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Scommettere sul presente: andare dove non siamo mai stati

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Intervento di Veronica Marchio al convegno “La política contra la historia” (Madrid, 3-5 maggio 2017)

Ho preparato questo intervento a partire dalla mia esperienza militante, frutto di analisi teoriche e pratiche politiche collettive, un’esperienza che sin dall’inizio ha saputo tenere insieme la cosiddetta teoria con la pratica politica ossia la concreta capacità di utilizzare concetti e analisi teoriche senza farli girare a vuoto, ma mettendoli immediatamente a verifica nel reale e nella materialità dei rapporti sociali esistenti.

Senza ripercorrere i vari momenti dell’operaismo italiano mi limito a soffermarmi su come noi, una parzialità militante, abbiamo utilizzato gli strumenti concettuali che all'interno di esso sono stati elaborati. Innanzitutto l’operaismo non è da considerare come un feticcio e questo ha significato in primo luogo non cadere nella trappola per cui se qualcosa ha funzionato in un periodo storico funzionerà in modo speculare in un altro. Al contrario abbiamo individuato almeno due approcci utili per servirsi di alcuni strumenti concettuali: un approccio che si soffermi sulle continuità di metodo, quindi operaismo come metodo e il secondo che guardi all’operaismo come punto di vista parziale e conflittuale.

Ma cosa ha significato parlare di operaismo come metodo sia da un punto di vista teorico che di pratica politica? Cercherò di spiegare perché alcuni strumenti concettuali riteniamo non debbano essere abbandonati ma, nello stesso tempo, come questi debbano essere utilizzati per evitare che rimangano appunto dei meri concetti universalmente validi nelle sfere intellettuali che si dicono critiche, ma mai al servizio della lotta di classe.

L’esigenza di metodo che ci si è posta davanti come collettivo militante che vuole organizzare delle lotte antagoniste dentro, contro e fuori dall’università, è stata immediatamente quella di leggere la composizione sociale che ci siamo trovati davanti, in una fase storica in cui le lotte, intese come lotte massificate, non ci sono. Una fase storica molto simile a quella che negli anni ’50 gli operaisti vivevano. Una fase storica in cui la crisi diventa il principale dispositivo di governo delle aspettative sociali e determina l'irruzione della brutalità del reale nel mondo delle teorie e dei concetti. L’irrompere della crisi come permanente ci costringe a ridefinire il rapporto tra crisi e lotte che non si dà come un rapporto lineare in cui se aumenta la crisi aumenteranno le lotte, ma al contrario lo scenario che ci troviamo di fronte vede nella crisi il decrescere delle aspettative sociali e l’accettazione delle condizioni di vita imposte dall’alto.

Il metodo operaista in quegli anni fu quello di andare dove non erano mai stati, di non accontentarsi del già noto – una classe operaia che aveva coscienza di classe ma che non voleva più nulla – a partire da quei concetti di composizione di classe e produzione di contro-soggettività sui quali vorrei soffermarmi.

Il concetto di composizione di classe è un concetto complesso: essa si compone, ci dice Alquati, di una parte tecnica e una parte politica laddove la prima indica l'articolazione capitalistica della forza lavoro nel suo rapporto con le macchine e la seconda la costruzione della classe come soggetto tendenzialmente e potenzialmente autonomo. Nel rapporto tra questi due elementi della composizione di classe si è spesso caduti nella trappola di considerare la composizione tecnica come una fotografia dello sfruttamento ritenendo ad esempio il soggetto più avanzato per il capitale quello più avanzato per le lotte; oppure all’opposto pensare che la composizione politica sia già di per sé antagonista. Tutto ciò senza leggere il movimento e le trasformazioni della composizione a partire dal concetto di soggettività o distorcendo questo concetto: parlare di soggettività non significa parlare di qualcosa che è già autonomo, antagonista e libero, significa parlare di due processi di soggettivazione che attraversano la composizione, uno capitalistico e uno contro e dunque antagonistico.

