siti di informazione di parte di cui abbiamo detto sopra. Quando li consideriamo dei siti per “militanti addetti ai lavori”, sulla cui diffusione non vale troppo la pena spendersi, ci dimentichiamo di come molti di noi (e mi riferisco qui segnatamente alle generazioni più giovani) sono arrivati ad essere dei militanti antagonisti, a sviluppare un’appartenenza ideologica alle ragioni della lotta, ciò è dipeso anche, se non soprattutto, dall’essere entrati in contatto con certi siti che sono stati capaci di spostare l’asse della nostra visione del mondo. Siti che hanno decostruito le narrazioni dominanti, che ci hanno mostrato l’ideologia e gli interessi della parte nemica laddove eravamo stati ammaestrati a vedere valori super partes, che ci hanno fatto vedere mondi e modi di far politica che non avremmo altrimenti conosciuto. Dobbiamo dunque cercare il più possibile di far inciampare le persone non ideologizzate nell’informazione di parte, come mezzo per sedimentare un senso del noi e la necessità di sguardi partigiani sulla società in cui ci troviamo.

Questo lavoro dovrebbero farlo sia i profili collettivi che quelli singoli, meglio ovviamente se in questa successione. Ciò serve a creare in chi ci legge e ci ascolta l’idea di confrontarsi con persone dotate di un’ideologia abbastanza coerente da veicolare punti di vista interessanti e fuori dal coro su quanto accade. Si può diventare in questo modo dei punti di riferimento, degli opinion-makers. Da sempre molta gente che non segue con assiduità e costanza la politica e non ha un’idea coerentemente definita su quanto accade, si orienta e prende posizione sulla base della forza comunicativa di un messaggio e della credibilità (accumulata) di chi se ne fa portavoce. Dunque, chi si informa con maggiore continuità sulla politica nazionale e locale (cosa che ovviamente dovremmo fare tutti), dovrebbe mettere politicamente a frutto questo bagaglio di conoscenze. Questo naturalmente non deve essere un lavoro fine a se stesso, né risolversi in micronicchie di opinionismo antagonista compiaciuto di sé; occorre sempre mirare all’incontro di nuove amicizie politiche ed essere animati dalla tensione a portare fuori e a mettere in pratica quanto si dice e si sostiene nello spazio della rete.

2) Unità e molteplicità

Occorrerebbe sempre saper mediare, quando comunichiamo qualcosa, tra l’esigenza di un messaggio univoco e la capacità di articolarlo dandogli un’impronta personale (di contenuto o di stile). Dovremmo se possibile evitare le condivisioni passive, che non stimolano un’eventuale discussione con conoscenti e amici, che possono invece decidere di prendere parola su un tema proprio in risposta a un nostro commento ad un articolo, un comunicato ecc. Il che implica anche, naturalmente, la necessità di riflettere sul messaggio che si condivide, essere pronti a difenderlo ed argomentarlo. È così che delle idee e le persone che se ne fanno portatrici aumentano in termini di credibilità e di consapevolezza. Altrimenti ci parliamo addosso.

Occorre inoltre chiedersi sempre se, quando comunichiamo qualcosa, lo facciamo come “noi” o come individui. Se ci sembra di essere più dalla parte del secondo caso, in assenza di divergenze e di dubbi ideologici, cerchiamo di impostare stilisticamente il messaggio verso il noi. Se invece non si riesce ad esprimere una voce comune, ad esempio di fronte a un fenomeno nuovo e imprevisto che spariglia gli schemi e le nostre chiavi di lettura, significa che forse è meglio momentaneamente tacere e discuterne prima tra compagni e compagne per arrivare a un punto compiutamente di parte sull’argomento. La tentazione di commentare tutto e subito come forma di “militanza social” può essere una lama a doppio taglio se non è fatta con metodo.

Non esiste uno stile, un linguaggio o una serie di contenuti standard, bensì una pluralità di strumenti che dobbiamo saper usare tenendo conto delle persone a cui (solitamente o in quello specifico frangente) ci rivolgiamo, se abbiamo la necessità di veicolare un messaggio che induca una scelta di campo rapida o di proporre un punto di vista che stimoli alla riflessione problematica. L’importante in ogni caso, credo sia sempre il tenere presente che la comunicazione politica dovrebbe essere perlopiù opera di convincimento, e non di compiacimento nelle proprie posizioni, fossero anche le più giuste del mondo.

3) Aggregare la dispersione

Uno degli obiettivi principali che guida la nostra azione politica nella società è quello di combattere l’individualismo, l’atomizzazione, ricostruire relazioni sociali e un immaginario collettivo. Come ottenere lo stesso effetto sui social network? Sembrerebbe una partita persa in partenza, un inutile dispendio di energie visto che il mezzo sembra costruito per sviluppare esattamente ciò che vogliamo distruggere. Tuttavia penso valga la pena quanto meno tentare qualche accorgimento, sempre allo scopo di mettere le basi per sviluppare qualcosa fuori dal contesto di partenza.

Prendiamo ad esempio i “Mi piace” che sconosciuti o quasi mettono a ciò che pubblichiamo sulle nostre pagine e sulle nostre bacheche, e che magari decidono di ricondividere. Si tratta di segnali (labili, facili, minimi, va bene) di consenso alle nostre idee e alle nostre pratiche che, specie laddove li vediamo manifestarsi con una certa continuità da persone di reali e fisicamente raggiungibili nei contesti che attraversiamo, ci dovrebbero comunque interessare.

