Stampa

Per un materialismo dell’inattualità

on .

Intervento di Gigi Roggero al convegno “La política contra la historia” (Madrid, 3-5 maggio 2017)

Al centro del mio intervento c’è quello che possiamo definire il punto di vista operaista. Per affrontare questo tema è necessaria una premessa. Negli ultimi anni in Italia (da lì vengo) assistiamo in circuiti sempre più ristretti dell’intellettualità cosiddetta militante a infervorate querelle intorno alle etichette: tifosi del post-operaismo contro avversari del post-operaismo, e poi neo-operaisti, operaisti del post oggi non più post, e via di questo passo. Sono querelle intorno al nulla, perché mancano dell’urgenza centrale per un’intellettualità che sia davvero militante: l’obiettivo di ricercare strumenti politici rivoluzionari adeguati al presente. Le etichette sono infatti vuoti simboli di merci di consumo estetizzanti ed effimere, mode passeggere atte a soddisfare liquide identità individuali, non a costruire solide identità collettive. Inoltre, tanto i tifosi quanto i detrattori tentano di trasformare l’operaismo in ciò che non è mai stato: una scuola, con i suoi presidi e i suoi professori, in una piccola chiesa con sacerdoti, preti, liturgie e scomuniche.

Quello che ci manca, quello di cui abbiamo bisogno, sono allora strumenti in grado di sostituire quelli che non funzionano più. Perché i concetti sono questo: strumenti. Finché servono li utilizziamo, quando girano a vuoto dobbiamo modificarli, quando non servono più li buttiamo. Non bisogna mai affezionarsi ai concetti.

E ancora: se i nostri paradigmi interpretativi non funzionano o funzionano male, è inutile affannarsi a dire le stesse cose con nomi continuamente nuovi; meglio piuttosto tenersi i vecchi nomi, ma cambiare effettivamente le cose che diciamo.

(Un’ulteriore premessa, minore, una nota a margine. Questo intervento riprende temi che nella loro sostanza sono già stati elaborati e sviluppati in Elogio della militanza. L’intervento era già pronto da tempo quando, negli ultimi giorni, alcuni compagni mi hanno segnalato articoli che rinfocolano il dibattito attorno a nomi e definizioni. Conseguentemente a quanto sopra detto, non provo alcun interesse per quel tipo di dibattito, a cui sono completamente estranei i contenuti e gli obiettivi di quanto andrò dicendo.)

Suddivido il mio intervento in tre parti.

1) Situare il pensiero politico rivoluzionario, perché il pensiero politico rivoluzionario è materialisticamente sempre legato a contesti sociali, composizioni di classe, contingenze politiche determinate.

L’operaismo politico italiano è terminato alla fine degli anni ’60, insieme al ciclo di lotte dell’operaio massa che hanno utilizzato, forzato e sovvertito l’entrata ritardata del paese nella fase taylorista-fordista.

Nel decennio successivo la costellazione operaista sviluppa percorsi militanti e teorici che, a partire da una matrice comune che tutto sommato non viene mai meno, conduce a processi ed esiti molto differenti o addirittura contrapposti.

Tra la fine degli anni ’80, nei ’90 e poi negli anni ’00 si è parlato molto sul piano internazionale di un pensiero che viene dall’operaismo, legandolo soprattutto ad alcune letture della ristrutturazione e transizione capitalistica seguita ai cicli di lotta dei ’60 e ’7o: è il tempo del dibattito attorno al cosiddetto “post-fordismo”, e poi via via di concetti come “lavoro immateriale”, “moltitudine”, “biopolitica”, ecc. Qui è evidente l’influsso, l’intreccio, la simbiosi con il post-strutturalismo francese.