Il concetto di soggettività allora è per noi uno strumento centrale in quanto diventa un campo di battaglia, una posta in palio, esso è caratterizzato, come ci dice Alquati, da storicità e socialità, è un processo in divenire e in continua trasformazione caratterizzato da credenze, immaginario, formazione; il nostro compito è proprio quello di situarci in questo campo di battaglia per dare un’altra direzione ai processi di soggettivazione capitalistici.

A partire da questi concetti, a partire dal contesto di crisi permanente e impoverimento generalizzato, abbiamo dato due direzione al nostro metodo militante: in primo luogo la ricerca come punto di vista e sguardo sulla realtà, come stile della militanza, come possibilità di con-ricerca ossia produzione, costruzione e organizzazione della lotta, come capacità di trasformazione dell’esistente; in secondo luogo la capacità di muoversi nell’ambivalenza e nell’ambiguità della composizione di classe.

Ancora una volta sono gli operaisti ad aver indicato questa strada: negli anni ’50 i migranti venuti dal sud Italia al nord alla ricerca di lavoro erano grezzi, non illuminati dalla coscienza di classe eppure, attraverso l’inchiesta e la conricerca davanti ai cancelli delle fabbriche, gli operaisti capirono che erano proprio loro a volere tutto e a partire dalla propria condizione materiale di sfruttamento, a partire dall’odio verso se stessi in quanto prodotto del capitale.

Tanto più oggi nella crisi l’ambiguità e l’ambivalenza della composizione sono dei tratti che non possiamo fare a meno di considerare perché se non lo facciamo saranno loro a irrompere su di noi o peggio ancora quell’ambivalenza che si sfoga oggi in sentimenti di rabbia e frustrazione dirompenti, prenderà altre direzioni rispetto a quella antagonista, costringendo noi a rimanere nella compatibilità con il nemico e nella gestione dell’esistente.

E allora sono almeno quattro i punti che noi abbiamo individuato come centrali a partire dall'operaismo, per sapersi muovere nell’ambivalenza:

a) la rabbia sociale esiste, soprattutto nella crisi, il problema non è che la sua esistenza è qualcosa di brutto o che non ci piace, perché esisterà a prescindere da noi, bensì questa rabbia andrà direzionata verso l’alto, l’individuazione di un nemico sarà allora centrale nel processo di contro-soggettivazione.

b) ciò che si deve rompere è l'accettazione della propria condizione di vita: quando parliamo di aspettative decrescenti stiamo dicendo che la soggettività normalizza il fatto di avere poco e si accontenta di sempre meno. L’aspettativa è però sempre legata ad una promessa: se tu accetti oggi ti prometto che in futuro avrai di più, è svelando che la promessa sarà tradita che si potranno rompere i meccanismi di accettazione.

c) Parlare di processi di soggettivazione e contro-soggettivazione non significa ancorarsi a delle identità rigide e tecniche, ma essi devono avere come obiettivo strategico quello della ricomposizione di classe. Cosa significa ricomposizione? Sicuramente non somma di identità bensì unione di interessi in continuo divenire.

d) Individuare nell'ambiguità e nell'ambivalenza delle linee di tendenza intese come possibilità di contrapposizione, trasformando la frammentazione e scomposizione delle soggettività nell'interesse del nemico, in contrapposizione a partire dalla materialità delle condizioni e nell'interesse della nostra parte.

Alla luce di quanto detto fin ora mi piacerebbe riportare alcune esperienze pratiche e di lotta che hanno visto la messa a verifica e la messa in pratica di questi strumenti concettuali e parto col soffermarmi sulle soggettività e sui terreni che abbiamo individuato come strategicamente centrali nella crisi: il ceto medio impoverito e in crisi di mediazione e il precariato cognitivo colpito dalla crisi nonché la soggettività studentesca.