Scrivere a queste persone, instaurare un dialogo, invitarle a incontrarsi per conoscersi, dimostrarsi interessati a loro e al loro punto di vista, cercare di coinvolgerle: sono obiettivi che dovremmo porci se vogliamo uscire dalle nostre cerchie. Un contatto diretto e personale su cui può nascere un amicizia reale e un rapporto di fiducia è fondamentale in questi casi per avvicinare una persona sola a una dimensione collettiva, evitando che possa sentirsi a disagio per l’iniziale estraneità delle persone che ci si trova davanti.

Dobbiamo uscire dall’idea che ci si avvicini alla politica solo per bisogno materiale o per adesione ideologica e razionale. La politica vive invece della creazione di comunità, legami, affettività. Sono questi e soltanto questi gli elementi che, saldati ai primi, creano partecipazione, appartenenza, gradi crescenti di militanza. L’intermediazione dei rapporti personali è perciò importante per sviluppare questi passaggi, e la presenza o meno di un’attenzione e di un interesse spontaneo per le persone nuove che si affacciano alle nostre attività e ai nostri contesti, può fare una differenza importante in termini di aggregazione e aumento della nostra forza come gruppo.

4) Combattere l’autoreferenzialità, produrre movimento

Il problema dell’autoreferenzialità politica e comunicativa da cui ha preso le mosse la nostra riflessione, diventa cronica nel momento in questa condizione (che può essere dovuta a motivi contingenti e del tutto superabili) produce un atteggiamento nei militanti che diventa abitudine: quello che facciamo, le manifestazioni che organizziamo, i cortei nazionali a cui partecipiamo sono roba soprattutto per militanti. Sembra in questo caso che la partita si giochi al massimo nei rapporti con militanti di aree politiche diverse dalla nostra, e non rispetto a un corpo sociale con cui interfacciarsi e da provare veramente a coinvolgere. Il che significherebbe fare uno sforzo in termini di propaganda, lanciare inviti personali e diretti a persone specifiche cercando di convincerle a partecipare, arrivare dunque ad essere più consapevoli del senso politico di una giornata, dal momento che ci si arriva con un percorso di spiegazione e di convincimento verso l’esterno che obbliga a riflettervi.

Poiché una buona parte delle mobilitazioni che ci proponiamo di organizzare sono sganciate da una copertura mediatica, tocca a noi farle montare, anche con una certa artificialità se vogliamo. In questo senso dovremmo sperimentare con più frequenza piccole operazioni sincronizzate che danno esteticamente l’idea di un’ “ondata” in arrivo, ed hanno rilievo in termini comunicativi. Tra questi c’è la disponibilità a impostare tutti insieme una medesima foto del profilo con la locandina del corteo, mezzo che favorisce la massima visibilità e riconoscibilità.

5) Conoscere la geografia della rete, andare dove non siamo

Per evitare di parlarci addosso, dobbiamo imparare a fare un uso offensivo dei nostri contenuti, portarlo sui terreni in cui c’è già in teoria un’alta visibilità per sfruttarli come punti di diffusione; e soprattutto per uscire dalle nostre cerchie selezionate di conoscenze e di amicizie politiche che rischiano di darci delle percezioni falsate rispetto al consenso che le nostre azioni e le nostre parole d’ordine possono riscuotere o meno. Due luoghi che forse sarebbe bene frequentare più spesso sono le pagine facebook dei media locali e i gruppi “cittadinisti”.

Ormai anche i media mainstream hanno capito che la presenza sui social network è fondamentale per sopravvivere e possibilmente sbaragliare i concorrenti. I media locali ad esempio puntano sempre più ad avere una buona visibilità su facebook, e ciò fa sì che sulle questioni più accese l’elenco dei commenti agli articoli diventi una specie di agorà virtuale. Pur da prendere con le molle, si tratta spesso di un buon termometro per misurare estensione e intensità di un determinato flusso di emozioni con cui fare i conti.

Questo chiacchericcio che vediamo manifestarsi sotto gli articoli dei media nazionali risulta in genere poco interessante per noi (anche fosse a favore delle istanze per cui ci battiamo) perché pressoché impossibile da aggregare, ma se parliamo di media locali le cose stanno in maniera un po’ diversa. Lì infatti siamo di fronte a un pubblico di persone tendenzialmente situate in un territorio che abitiamo come singoli e come presenze politiche organizzate, persone che dunque possiamo fisicamente incontrare e su dovremmo cercare di compiere un’opera di proselitismo.

Ristabilire la nostra verità di parte rispetto a una narrazione parziale, incompleta o spiccatamente a noi nemica rispetto a una vicenda di cui siamo parti in causa; attaccare i nostri nemici con nome e cognome, assicurando un’ampia visibilità a delle verità scomode per loro e potenziandone il danno in termini di opinione pubblica; farci conoscere, come individui e realtà organizzate, da persone a cui non riusciamo ad arrivare: sono tutte possibilità che abbiamo a nostra disposizione su questo terreno. Affacciarsi in un territorio virtuale che non è nostro non è ben vedere qualcosa di diverso dall’andare a fare un volantinaggio in un quartiere per noi sconosciuto. Ci si fa vedere, si possono fare nuovi amici e incontrare i nemici, e le due cose vanno ovviamente insieme.

Porsi il problema di come avere una qualche presenza nei luoghi della rete in cui si materializzano e si riproducono umori collettivi soggetti a prendere diverse direzioni, diventa un qualcosa da non sottovalutare, specie in una fase in cui l’estrema destra usa questi luoghi per sdoganare le proprie parole d’ordine razziste, per far sì che anche i fascisti diventino socialmente accettati e parte del gioco democratico, piegando in senso xenofobo certi tratti tipici dell’identità locale: tutti elementi che possono essere da loro monetizzati, tanto su un piano elettorale che di radicamento effettivo su un territorio.