Negli ultimi anni, infine, si è voluto dare a tutto ciò dei nomi: “post-operaismo” o “Italian theory”. Questi nomi vengono dall’accademia anglosassone, costituiscono dunque doppiamente il male: in quanto accademia e in quanto anglosassone. L’industria universitaria è oggi infatti una specifica forma di cattura e depoliticizzazione del sapere vivo, dei saperi delle lotte, dei saperi rivoluzionari. In quel contesto il problema non è la censura, come spesso viene detto dagli intellettuali di sinistra; al contrario il problema è il tipo di libertà che produce – la libertà dell’opinione pubblica, la libertà del mercato. La censura implica l’esistenza di una pratica della libertà forte che va combattuta dal potere costituito con ogni mezzo necessario; invece dentro le università puoi dire tutto quello che vuoi, sei talora anche pagato bene per dirlo, perché quella forma di comunicazione è già essa stessa un dispositivo di svuotamento della politicità e messa al servizio della valorizzazione capitalistica. Dentro l’industria universitaria saperi e concetti, dopo essere stati resi innocui come strumenti sovversivi, reciso il loro legame con le lotte e composizioni determinate, vengono trasformati in campi di potere che vanno privatizzati e recintati, come le terre comuni nell’accumulazione originaria. I proprietari dei campi potranno quindi esigere la propria posizione di rendita ogni volta che quei concetti vengono nominati. Per questo c’è un tale profluvio di nuovi termini, sempre più fantasiosi, che è inversamente proporzionale alle effettive capacità di interpretazione e ricerca che quei termini contengono. Così c’è l’“Italian Theory”, che mi dicono si differenzia dall’“Italian Thought”, e poi ci sarà la “Critical Italian Theory”, la “Critical Italian Thought” e così via verso il loro cattivo infinito, in una teoria sganciata dalla composizione e dalla lotta di classe, per essere saldamente agganciata alla valorizzazione e riproduzione del capitale.

2) Il “post-operaismo” è finito. Attenzione: non sto dicendo che sia finita quell’etichetta (cosa per cui, ripeto, non ho alcun interesse); sto dicendo che è finita la capacità di elaborazione e propulsione teorica che ha in qualche misura avuto quell’eterogeneo milieu che sarebbe poi stato forzosamente raggruppato sotto quell’etichetta. Alcune categorie erano discutibili fin dall’inizio, altre non hanno retto di fronte all’irrompere della crisi, altre ancora andrebbero ripensate più o meno profondamente.

Voglio spingermi ancora un po’ più in là: la crisi ha sancito la fine dei post, e di questo non c’è affatto nulla di cui dispiacersi. La crisi è stata dunque un’irruzione del reale nel mondo paludato dei concetti. Oggi possiamo dire che quella proliferazione di post ha prodotto gli intellettuali del post, qui inteso in un doppio senso: gli intellettuali del post-tutto, e gli intellettuali effimeri da post su facebook. La proliferazione dei post, infatti, ha rappresentato la fretta di dichiarare la fine di qualcosa, l’incapacità di interpretare l’inizio di qualcos’altro; ha significato piegarsi all’imperativo del nuovismo, accettando lo svuotamento della capacità critica. Non è un caso che l’ideologia del post nasca dopo le lotte degli anni ’60 e ’70, ne costituisca una risposta. Un esercito può essere sconfitto, mai però deve consegnare le armi della critica al nemico.

Farsi promotore del pensiero del post ha invece voluto dire alzare bandiera bianca, o comunque accettare di giocare interamente sul campo dello spirito dei tempi della controrivoluzione capitalistica: l’innovazione – che è il terreno centrale imposto dal capitale nella sua ristrutturazione contro le lotte a partire dagli anni ’70. Noi – assumendo questo noi di parte nella sua forma più ampia possibile – non siamo stati in grado di elaborare un pensiero dentro e contro l’innovazione. Non si tratta per nulla di quelle forme deboli e totalmente compatibili di nicchie ecologiche che predicano – spesso dall’alto dei propri attici – idilliaci ritorni a una supposta natura. Stiamo parlando di una critica forte della scienza e della tecnica in quanto scienza e tecnica del capitale, straordinarie produttrici di forme di vita sociali funzionali alla riproduzione della civiltà capitalistica. Certo che nella scienza e nella tecnica vi è ambivalenza (in senso forte, cioè antagonismo e conflitto), poiché vi è da un lato impoverimento delle capacità umane e dall’altro possibilità di contro-utilizzo. E tuttavia, bisogna sempre aver chiaro che scienza e tecnica in questa società specifica hanno un macro-fine: il potenziamento della macchina di dominio capitalistica. Perciò direi così, come ipotesi di ricerca da sviluppare: il contrario di innovazione non è conservazione, ma rivoluzione. Perché oggi non c’è niente di più conservatore dell’innovazione.

La principale categoria che in questo inchinarsi al post è stata rimossa è quella di composizione di classe, che penso sia anche la principale categoria dell’operaismo politico italiano. Sapete che il termine composizione di classe contiene in sé il rapporto tra composizione tecnica e composizione politica, cioè – per dirla in modo molto semplificato – tra l’articolazione capitalistica della forza lavoro nel suo rapporto con le macchine e la costituzione della classe in quanto soggetto tendenzialmente autonomo. Questo rapporto è antagonistico, nel senso che tanto la composizione tecnica quanto quella politica sono attraversate dall’antagonismo di due parti potenzialmente in lotta, di due processi di soggettivazione tra loro irriducibilmente nemici.