Mi limiterò a portarvi due esempi che sono esemplificativi sia del metodo della ricerca come stile della militanza, sia della capacità di muoversi nell'ambivalenza per organizzarla in una direzione antagonista. Mi riferisco al movimento del No Salvabanche e all’esperienza di inchiesta chiamata “Vivere nella crisi” che si è sviluppata principalmente in università e nei luoghi simbolici della precarietà come i Cpi (Centri per l’Impiego).

Entrambi i campi di azione e ricerca indicano la volontà di una scommessa sul presente: andare dove non si è mai andati, parlare con chi non conosciamo o pensiamo che sia già del nemico, muoversi nell’ambiguità.

a) Il movimento del No Salvabanche è un movimento giovane nato un anno fa in seguito al fallimento di 4 banche italiane che hanno azzerato circa 130.000 risparmiatori, la nostra capacità è stata quella di scommettere su questa soggettività ossia un ceto medio impoverito dalla crisi e dalla ristrutturazione del capitalismo finanziario e in crisi di mediazione che è ambivalente: la peculiare ambiguità di questo tipo di figure è che lottano per restaurare una condizione a noi avversa, cioè quella del ceto medio, figura di mediazione e contenimento della lotta di classe; e tuttavia, proprio l’impossibilità strutturale di raggiungere quell’obiettivo, apre la strada a un percorso di soggettivazione completamente differente, potenzialmente verso quel processo di polarizzazione di classe che invece proprio la forma di vita del ceto medio ha storicamente cercato di arginare o impedire. Il ceto medio in crisi di mediazione, come scriveva Alquati.

Questa soggettività è stata capace di esprimere una rabbia sociale che ha individuato immediatamente i nemici giusti: i responsabili della crisi e del fallimento delle banche; fare inchiesta in questa composizione ha significato evitare che essa prendesse la direzione del nemico, cadesse nelle mani delle destre o peggio ancora della sinistra, invece individuata come principale nemico e responsabile.

b) Vivere nella crisi è invece un progetto d'inchiesta che anch’esso si propone come una scommessa: mettere a critica l'atteggiamento oggi diffuso nei circuiti militanti di etichettare la composizione sociale immaginando quelli che possono essere i suoi bisogni e le sue forme di resistenza senza verificare quale sia invece la realtà materiale. Scommettere sul presente significa invece assumere un atteggiamento della scoperta, andare in luoghi dove non siamo mai stati per cogliere quella composizione che ci sfugge o che è già con il nemico o che non consideriamo proprio. Scommettere è ambizioso e non da sempre dei risultati immediati e nel breve periodo: ci fa scontrare con la durezza del reale, dove ad esempio nella crisi vediamo che le strategie di resistenza si danno ancora in forme di sopravvivenza (come l’esodo dall’Università, la rinuncia ai propri spazi di socialità, la fuga all’estero e cosi via). Ma è proprio a partire da questo che dobbiamo re-immaginare gli interessi della nostra classe, a partire da chi la crisi la vive sulla propria pelle.

Voglio concludere questo intervento con un’ultima riflessione che credo ancora una volta l'operaismo ci costringe oggi a fare. Ed in particolare riuscire a scommettere sul presente significa oggi innanzitutto tutto per noi liberarci dei residui di soggettività di una sinistra che viaggia ormai su dei binari morti. Una sinistra che ha ormai immagazzinato un senso della sconfitta assumendo l’impossibilità e l’incapacità di scommettere e agire sul presente; al contrario noi oggi dobbiamo assumere un punto di vista da protagonisti, un protagonismo delle lotte che deve contrapporsi al vittimismo della sconfitta e della debolezza. Ecco perché oggi scommettere, così come gli operaisti avevano intuito bisognasse fare, deve significare anche capacità di rompere con ciò che c’è e che è ormai morto, essere una minoranza che sappia portare con sé una vocazione maggioritaria e una tendenza espansiva.