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Dentro e contro il tempo dell'Artecrazia

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Elvira Vannini recensisce "Artecrazia" di Marco Scotini

"Non c'è più retorica curatoriale o innovazione culturale in grado di occultare le reali condizioni sociali ed economiche dell'arte contemporanea: e cioè quel «grande burattinaio» che era (ed è) il mercato per Adam Smith. [...] «Autonomia dell'arte» continuano a rivendicare artisti, curatori e mercato: ma quale?“[1]

Il supereroe della nostra storia, raccontata attraverso una disamina serrata nelle pagine di Artecrazia. Macchine espositive e governo dei pubblici, ultima pubblicazione di Marco Scotini uscita per DeriveApprodi con prefazione di Christian Marazzi, è (ancora una volta) il capitalismo e le sue forze oscure, intrinseche e impersonali, quelle della famigerata «mano invisibile globale» che ora è sotto gli occhi di tutti e pare aver fagocitato anche il mondo dell'arte in maniera capillare – quel mondo che si scopre, al contrario, la più paradigmatica industria creativa in quanto dispositivo di soggettivazione neoliberale per eccellenza. Ma reiterando la condizione d'essere fondativa del valore d'esposizione nell'economia capitalista, ossia occultare il segreto della merce esponendolo alla vista, è talmente evidente che nessuno lo vede.

A partire da una implacabile e spietata decostruzione dell'apparato sociale ed economico dell'Artecrazia e attraversando varie formazioni discorsive e interdisciplinari, dopo aver letto la densa raccolta di testi di natura saggistica, insieme a interviste e contributi inediti, che smascherano le perverse concatenazioni tra dominio, economia, potere e arte, il lettore non può non giungere a una visione del sistema artistico attuale inseparabile da un processo di svelamento progressivo, delle sue mistificazioni ideologiche, delle retoriche che lo legittimano, delle forme di cattura delle condotte e dei differenziali di libertà, delle soggettività contemporanee espropriate di ogni possibilità critica o eversiva.

Quello dell'Artecrazia si rivela un riuscito neologismo che rimanda all'altra faccia dell'arte: il governo di un numero ristretto di eletti in grado di imporre la propria funzione assegnando ruoli, confezionando pubblici obbedienti e addomesticati, gestendo risorse e ingenti regimi patrimoniali; il termine ha una accezione negativa e allude al perfetto compimento di una estetizzazione del politico, derivata dall'ultima fase del futurismo, nella sua massima adesione al fascismo, tanto che divenne il nome di una rivista ufficiale (1934-39) come esplicita richiesta di riconscimento e inclusione dentro i ranghi del potere di Benito Mussolini.

L'Artecrazia – ci dice Scotini senza mezzi termini o sfumature - non è "l'arte al potere", così come è stata rivendicata dai movimenti del '68, ma piuttosto è il potere che si serve dell'arte per far passare le proprie forme di cattura e di sublimazione, oltre che di sfruttamento dissimulato da un obsoleto, quanto diffuso, retaggio modernista (eurocentrico e colonialista) che il concetto stesso di arte promette. Il potere è sempre un rapporto di forza ma l'Artecrazia è uno stato che rende irriconoscibile il nostro asservimento.

Senza assumere una postura accademica, ma analitica, emerge una radicalità di pensiero che non fa concessioni a un sistema cui pure l'autore appartiene, con la scomoda irriducibilità di un punto di vista di parte – in ogni pronunciamento sia teoretico che espositivo – nella prima (e seria) contro-investigazione dell'intera sfera artistica e dei suoi segmenti produttivi, sia italiana che internazionale. E se all'inizio (quando i primi contributi erano apparsi) non c'erano ancora gli strumenti e questa fenomenologia ci sfuggiva, oggi, grazie anche a molti dei testi presenti nel volume, diventa inesorabilmente chiaro ed evidente come il lato occulto (abilmente celato) dietro la macchina espositiva, costituisca lo scenario principale in cui si esercita il controllo governamentale e autoritario dell'arte e della cultura. Artecrazia rappresenta anche una feroce critica all'economia politica della produzione artistica ma si interroga, al tempo stesso, sulla capacità affermativa e tattica, di sperimentazione estetico-linguistica delle funzioni creative e semiotiche riconoscendo un grande potere di liberazione dell'arte: quello dell'immaginazione politica.