Tra composizione tecnica e composizione politica non vi è dunque un nesso di necessario progresso, come nella tradizione marxista tra classe in sé e classe per sé; né vi è simmetria e specularità. A partire dalla fine degli anni ’80, invece, si è cominciato a far discendere la composizione politica di classe dalla sua presunta composizione tecnica, a ritenere cioè il soggetto più avanzato per le lotte quello che è il soggetto più avanzato per il capitale. (Tralasciamo qui la fideistica idea, spesso balenata sotto traccia e in fondo mai svanita, che il dominio capitalistico sia diventato un involucro puramente parassitario di una cooperazione sociale già in sé pienamente autonoma.)

In questa particolare evoluzione dell’operaismo è stata rimossa una delle figure centrali, quella di Romano Alquati. Non solo o tanto perché Alquati sia colui che ha forgiato la categoria di composizione di classe (non è ovviamente una questione di proprietà intellettuale), ma perché si è in buona misura perduta quella capacità di fondare l’elaborazione politica sulla ricerca militante, quello sguardo e metodo peculiari insieme di costruzione del pensiero e della pratica. Nello stesso periodo, tra gli anni ’80 e ’90, Alquati elabora un modello complessivo (da lui chiamato “modellone”) di funzionamento del capitalismo, volto al macro-obiettivo rivoluzionario della rottura e della fuoriuscita dalla civiltà capitalistica. In quella fase Alquati produce straordinarie anticipazioni di temi, nodi e questioni (dall’iperindustrializzazione alla centralità della riproduzione) che oggi si mostrano assolutamente centrali. Alquati è la nostra Atlantide che dobbiamo far emergere per attaccare il presente.

Rimossa la linea che possiamo definire “composizionista” dell’operaismo, nel dibattito internazionale a prevalere è stata la linea che potremmo chiamare “accelerazionista”, in cui la tendenza diventa teleologia, lo sviluppo del capitale viene confuso con lo sviluppo della potenza del lavoro vivo, l’innovazione con la rivoluzione.

Come già accennavamo prima, la dialettica tra accelerazione e decrescita, sviluppismo e anti-sviluppismo, modernità e anti-modernità, è tutta interna al punto di vista del capitale. Il capitale si compone di accelerazione e trattenimento, distrugge la composizione del proprio antagonista e ne ricompone i frammenti prodotti secondo le sue esigenze di sviluppo. Allora il problema è impostare lo sviluppo dal punto di vista della nostra macro-parte, reale o potenziale, per trattenere gli elementi che impediscono l’accelerazione distruttiva dell’innovazione capitalistica, cioè che ci impoveriscono, e accelerando gli elementi che producono rottura nella controparte, arricchimento della soggettività e autonomia nella nostra parte.

Si può usare, scusate la brutalità, la metafora del cancro. Nel nostro corpo dobbiamo trattenere la forza del male, che sviluppa il cancro; nel corpo del nostro nemico, dobbiamo accelerare le metastasi prodotte dalla lotta di classe. Tra i due movimenti vi è un rapporto, ma non è mai simmetrico, temporalmente lineare, teleologico.

3) Allora, se l’obiettivo è di costruire strumenti concettuali adeguati al presente, la domanda è: cosa resta a tal fine dell’operaismo? Risposta: il punto di vista, che è fatto di uno stile e di un metodo specificamente forti e irriducibili.

- Il punto di vista parziale, di una parte autonoma da costruire. Attenzione, non gli sfruttati, ma chi lotta contro lo sfruttamento. Non i poveri e i dannati della terra, ma la classe operaia. Non chi vive del proprio lavoro, ma chi lotta contro il lavoro per vivere in modo libero.

- Il punto di vista del conflitto. Questa parte è appunto da costruire, non ci è consegnata oggettivamente dal capitale, ed è da costruire nella lotta: non c’è classe senza lotta di classe. Quindi quello dell’operaismo è un pensiero della contrapposizione, dell’amico-nemico come forma dell’agire politico e militante. Per dirla con Mario Tronti: “L’amicizia politica è ciò che hanno in comune, ciò che accomuna, quelli che sono contro. E l’azione dell’essere contro consacra le grandi amicizie”. È bene ciò che approfondisce le contraddizioni del nemico, è male ciò che le risolve. È la capacità di divenire cancro nel corpo del nemico la forza della cura per il nostro corpo di parte.

