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La violenza del lavoro gratuito

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Davide Gallo Lassere recensisce “Salari rubati” (a cura di F. Coin)

Il lavoro gratuito è diffuso in ogni società classista. In quanto tale, il lavoro gratuito è diffuso nelle società capitaliste. Da Marx in qua, abbiamo appreso a definirlo plus-lavoro, ossia lavoro eccedente il tempo necessario alla riproduzione del lavoratore; lavoro destinato a creare profitto, o, meglio, a valorizzare il capitale. In regime capitalista, il lavoro gratuito ha fondamentalmente assunto una triplice forma: lavoro gratuito esterno alla relazione salariale ma funzionale alla (ri)produzione del capitale - lavoro dipendente (schiavistico, servile, ecc.) e lavoro domestico; oppure lavoro gratuito interno alla relazione salariale e sancito dal contratto giuridico tra due soggettività “libere” - datore di lavoro e possessore di forza lavoro. In questi due ultimi casi si ha a che fare con del lavoro occultato, del lavoro invisibilizzato, del lavoro non riconosciuto come tale. Sempre, però, di lavoro estorto si tratta, con la forza e con il ricatto (subdolo o esplicito che sia).

Nelle società capitalistiche in particolare, la violenza dell’estorsione di lavoro gratuito si manifesta in due modi essenzialmente. Essa si riflette innanzitutto indirettamente nelle costrizioni giuridiche co-estensive al posizionamento ininterrotto delle condizioni della riproduzione del capitale, essendo integrata al dispositivo legale che configura la cornice formale dei rapporti esistenti: il diritto del lavoro (ma non solo) come pilastro delle società capitalistiche; l’attualità “logica” della cosiddetta accumulazione originaria in quanto plasmatrice degli aspetti oggettivi e soggettivi necessari ai processi di valorizzazione. E in secondo luogo come violenza diretta e immediata, come attualità “storica” dell’accumulazione originaria, in quanto ripresentazione di forme di espropriazione e spossesso delle ricchezze sociali, la quale, benché agisca in continuazione e a ogni latitudine, riaffiora con prepotenza nei periodi di crisi - come notato da Marx nelle pagine consacrate alla variazione della composizione organica del capitale nei momenti di forte caduta del saggio di profitto[1].

È all’interno del perimetro delimitato dalla crisi del 2007-08 che gli interventi raccolti nel bel volume curato da Francesca Coin, Salari rubati (Ombre Corte, 144 pp., 12€), sondano l’irruzione di nuove relazioni di lavoro gratuito. Come si sono rinnovati, con lo scoppio della crisi, i rapporti di dominio e di assoggettamento? Cos’è cambiato nella rimodulazione dello sfruttamento del lavoro vivo? Quali le logiche in atto nella sua sussunzione al capitale[2]? A partire da tali questioni, Fumagalli, Morini, Bascetta, Marazzi, Curcio, Federici, Aquistapace e Berardi analizzano quella pluralità di soggettivazioni dis-poste a erogare gratuitamente forza lavoro che si stagliano tra la coscienza cinica e individualista dell’arrivista e la subordinazione dura e pura di chi è obbligato a sbarcare il lunario, ossia tra il grado zero della libertà e un suo uso politicamente problematico. Tra l’economia politica della promessa, sulla quale insiste giustamente Bascetta, e la produzione, cara a Federici, di un nuovo proletariato ex lege, ciò che emerge è una ricca serie di spunti che rende conto della ristrutturazione neoliberale in corso, con le sue dinamiche di impoverimento di massa e smantellamento di diritti sociali, da un lato, e di irrigidimento degli apparati statali e ideologici, dall’altro. Il volume inanella infatti otto interventi e una lunga introduzione volti a scandagliare la duplice tendenza al lavoro gratuito, sia come estensione della durata del contratto di lavoro che come cattura extra-salariale di capacità umane produttive. È in particolare su quest’ultimo fattore che si concentrano le critiche. Dal laboratorio-Expo col suo carico di “lavoro volontario”, alla “femminilizzazione del lavoro” che fa da contraltare alla “maschilizzazione dell’esclusione”, passando per l’oscenità del gesto d’amore ingiunto dal capitale in un orizzonte di aspettative di vita decrescenti fino alla ricerca di nuove pratiche di rifiuto del lavoro (gratuito) e al tentativo queer di riscatto del fallimento soggettivo in una prospettiva politica collettiva, il volume tenta di mettere a fuoco i processi di “dis-retribuzione diffusa”, per riprendere l’espressione della curatrice, al fine di offrire delle armi a chi tenta di sottrarsi alle forme di comando vigenti. Se, con Marazzi, tutti i testi paiono accordarsi 1. sul divenire-strutturale del lavoro gratuito oltre la relazione salariale[3] e 2. sull’opportunità di sganciare il reddito dal lavoro “produttivo” (di capitale), la stessa omogeneità non è ravvisabile nel teorizzare la stratificazione delle diverse figure soggettive che abitano la crisi. Con quale fenomeno ci troviamo costretti a fare i conti? Con un esercito precario di riserva? Con un soprannumerario demografico che eccede i bisogni di messa a valore dell’umano? Con un’inclusione differenziale del lavoro vivo? Aldilà delle dissonanze, ciò che è certo è che in un’epoca di decreti Minniti e JobsAct, d’Etat d’urgence e Loi Travail, la critica dello sfruttamento e la critica del dominio, la critica del capitale e la critica dello Stato, ossia la critica della violenza economica e la critica della violenza politica, non possono più essere dissociate senza incorrere nel rischio di mancare il bersaglio.



[1] Per un’analisi del testo marxiano, cfr. M Perelman, The Invention of capitalism, Duke University Press, Durham 2000, pp. 31 e ss.

[2] Per un testo che, su tale questione soprattutto, dialoga da vicino con il libro curato da Francesca Coin, cfr. F. Chicchi, E. Leonardi, S. Lucarelli, Logiche dello sfruttamento, Ombre Corte, Verona 2016.

[3] È “come se la svolta femminista si fosse in qualche modo sedimentata e moltiplicata”!