L'emersione, delle idee e dei concetti contenuti nel libro, si accompagna alla fine di una possibilità (l'archivio della disobbedienza) e l'inizio di un nuovo regime di visibilità con cui l’arte si mostra oggi. Dalle primissime comparse, con l'intervista a Virno del 2003, Disobedience Archive - costruito con la collaborazione diretta di attivisti, artisti e filmmaker, dopo oltre dieci anni di ricerca, esposto nelle principali istituzioni museali internazionali - è cresciuto nel tempo raccogliendo istanze autonome di insorgenza e conflitto, archiviando una moltitudine di proteste molecolari, dei “focolai d’enunciazione” delle forme della disobbedienza sociale. L’archivio cercava di ricostituire una genealogia della mobilitazione antagonista, a partire dai modi della sua rappresentazione dentro lo spazio dell’arte, ricollocando due straordinari cicli di lotte, tra il "lungo inverno" degli anni 80/90 e la contro-rivoluzione neoliberale: dall’uscita italiana del ’77 alle proteste post-Seattle fino ai movimenti insurrezionali che hanno scosso il mondo arabo, preludio inconsapevole delle forme di sollevazione globale, dentro la crisi, dei vari Occupy.

Uno spazio dell'arte che in quegli anni si credeva potesse avere un reale potere emancipatorio e trasformativo, di ridistribuzione sociale della creatività, di opposizione e di soggettivazione politica. Un elemento attivatore è stata la crisi finanziaria del 2008 quindi la concezione del libro nasce insieme alle proteste dei vari Occupy contro il capitalismo finanziario. La collocazione teorico-estetica del pensiero radicale italiano e del movimento del 77 sul piano delle emergenze culturali, si accompagnava alla convinzione della potenza creativa delle lotte ma al tempo stesso, e ormai inevitabilmente, si inaugurava, all'incirca dalla crisi dei subprime fino al collasso delle banche mondiali, un nuovo regime con cui l'arte (ostaggio della finanziarizzazione) si imponeva - e si impone ancora oggi - come macchina governamentale: ecco l'Artecrazia.

"L’identificazione, se ancora fosse possibile, di una “esteriorità” sociologica dell’arte ai rapporti capitalistici di produzione potrebbe riabilitare una categoria modernista quale è quella dell’engagement. Cioè, l’idea di una supposta estraneità dell’intellettuale e dei tecnici ai processi di produzione per cui si possa ancora parlare di una possibile “politicizzazione” della cultura e del conseguente dovere di “impegnarsi” per i suoi attori. Ma “politicizzare” la cultura, come recentemente è stato rivendicato, comporterebbe di nuovo riconoscere che la cultura è, per statuto, fuori dell’economia di mercato e delle strategie di potere“[2].

Il sistema dell'arte come punta avanzata del neoliberismo è oggi uno dei principali agenti di "naturalizzazione" della ricchezza in mano a pochi e delle disuguaglianze sociali, tanto che per mascherare tutto questo, nella filiera produttiva del capitalismo postfordista (e dei suoi perversi meccanismi di sfruttamento) sovrabbondano pratiche dirette a far apparire la gestione di quella stessa ricchezza un'offerta culturale.

"Pensare di poter affrontare un discorso a matrice culturale prescindendo dai rapporti di produzione e di divisione del lavoro e di consumo non è soltanto ingenuo nè semplicemente reazionario. É dichiaratamente ideologico"[3].

L'arte non può essere ridotta a un paradigma estetico neo-romantico, non si colloca in un limbo extra-produttivo, al di fuori del sistema di produzione, non è uno spazio del tempo "liberato" e come tale sottratto ai rapporti capitalistici. Non esiste una autonomia dell'arte, tantomeno dal suo contesto: l'opera non è una idealità romantica, astratta o metafisica ma è calata dentro un preciso rapporto sociale, quello del capitale. D'altra parte, con grande destrezza il sistema dell'arte nasconde tutto quello che non è convienente mostrare, ossia le tracce della sua produzione: budget, alleanze politiche, economiche e finanziarie.

La configurazione sociale (del sistema dell'arte attuale) è incentrata così sulla dequalificazione dei saperi, la precarizzazione della forza-lavoro, la falsità delle retoriche di mediatizzazione e non ultimo, l'accumulazione di ingenti assi patrimoniali e regimi proprietari corposi, al centro della finanziarizzazione di processi estrattivi, della concentrazione di capitali, di squilibri di genere, spesso in alleanza con processi di gentrificatione e di gestione politica della città.

Emerge, sul terreno dello scontro politico, la questione della divisione, come disparità economica e disuguaglianza sociale, che diventa il tratto prevalente ma anche il grimaldello delle possibili rotture, le soggettivazioni di questa divisione, che resta una forte e violenta asimmetria tra rapporti di proprietà e sistema di produzione. Come trovare forme di rifiuto, di sottrazione? Quali sono le vie di fuga? Che tipo di controllo possono esercitare gli artisti (o i pubblici) sulle macchine espositive contemporanee? O per essere più precisi: come si rompe l'Artecrazia?

