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La gentrification del decoro

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Giovanni Semi interviene sui fatti di Piazza Santa Giulia, le ordinanze anti-movida, la gentrification e il decoro urbano

Alcuni anni fa, Tamar Pitch scrisse un piccolo saggio intitolato Contro il decoro, per Laterza. Un testo che anziché invecchiare, ringiovanisce di mese in mese, invitandoci a prestare rinnovata attenzione alla tesi di questa sociologa. L’idea centrale era quella della diffusione di una cultura del controllo volta a stabilire e normare il ‘decoro’, concetto quanto mai problematico per le scienze sociali. Come fare infatti a stabilire delle caratteristiche condivise, universalistiche, in una parola democratiche, di decoro? Non è ovviamente possibile. Anzi, quando si invocano concetti con forte valenza morale, l’intento è quello di tracciare confini, stabilire inclusi ma soprattutto esclusi. Pitch segnalava la diffusione di ordinanze, dibattiti, regolamenti volti a normare il decoro, soprattutto nello spazio pubblico. Dal 2013 ad oggi, i tentativi di definire lo spazio pubblico continuano incessantemente e, anzi, abbiamo assistito in Italia a una recente spinta regressiva e fortemente antidemocratica con il decreto 20/2/2017 a firma Minniti e Orlando. Come è noto questo decreto, poi convertito in legge, mette nero su bianco che esiste un qualcosa come la ‘sicurezza urbana’ e che questa debba essere definita in quanto bene pubblico relativo a vivibilità e decoro delle città. Contribuendo per eccesso a normare ambiti come la ‘vivibilità’ e il ‘decoro’, come già detto degli assurdi dal punto di vista concettuale, il legislatore compie un passo ulteriore: stabilisce che la regolamentazione della sicurezza urbana vada individuata attraverso dei ‘patti per la sicurezza urbana’, di volta in volta siglati tra Stato (attraverso il Prefetto) e Comuni. Attraverso questi patti, i Comuni hanno il potere di predisporre delle ordinanze che promuovano ‘il rispetto del decoro urbano’ in aree della città di particolare pregio/importanza/valore.

Dal punto di vista di chi si occupa di città, questo intervento normativo è in continuità con le politiche che negli ultimi trent’anni circa hanno trasferito onori e oneri alle città. Queste ultime sono state rese responsabili del proprio sviluppo ma anche schiacciate da un trasferimento di potere avvenuto in un’epoca di lunga e diffusa crisi, durante la quale sulle città sono stati soprattutto scaricati costi e compiti, in cambio della presunta maggiore autonomia concessa, ad esempio, dalla riforma elettorale del 1993 e da cui sono emersi i sindaci di diretta elezione.

Questa lunga premessa è necessaria per inquadrare i recenti fatti di Torino, quando nei giorni attorno al 20 di giugno il quartiere di Vanchiglia e l’area attorno alla Chiesa di Santa Giulia, sono stati teatro di scontri tra polizia in tenuta anti-sommossa e popolazione locale. Questi riot nostrani, ironicamente ribattezzati apericelere, sono il punto di arrivo di una stagione di sviluppo urbano e probabilmente quello di partenza di qualcos’altro.

Cosa si chiude con i fatti di Santa Giulia?

Una lunga fase di sviluppo locale torinese, iniziata con la sindacatura di Valentino Castellani nel 1993, e caratterizzata da quell’agenda urbana ‘pirotecnica’, come battezzata da Belligni e Ravazzi nel loro prezioso volume La Politica e la Città. In sostanza, il regime urbano torinese, da altri anche denominato il Sistema Torino, ha fatto una scelta consapevole e ragionata di sviluppo locale attraverso la produzione di eventi culturali e turistici, per condurre quella che era stata la capitale manifatturiera italiana verso uno sfruttamento terziario e turistico. In questo quadro, che vede come culmine l’evento olimpico del 2006, ma si nutre in realtà di una miriade di interventi di agopuntura urbana volti a modificare volto e usi della città, in particolare quella centrale, lo sviluppo di fenomeni di nightlife e movida non è che il correlato. In letteratura, questo insieme di interventi di mutamento di senso della città centrale, attraverso pratiche di rigenerazione culturale, si chiama gentrification anche se all’interno di questo campo è bene distinguere tra una gentrification classica e la gentrification commerciale. Se la prima è quella che ha vissuto l’area del Quadrilatero Romano di Torino tra la metà degli anni Novanta e la metà dei Duemila, dove la presunta riqualificazione è anche un mutamento della popolazione residente e si nutre dunque di fenomeni espulsivi più diffusi, radicali e conflittuali, la gentrification commerciale è essenzialmente una sostituzione di consumatori e commerci. A Torino, come altrove, questa seconda gentrification è sia frutto di una scelta, sia legata alle contingenze globali. La presenza nelle città di crescenti popolazioni giovani, istruite (o in corso di istruzione), variamente legate alla città terziaria e che hanno a disposizione sempre meno reddito e sempre maggiore tempo (o quantomeno: tempo liberato rispetto a quello fortemente normato di fordista memoria) offre una straordinaria opportunità di estrazione di rendita attraverso la gentrification commerciale. Se questo è il quadro globale, dobbiamo aggiungere le diverse ondate di liberalizzazioni, sia originate a livello europeo e poi lentamente recepite negli ordinamenti nazionali, sia quelle nazionali e addirittura locali, dove il potere regolamentare dei sindaci è andato spesso in direzione di normare ‘in deroga a’ per usare la leva commerciale nelle proprie città e sviluppare distretti del consumo e notturni.

