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Se7en - osare fare la rivoluzione

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Riflessioni e sommario dei nodi aperti dopo la prima tappa del ciclo seminariale Se7en

La prima tappa di Se7en si è svolta tra il 28 febbraio e il 4 marzo, con giornate di discussione intense, ricche, partecipate (qui si possono trovare materiali preparatori, contributi e video). Collocare una porzione sostanziosa dell’iniziativa dentro gli spazi dell’università è stato importante, soprattutto in una fase in cui l’ateneo di Bologna è da alcune settimane finalmente agitato da una mobilitazione di giovani studenti e studentesse, una parte dei quali ha attivamente preso parte ai dibattiti. L’avevamo del resto detto fin dall’inizio: riattraversare genealogicamente il ’77 (paradigma concreto dei movimenti rivoluzionari e sovversivi degli anni ’70) non significa concedere nulla alla mera memorialistica. Si tratta al contrario di combattere un doppio atteggiamento, aleggiato tra le generazioni militanti formatesi dopo gli anni ’70: da un lato il feticismo del passato, dall’altro la sua rimozione. Il punto è appropriarci della nostra storia nella misura in cui la costruiamo, cioè analizzarne ricchezze e limiti, nodi aperti e questioni irrisolte, continuità dei problemi e discontinuità delle soluzioni. Il punto, quindi, è trasformare l’analisi del passato in materia viva, cioè in strumento di azione dentro e contro il presente.

Ci pare di poter dire che questo primo risultato, di approccio e di metodo politico, è stato raggiunto. Nei diversi momenti di discussione hanno preso parola una sessantina di persone, appartenenti a differenti generazioni politiche e sociali. Si è costruito uno spazio di condivisione non ripiegato sul racconto celebrativo di ciò che è stato e non proiettato astrattamente su ciò che vorremmo che fosse. Questo spazio, ancora embrionale, è ciò che va sviluppato per riporre al centro il tema dell’attualità della rivoluzione. Il problema della rottura rivoluzionaria si è infatti eclissato nell’immaginazione dei militanti, progressivamente sostituito da una gestione del proprio esistente che oggi connota buona parte della soggettività politica delle strutture di “movimento”, ovvero delle strutture organizzate in assenza di movimento.

Siamo dunque partiti dall’individuazione delle insufficienze e dei limiti del “noi” collettivo, dalla critica del rischio di accontentarci della riproduzione di una nicchia “alternativa” compatibile con l’ambiente capitalistico nella misura in cui accetta di restare ai margini dei processi sociali e politici. Si tratta anche di limiti e insufficienze di categorie, cioè di costruzione di una conoscenza di parte. Tale inadeguatezza non si supera trovando nuove parole con cui rinominare categorie vecchie, assecondando quell’ideologia nuovista che ha pervaso le nostre menti; il problema è cambiare il significato e il senso delle categorie, ponendole a confronto con il contesto di realtà ai suoi differenti livelli, con le sue ambivalenze specifiche, con le sue potenzialità temporalmente delimitate.

A partire da qui, nel corso delle giornate di discussione sono stati posti sul tavolo nodi e problemi aperti, in buona parte comuni e ricorrenti. Si è approfondita l’analisi della soggettività del capitale e della soggettività della nostra macro-parte, reale e potenziale; si è messo a fuoco il rapporto sociale in quanto rapporto di forza, le differenze che assumono i comportamenti, gli obiettivi parziali e gli strumenti politici nel mutare di quel rapporto. È stato sottolineato come il rapporto tra crisi e lotte sia spesso inversamente proporzionale, perché le rivoluzioni non vengono dalla fame, ma dall’appetito che vien mangiando. La rottura delle aspettative decrescenti non è perciò solo un problema di futuro per le giovani generazioni, bensì innanzitutto un problema politico di possibilità del conflitto. D’altro canto, come è stato più volte rimarcato, alle lotte il padrone non risponde solo con la repressione, ma innanzitutto con l’innovazione, con il tentativo di trasformare le differenze, perfino quelle radicali, in motore di sviluppo. Per dirla altrimenti, l’innovazione ha mangiato la rivoluzione, ecco perché la trasposizione di parti del capitale fisso nel corpo del lavoro vivo non porta a un’autonomizzazione di quest’ultimo, ma spesso all’impoverimento delle possibilità di autonomia.