La matrice economica di ruoli e funzioni è quella tendenza neo-arcaista, come l'ha definita Maurizio Lazzarato, che nell’arte tenderebbe a re-imporre i ruoli tradizionali e specifici (l'artista, l'opera, il fruitore, il curatore) e il concetto di proprietà tipico dell’estetica modernista. Gli attuali processi di enunciazione e di distribuzione dei ruoli (chi rappresenta chi, quali sono i ruoli, l’artista, il collezionista, il critico, ecc.) e i dispositivi di governance (ossia i luoghi di legittimazione di questi ruoli, i musei, i festival, e le Biennali) sono assoggettati ai processi di mercato e alla dimensione biopolitica del capitalismo globale.

La cattura (e il meccanismo di assoggettamento a cui siamo sottoposti) non soffoca le libertà e le eccedenze ma si basa sulla loro continua valorizzazione: quindi auto-promozione e auto-valorizzazione coincidono con l'auto-asservimento. È una forma di espropriazione che riesce a mimetizzarsi al punto da diventare irriconoscibile. Secondo Benjamin il fascismo consisteva nel separare i diritti sociali dall'espressione creativa. Oggi al tempo dell'Artecrazia, il ritardo del sistema sociale è compensato dall'illusione dell'emancipazione creativa. Occorre allora chiedersi – e come lo stesso Benjamin non ha mai smesso di fare - di quale libertà stiamo parlando se poi un soggetto ha il consenso e la possibilità di esprimersi ma senza vedere riconosciuti i propri diritti e le condizioni sociali?

“L’arte è dentro la divisione del lavoro come ogni altra attività – ha sottolineato ancora Lazzarato – con l’artista cambiano solo le tecniche di subordinazione”, infatti “gli artisti credono di possedere un apparato che in realtà possiede loro e su cui non esercitano nessun tipo di controllo” (Benjamin, L’autore come produttore, 1934) così come è impossibile “cancellare l’evidenza che neppure la proletarizzazione dell’intellettuale riesce a fare dell’intellettuale un proletario”, quest'ultimo, anzi, è chiamato a lottare contro forme di potere di cui è al tempo stesso, oggetto e strumento. La complicità inconsapevole e la sussunzione (nella maggior parte dei casi) di quella che Marazzi ha definito “classe sterile” contribuisce a consolidare l'economia creativa.

Oggi molte istituzioni (Biennali, festival, forum, network ma anche esposizioni e lavori artistici) assumono come oggetto d'indagine la politica radicale, che spesso è semplicemente enunciata come puro regime di rappresentazione, ossia le dichiarazioni non si trasformano mai in spazi di soggettivazione.

“Non si tratta più di registrare lo stato di subordinazione della politica all’economia finanziaria. È necessario capire perché, in tempi di governi tecnici, la politica (come esperimento, come promessa, come trasformazione) o, meglio, la sua “immagine” sia diventata il brand per eccellenza della macchina espositiva: il motore stesso, in sostanza, della valorizzazione capitalistica e dello sfruttamento delle industrie creative”[4].

Una modalità reazionaria di mettere in relazione la politica all’arte presuppone che l’arte sia, in un modo o nell’altro, una rappresentazione delle questioni politiche. Ma esiste anche una prospettiva molto più interessante: quella di guardare alle politiche del campo dell’arte intendendolo come ambito di lavoro. Semplicemente, concentrarsi su ciò che l’arte fa – non su ciò che mostra.

Il libro si struttura in tre sezioni, dedicate alle esposizioni, ai pubblici e agli schermi (ossia al formato del cinema) articolate a partire dalla centralità del rapporto tra macchine espostive e controllo dei pubblici. Dalla critica del «brand Manifesta», vero e proprio paradigma del progetto post-fordista nell’ambito dell’Unione Europea ai molteplici gli episodi di governo dei pubblici fino al fenomeno della ‘biennalizzazione’ che rappresenta meglio di ogni altro il sistema attuale, quel presidio sul tempo che la sua periodicità garantisce: macchine estrattive di valore e di denaro che fissano proiezioni, desideri e sistemi di attese, creano un alto numero di pubblici, sono il motore dell’industria del turismo e del marketing urbano nella logica dell’economia evenemenziale. Diciamo che sono una macchina governamentale perfetta: con la promessa della sperimentazione o della creatività, promuovono comportamenti e condotte, anche attraverso una forma di accumulazione e monetarizzazione del tempo e della socialità che non rientra più nel valore di uso né in quello di scambio, ma è il “valore d’esposizione”: i pubblici si consegnano come servitù volontaria a delle procedure di governance e dipendenza non più contrattualizzabili, sono i nuovi lavoratori al tempo dell'Artecrazia.