- Il punto di vista della soggettività, o meglio della controsoggettività. Ciò non ha niente a che vedere con l’uso divenuto corrente del termine soggettività: negli ultimi decenni (nel tempo del “post”) c’è stata una declinazione debolissima, legata soprattutto al foucaultismo e al post-strutturalismo (in parte non hanno responsabilità Foucault e i post-strutturalisti, in parte sì). La scoperta della soggettività è stata la scoperta di qualcosa di buono, che metteva da parte la questione della classe, della parte collettiva, del soggetto in senso ricompositivo. È la stata la “riscoperta” della centralità dell’individuo. La soggettività di cui parliamo non è neppure riferibile alla coscienza, almeno per quello che ha significato nella tradizione marxista dove è stata l’elemento di mediazione idealistico del progresso storico.

La soggettività di cui parliamo, al centro dell’operaismo e della definizione della composizione di classe, è qualcosa di radicalmente differente e opposto. La soggettività non è buona: è un campo di battaglia. La produzione della soggettività nel capitalismo è intrinseca al rapporto sociale di produzione e di sfruttamento, è la posta in palio di un processo antagonista, di un processo di formazione, cioè di conflitto, violenza, accettazione, consenso. Quando in un contesto di rapporti di forza a favore del capitale si parla la “soggettività proletaria” oggi (o precaria, o del lavoro vivo, o quello che preferite per indicare le figure della nostra parte potenziale), si parla di una soggettività forgiata innanzitutto dal dominio capitalistico. Dire contro-soggettività significa dunque parlare di una soggettività non solo contro il capitale, ma anche contro il capitale che ci portiamo dentro. Già, perché noi nella misura in cui odiamo i padroni dobbiamo arrivare a odiare noi stessi, il cancro che ogni giorno ci mangia e ci mette al servizio del nostro nemico. Il primo problema che ci troviamo ad affrontare in fasi come questa è allora la rottura dell’accettazione di questa nostra soggettività plasmata dal nemico. È cioè la capacità di non accettare l’esistente, il tempo che ci viene consegnato: la capacità di essere inattuali, cioè dentro e contro il nostro tempo. Materialisti, realisti e inattuali, un materialismo dell’inattualità. Per parafrasare Tronti: quando la storia è occupata dal nemico, bisogna spararle addosso, senza lacrime per il tempo.

- Il punto di vista della tendenza. Tendenza non significa oggettività e linearità del percorso storico, non significa teleologia, e non ha niente a che vedere con la previsione del futuro. Tendenza non significa irreversibilità dei processi, cioè il dogma alla base della religione innovazionista e accelerazionista: al contrario, poiché fondati e plasmati dai rapporti di forza, i processi possono essere continuamente interrotti, deviati, rovesciati. Tendenza significa perciò la capacità di cogliere la possibilità di uno sviluppo di contrapposizione e radicale diversità degli elementi del presente. La tendenza è come la profezia: significa vedere e affermare in modo differente quello che già esiste virtualmente nel presente.

Ancora una volta, è la lezione dell’operaismo – e di quella linea che abbiamo definito composizionista: la capacità di cogliere il terreno di possibilità antagonista dentro le ambivalenze e le ambiguità della soggettività e dei comportamenti esistenti. Tendenza significa infatti anticipazione, scommessa politica. E senza scommessa politica non c’è politica in senso rivoluzionario, ma solo gestione dell’esistente, ovvero tecnica della politica istituzionale. Perché è quando le lotte non ci sono la fase più importante per il militante rivoluzionario. Quando ci sono, il militante rivoluzionario arriva troppo tardi. Il militante rivoluzionario non si lascia deprimere da un panorama piatto oppure affascinare dalle onde del mare in tempesta, ma cerca di cogliere i mulinelli apparentemente invisibili che si agitano sotto l’apparente calma del fiume.

Questo è il compito dell’oggi, il nostro che fare da costruire. Ceto medio impoverito e precariato cognitivo colpito dalla crisi: questi sono i due processi che per ora non ci consegnano lotte, ma figure frammentate dal governo della crisi. Quali sono qui dentro le ambivalenze per noi potenzialmente utili? Quali sono, se ci sono, le possibilità di conflitto e in prospettiva ricompositive? Quali le gerarchie delle nostre priorità di intervento e scommessa politica? Questa è la griglia di ricerca militante che dobbiamo collettivamente comporre, ordinando i problemi, individuando la gerarchizzazione dei livelli su cui i nodi si pongono, formulando delle ipotesi. Ben sapendo che dobbiamo muoverci nell’ambivalenza, e anche nell’ambiguità. Perché l’ambiguità è nelle cose, non nelle parole che descrivono le cose. Dobbiamo muoverci nell’ambiguità del sociale con un punto di vista politico unilaterale. Mentre purtroppo oggi troppo spesso ci si muove unilateralmente nel sociale con un punto di vista politico ambiguo. Per usare le parole del poeta: là dove c’è il pericolo, cresce anche ciò che salva.