Su queste basi abbiamo sviluppato una discussione a più voci sulle forme di militanza e di organizzazione, sulle loro varianti e invarianti. Non esistono ovviamente modelli universali, riproducibili nell’indifferenza temporale e di contesto; quello su cui ragionare sono invece gli elementi di metodo nella costruzione militante. Non si è parlato nei termini ristretti dell’organizzazione di collettivi e gruppi politici, ma rispetto alla capacità di misurarsi sul terreno dell’organizzazione sociale, di classe, di un antagonismo di parte. Da questo punto di vista, si è detto, l’organizzazione raccoglie le soggettività in formazione in una dimensione progettuale. L’organizzazione agisce su livelli differenti, strutturandosi non per il futuro ma nella prospettiva, cioè individuando, trasformando e ricomponendo nella contrapposizione le possibilità che già esistono sottotraccia nel presente. A sua volta il presente non va confuso con il subito: è un processo, non un punto. È in questo processo tutt’altro che lineare, gerarchizzato verso i macrofini della rottura e della fuoriuscita dal capitalismo, che si possono misurare passaggi, rotture, salti, continuità e discontinuità.

I militanti agiscono su un livello intermedio nel rapporto tra spontaneità e organizzazione, per dare direzione alla prima, per modificare le forme della seconda. Si pone, in altri termini, il nodo della generalizzazione e della ricomposizione, a cui alludeva la categoria interamente politica di operaio sociale. Ancora una volta, il problema non è di termini, ma di sostanza: troppo spesso, infatti, negli ultimi anni il nostro noi militante si adagia nella settorializzazione dei conflitti, si accontenta di gestire l’identità della singola lotta, cosicché l’organizzazione di gruppo risulta talvolta più un freno che non una possibilità di potenziamento della spontaneità.

Ecco allora che assume una peculiare valenza il generico termine forme di vita. È un modo per mettere a fuoco, in contesti storicamente determinati, i comportamenti sociali, le loro ambivalenza, la loro politicità intrinseca. E la stessa militanza, come è stato sottolineato, è una specifica forma di vita. Quali sono oggi i comportamenti di non accettazione e rifiuto che esistono, quelli che si esprimono su terreni a noi estranei, quelli che sfuggono alle nostre capacità di inchiesta, comprensione, organizzazione? Come è oggi possibile ripensare il rifiuto del lavoro in quanto costitutivo di un noi conflittuale? Lì dobbiamo andare, lì dobbiamo condurre l’inchiesta militante.

Questi grandi nodi, qui sommariamente compressi, hanno preso parola e forma dentro una discussione fitta, in cui l’analisi complessiva si è combinata con esempi concreti, la storia con l’attualità, le ipotesi con il racconto. Non si è trattato di evocare la rivoluzione, bensì di riproporla al centro della costruzione della soggettività militante come problema aperto; perfino nella sua forma di guerra civile, non come mito ma nella sua maledetta concretezza. Riproporre il problema dell’attualità della rivoluzione significa sbarazzarsi di quell’interiorizzazione della sconfitta che, consapevolmente o implicitamente, ha segnato le generazioni militanti degli ultimi decenni. È quel senso di sconfitta, che va bene al di là di una reale sconfitta avvenuta, che limita le nostre capacità, inibisce le nostre prospettive, rimuove il problema della frattura e della fuoriuscita dal capitalismo, ci fa accontentare del già noto o delle piccole soddisfazioni di bisogni e desideri che il sistema ci offre. Perciò la rottura di cui si è parlato non è solo con il nostro nemico, ma anche con noi stessi.

Dopo la prima tappa di Se7en non si può arrivare a una sintesi, perché non è un seminario che può proporsi un compito simile. I nodi e i problemi aperti sono stati posti sul tavolo: ora vanno affrontati, messi a verifica, trasformati in piste di ricerca militante e punti di vista. È possibile farlo, crediamo, innanzitutto a partire dai vari temi (ad es. welfare, riproduzione, formazione, condizione giovanile) e spazi di mobilitazione (ad es. Non una di meno, università, lotte territoriali) che, a livelli diversi, sono stati citati o individuati come luoghi di riflessione e intervento militante, di quello che già c’è, pur in modo insufficiente, e di quello che può esserci, in quanto scommesse da intraprendere.

Insomma, Se7en non finisce con un evento, da vivere e consumare dentro la frenetica ed effimera industria culturale. Se7en non è nemmeno l’inizio, perché troppe volte abbiamo usato questa parola nella fatua rincorsa del nuovo. Se7en vuole essere al contempo continuazione e rilancio, tentare di porre l’esigenza di tessere i fili della continuità e costruire le necessarie discontinuità. Nella sua evidente parzialità Se7en vuole trasformarsi in una piccola esemplificazione di un metodo da sperimentare collettivamente. In questa sperimentazione, che ovviamente va ben oltre Se7en, non ci sono semplicemente compagne e compagni giovani e vecchi, un tessuto intergenerazionale che in questi decenni ha resistito alla chiusura degli spazi e frammentazione delle esperienze; possiamo costruire quello che qualcuno ha definito il pezzo di un potenziale noi antagonista molteplice che accumula una forza di riflessione e prospettiva di attacco da scagliare contro il presente.