Paradigmatica la sezione sul cinema (il format dello schermo dopo quello della biennale) che ha certamente contribuito alla costruzione della società spettacolare agli albori del secolo e che diventa anche la sua fuoriuscita come strumento antagonista (essere catturati dentro l’immagine ma anche essere liberati dalla cattura di un immagine), infatti gli autori analizzati smontano e decostruiscono l’apparato cinematografico: dal contro-campo di Guy Debord, il cinema moltiplicato di Alberto Grifi, il cinema-lavagna di Oliver Ressler, solo per citarne alcuni.

Come esercitare rapporti di forza che possano colpire l’organizzazione del tempo sociale e quello dell’economia, formare contro-pubblici e cioè figure che non vogliono più far parte del pubblico dell’arte, individuare strategie di esodo che siano all’altezza del precariato esistenziale e lavorativo attuale? Come occupare le infrastrutture logistiche ed economiche delle istituzioni internazionali e creare fratture di agibilità politica?

Solo riappropriandosi di uno spazio della critica - e a partire dal carattere emancipativo che il regime estetico può veicolare - si potrà dare quella forza linguistica, quella tensione intellettuale e di prospettiva per rivendicare tutti i rimossi (politici), decostruire la retorica degli apparati e le narrative che ci hanno assegnato, opporre nuove forme di rifiuto, con un uso offensivo del pensiero e della scrittura. Ritornare ad aprire gli archivi, lasciando insorgere la memoria e i documenti visuali di enunciati collettivi ritenuti marginali, e come diceva sempre Benjamin occorre liberare il passato, "vendicarsi" di tutti quelli che sono stati sfruttati, riscrivere contro-storiografie militanti.

Mettere in discussione il potere costituito è stato uno degli aspetti più rilevanti di certe pratiche artistiche, o istanze attiviste, di resistenza culturale, che dagli anni Sessanta in poi hanno cercato in vari modi di sovvertire i luoghi, le espressioni e le figure che questo potere ha incarnato; gli artisti della prima ‘onda’ della Critica Istituzionale che, negli anni Sessanta e Settanta, “hanno investigato le condizioni del museo e campo dell'arte, allo scopo di opporsi, sovvertire o uscire dalla rigidità delle strutture istituzionali”[5]. Oggi però, occorre "superare l'eredità dell'Institutional Critique, in favore di un punto di vista socio-lavorista, in grado di ricondurre l'arte al livello di ogni altro lavoro della macchina sociale produttiva, è il compito attuale degli operatori artistico-culturali"[6].

Diventare “soggettività incatturabili”, suggerisce Scotini, lavorare su forme di mimetizzazione e di teatro che non offrano possibilità di identificazione. Attaccare, denunciare e decostruire le narrative e le egemonie di discorso per ricostituire processi di contro-soggettivazione e spazi di ingovernabilità e di rottura, utilizzare la forza accumulata per fare un salto in avanti, riscoprire il general intellect come strumento di trasformazione dell'esistente in crisi, con il riposizionamento di soggettività nel tempo, che possano lavorare 'contro' il tempo. “La critica sarà pertanto l'arte della disobbedienza volontaria, dell'indocilità ragionata” che riconosce al soggetto il diritto di interrogarsi sul rapporto tra verità e potere, si chiedeva Foucault perchè, in fondo, che cos'è l'attitudine critica se non: “l'arte di non essere governati o, se si preferisce, l'arte di non essere governati in questo modo e a questo prezzo”[7].



[1] Marco Scotini, Artecrazia. Macchine espositive e governo dei pubblici, DeriveApprodi, Roma, 2017. p.139.

[2] Marco Scotini, Artecrazia, ibid., p.10.

[3] Marco Scotini, Artecrazia, ibid., p.142.

[4] Marco Scotini, Artecrazia, ibid., p.35.

[5] Gerald Rauning, Art and Contemporary Critical Practice: Reinventing Institutional Critique, Prefazione, xiv- xv, London: mayfly, 2009.

[6] Marco Scotini, Artecrazia, ibid., p.13.

[7] “o l'arte di non essere eccessivamente governati”, Michael Foucault, Illuminismo e critica, Donzelli Editore, Roma, pp. 35-37.