Torino ha un debito pubblico che naviga attorno ai 3 miliardi di euro e frutto, in buona misura, di tutti gli interventi di riqualificazione infrastrutturale prodotti dal ’93 in poi. Se a questo quadro contabile disarmante aggiungiamo i patti di stabilità e le numerose misure di contenimento della spesa pubblica locale cui è stata soggetta al pari delle altre città italiane, capiamo anche perché, qui come altrove, sia stata fatta la scelta di spingere sul recupero degli oneri di urbanizzazione, da un lato, e sull’estrazione di rendita fiscale dall’altro (per tacere, si fa per dire, delle disperate cartolarizzazioni e cessioni varie di beni pubblici ad altri soggetti, come i fondi pubblico-privati o alla Cassa Depositi e Prestiti).

In quest’ottica di crisi, dunque, concedere a sempre nuovi dehors di togliere posti auto ai residenti è servito a recuperare tasse. Così come oltre alle occupazioni di suolo pubblico, le infinite concessioni di licenze e permessi, hanno consentito il recupero di un gettito altrimenti in diminuzione (perché anche se l’aliquota fiscale sui redditi è tra le più alte d’Italia, i disoccupati non producono reddito e dunque la fiscalità locale in fase recessiva tende ad aggravare la situazione contabile). Insomma, le amministrazioni cittadine hanno spinto sulla leva commerciale perché era una delle poche fonti di estrazione di risorse e Torino non fa eccezione a questa dinamica.

Il contraltare di queste politiche è ovviamente la crescente conflittualità locale, se è vero che diverse aree della città (si pensi a San Salvario e ai dintorni di via Baretti, oppure a Piazza Vittorio, fino al caso di Santo Giulia) hanno visto cambiare drammaticamente il proprio equilibrio commerciale: sempre meno commerci di prossimità, aperti di giorno e rivolti ai residenti, e sempre più locali serali, dagli orari e clientela in forte contrapposizione con la popolazione residente. I comitati contro la movida sono dunque fioriti e il tema è entrato nell’agenda politica delle passate elezioni amministrative, certamente contribuendo ai successi della giunta pentastellata che si trova ora a un anno dall’insediamento.

La saldatura tra Minniti e Appendino chiude dunque una fase, quella della diffusione della gentrification commerciale nel quadro di uno sviluppo pirotecnico della città. La chiude con il manganello e infinite polemiche, ma questo è probabilmente anche il risultato di due mesi straordinariamente caldi in città, legati all’arrivo di un nuovo Questore e di una non troppo felice gestione dell’ordine pubblico sia durante il 1 Maggio che durante la serata della finale di Champions League e dei noti fatti di Piazza San Carlo. Le contingenze locali non devono però offuscare il portato dell’applicazione dei nuovi dispositivi in materia di sicurezza urbana. Ora il sindaco può negoziare col prefetto di emettere ordinanze che intervengono direttamente sui comportamenti ‘decorosi’ da tenere nei salotti riqualificati della città. Così facendo si mette il sigillo a vent’anni di sviluppo urbano fortemente marcato da meccanismi di gentrification che hanno prodotto progressive espulsioni di popolazioni meno abbienti dai centri storici sempre più rifunzionalizzati in termini turistici e culturali. In particolare, si mette in chiaro che l’uso decoroso della città centrale è sì quello turistico e culturale, ma ammette sempre meno contraddizioni come quelle generate dalla diffusione di consumo di sostanze alcoliche a basso costo (quindi più democratiche e universalistiche, anche se meno cool).

I fatti di Santa Giulia dunque chiudono una fase e ne aprono un’altra, comprensibilmente di difficile interpretazione ora. La repressione di comportamenti ritenuti indecorosi dal legislatore e forse da qualche maggioranza in via di consolidamento, come l’allontanamento di mendicanti, migranti, soggetti marginali e alternativi, è in qualche misura l’esito che tutti si attendevano da queste nuove disposizioni. Che i civili consumatori di aperitivi potessero trasformarsi in nouvelles classes dangereuses non era però facile da prevedere. Se diventeranno classe per sé e si porranno come soggetti rivoluzionari, lo capiremo nei prossimi anni. È certo, fin da ora, che l’interpretazione legislativa che viene data al concetto di bene comune in chiave urbana è fortemente regressiva. Forse è bene articolare bene ciò che è veramente comune oggi con quello che invece dovrebbe essere pubblico. Detta altrimenti, anziché ipotizzare comunità che in comune hanno molto poco (per poi accusarle di essere spaventate o impoverite), sarebbe più saggio tornare a parlare di cittadini, di diritti e di giustizia.