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Il suicidio al tempo degli algoritmi

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Contributo di Claudia Landolfi al cantiere di discussione su macchine, lavoro e soggettività

 

A Mark Fisher

“Vi è solamente un problema filosofico veramente serio: quello del suicidio.” (Camus)

Sulla tecnologia digitale molto si è detto finora, al punto che si rischia di essere ridondanti nel momento in cui si richiama l’attenzione su questo argomento. Siamo in una rete, conduciamo le nostre esistenze in una rete che lega con nodi identici individui diversi. L’identità e la ripetizione della struttura della rete è uno degli elementi più rilevanti della (non più) nuova tecnologia. Se nei decenni scorsi era l’identità e la ripetizione della merce su scala globale a costituire il segnale di omologazione e appiattimento onedimensional (rappresentato in maniera eclatante dal McDonald nella Piazza Rossa), oggi è il modo di produrre e distribuire a legare il mondo: la particolarità della merce è insignificante, è la traducibilità del segno-parola in stringa-algoritmo a interessare. Tra le altre caratteristiche di rilievo vi è l’automazione dei meccanismi digitali, indipendenti dai soggetti e dagli oggetti, che ha come effetto, tra gli altri, quello di rigenerarsi dalle continue micro-catastrofi di sistema che trascinano con sé il piano dello spazio-tempo. Abbiamo, ormai, consapevolezza del fatto che la rete è qualcosa di materiale, per gli effetti sulle vite e per la composizione delle cose-segniche. Abbiamo, ormai, consapevolezza del fatto che la rete è un sistema surgovernamentale (direi così) per via della sua potente capacità di istituire popolazioni attraverso codici binari (siamo dividuali…), farle crollare e ricostituirle di continuo a seconda della parola chiave di ricerca. Cominciamo a fatica a capirne le conseguenze sul piano politico e non abbiamo alternative. Grazie alla possibilità di archiviazione, catalogazione e reperimento di parole chiave che hanno costituito, e costituiscono, un oggetto di indagine degli orientamenti dei soggetti, delle loro reazioni e delle relazioni sociali (e per questo stesso motivo, anche uno strumento di manipolazione virale), i social networks sono stati una grande fabbrica e un grande laboratorio per esperimenti sui comportamenti dei soggetti.

Sheryl Sandberg, vice di Mark Zuckerberg, nel 2012 ha dovuto chiedere scusa pubblicamente per lo svolgimento di test psicologici segreti (quindi senza il consenso informato) su circa 700.000 utenti. L'esperimento, rivelato da un articolo scientifico[1], nascondeva una percentuale di parole riconducibili alla sfera emozionale dalle news feed, a insaputa degli utenti che le postavano, per testare le reazioni (e i ‘mi piace’) dei followers. In questo frame si colloca anche il piano di prevenzione suicidio messo in atto da FB inizialmente per gli utenti anglofoni, ma ora sono previsti kit in altre lingue. Il kit scaricabile permette agli utenti di segnalare con una flag, o attraverso la compilazione di un format, gli amici che possono essere a rischio di autolesionismo o suicidio. Il programma non finisce qui: Facebook offre diverse opzioni di intervento. Ad esempio, fornisce un elenco di risorse e di contatti, compresi i numeri  delle organizzazioni di prevenzione del suicidio da contattare. Inoltre i messaggi passano per un team operativo a disposizione per informazioni che suggerisce, in casi ritenuti gravi, il ricorso alla polizia. (Un tentativo simile lo ha avviato anche Twitter nel Regno Unito ma è stato prontamente bloccato perché violava la privacy degli iscritti e favoriva il cybebullismo.) Il programma è stato sviluppato in collaborazione con le organizzazioni di salute mentale e con il contributo di persone che hanno esperienza personale con l'autolesionismo e suicidio.

L'aumento dei tassi di suicidio in tutto il mondo negli ultimi tre decenni (soprattutto negli USA), così elevato al punto da rappresentare uno degli aspetti più critici della salute pubblica globale, ha reso possibile la creazione di una nuova popolazione digitale da gestire: quella degli utenti borderline. È un caso inquietante che ci costringe a riflettere non solo sulla privacy degli utenti in rete ma anche sulla ‘produzione’ di soggetti ‘malati’ da gestire con la collaborazione di omnes et singulatim, ovvero di tutti gli utenti che partecipano al meccanismo. È una nuova forma di giudizio psichico che si esercita attraverso una sorta di tribunale digitale che dilaga grazie all’interiorizzazione, da parte di tutti, di un ruolo giudicante esercitato attraverso uno strano ‘obbligo’ (o, almeno, percepito come tale) alla reazione online. In questo senso, si può parlare di ‘soggettività giudicante’ (judgemental subjectivity) che governa la molteplicità degli affetti nella società del controllo, si sviluppa a livello digitale e corrisponde a una costante formazione del giudizio sul sé e gli altri, producendo così un avatar ideal-tipico accettato o rifiutato in un tribunale pubblico (la macchina del fango, come il lato oscuro della acclamazione, come cerco di spiegare altrove).



[1] Adam D. I. Kramer, Experimental evidence of massive-scale emotional contagion through social networks, in Proceedings of the National Academy of Sciences of the United States of America, vol. 111 no. 24,  8788–8790, doi: 10.1073/pnas.1320040111