- Il punto di vista della ricomposizione. Come si diceva prima, la tendenza è una questione di composizione degli elementi. La composizione politica implica sempre un doppio processo: la ricomposizione per i propri fini autonomi, e la scomposizione dei fini del nemico. Ricomposizione non significa dunque una sommatoria di elementi così come sono, ma loro trasformazione in un processo di rottura con il quadro esistente e di costruzione di un nuovo quadro. Potremmo dire che la ricomposizione è il ritorno all’autonomia che non c’è. Il ritorno cioè a elementi che rompendo con il quadro dato si compongono in modo radicalmente differente, creando un nuovo quadro di rapporti sociali. E ricomponendosi nella rottura, questi elementi sovvertono se stessi, cambiano nella loro essenza, si rovesciano rispetto alla loro funzione originaria.

A proposito di quadri e siccome siamo in un prestigioso museo, ricordo qui con piacere un aneddoto che penso sia particolarmente utile a tale discorso. È riferito ad Alquati, che sulla propria carta d’identità aveva scritto pittore. Diceva sempre a una compagna che, vista la capacità che aveva di abbinare i colori dei suoi vestiti, avrebbe dovuto dipingere. “Ma io non so disegnare!”, rispose una volta la compagna ridendo. Alquati si stizzì, sostenendo che la pittura non è una questione di disegno, ma di composizione dei colori. Il processo compositivo trasforma cioè i singoli elementi: il quadro non è la sommatoria delle sue parti individuali. Quando li finiva, Romano non metteva mai il vetro sui quadri: proprio perché aveva una concezione processuale e interminabile della dinamica compositiva e di trasformazione, la concezione di un processo da usare, non di un’icona da contemplare.

Come abbiamo visto anche il capitale scompone, compone e ricompone continuamente, cioè distrugge e trasforma: la chiama innovazione. Ritorniamo ora a quella formula che dicevamo prima: il contrario di innovazione non è conservazione, ma rivoluzione. Se a innovazione e conservazione sostituiamo i termini di sinistra e destra, il risultato non cambia: potremmo dire che si tratta di sinonimi. Il contrario di destra non è sinistra, ma rivoluzione. Per questo non possiamo definirci di sinistra: non perché la sinistra è diventata questo, ma perché la sinistra è sempre stata questo. La sinistra è ab origine illuminista, progressista, innovazionista. È il pensiero della vittimità e della sconfitta, della compatibilità con la potenza del capitale e della scomunica della potenza antagonista. La sinistra dipinge nature morte sulla riva del lago; noi che vogliamo organizzarci nei mulinelli, perfino nella loro pericolosa sporcizia e ambiguità, dobbiamo tenerci alla larga non da questa o quella sinistra, ma dalla sinistra.

- Alla luce di questo l’operaismo è il punto di vista di chi è libero, il punto di vista dell’autonomia. È questa l’essenza del rovesciamento operaista del punto di vista: prima la classe, poi il capitale. È la rottura del pensiero della subordinazione e della dipendenza dalla storia, la loro storia.

Siamo consapevoli che di libertà si fa ormai fatica a parlare, è una parola insozzata non dico solo dal neoliberalismo o dalle destre (ormai tutti i partiti xenofobi ne sventolano il vessillo), ma dalla democrazia. La libertà al servizio dello sfruttamento, la libertà della tolleranza e del politically correct, la libertà di dire e fare tutto quello che vuoi nella misura in cui tutto quello che dici e fai è ininfluente rispetto ai rapporti di dominio. Quella libertà non è un diritto da rivendicare, ma un nemico da combattere. Una critica radicale della democrazia, questo è un compito urgente, perché la democrazia è interamente il campo del nemico.

E allora proviamo a ipotizzarlo così, come compito di ricerca militante teorica e pratica: il contrario di democrazia non è oppressione, ma libertà. Una libertà autonoma, una libertà comunista, una libertà operaista. La libertà di chi può affermare: non ci prenderete mai.