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Questo non è normale!

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Riflessioni di George Caffentzis su Trump, capitale e spiriti animali proletari

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In una delle molte manifestazioni che si sono scatenate in città nelle ultime settimane, questa volta fuori dalla residenza del senatore Schumer a Brooklyn, dopo l’abituale “Un-due-tre... Donald Trump è venuto il momento di andartene!”, dal podio è arrivato un nuovo ritornello a cui non posso unirmi: “Questo non è normale!”. Si tratta di una novità per gli slogan degli attivisti, piuttosto sconcertante. Perché dovremmo invocare il ritorno alla politica “normale” di Obama e Clinton? Il “capitalismo normale” è l’orizzonte di questo movimento che, finora, ha così efficacemente bloccato l’agenda di Trump? E poi, il corso d’azione di Trump è davvero fuori dalla norma della classe politica dominante? Bisogna porre tali questioni perché ci mettono di fronte allo stato problematico della lotta di classe negli Stati Uniti su diversi livelli.

Il ritornello condanna l’aperto sostegno di Trump a un programma imperialista per come è espresso nella richiesta di “America First”. La condanna è appropriata, ma immaginare che l’imperialismo sia “anormale” nella politica americana è sconvolgente. Ciò che può risultare anormale è un così aperto riconoscimento di quello che gli altri presidenti hanno portato avanti con il pretesto di difendere i diritti umani. Ma d’altronde agitare la spada è in perfetta sintonia con la tendenza storica del capitale. Senza dubbio il capitalismo si trova di fronte a livello internazionale a un declino del profitto, una fase di crescita lenta, stagnazione, perfino recessione nel caso di alcune economie nazionali. Scuotere l’essiccato albero capitalista e sconfiggere le lotte proletarie richiede misure drastiche, ed è qui dove Trump entra in gioco con la sua ipnotica promessa di un’America che esercita un incondizionato potere mondiale. Opportunamente la sua agenda combina le due facce del capitalismo contemporaneo: quella neoliberale e quella imperialista, spesso erroneamente dipinte come antagonistiche, mentre il loro abbinamento è segnalato dalla scelta di generali e miliardari per il suo governo, e dalla nomina a Segretario di Stato di Rex Tillerson, amministratore delegato di lunga data di ExxonMobil (la più internazionale delle corporation americane).

Lungi dall’essere anormale, Trump continua una lunga e onorata tradizione capitalista di neoliberalismo da cannoniera, abbattendo i muri protezionistici con la forza militare. Anche il fascismo negli anni ’30 ha riconosciuto che i “liberi” mercati non garantivano profittabilità e il commercio senza confini, anche nelle aree controllate dai nazisti, richiedeva formidabili strumenti di repressione. Perfino i comportamenti istrionici di Trump sono tipici di questi tempi, quando i politici identificano i loro compiti nello stimolare gli spiriti animali del capitale vacillante (con le parole di Keynes, “un’urgenza spontanea ad agire piuttosto che all’inazione”) e nel mobilitare parte della classe operaia offrendo una prospettiva razzista.

Tuttavia, quando esaminiamo i documenti troviamo profonde continuità tra le amministrazioni di Obama e di Trump (come ce ne furono tra l’amministrazione di Carter e quella di Reagan) che dovrebbero essere riconosciute dopo aver sgomberato il campo dallo strepito che inevitabilmente ha circondato l’elezione di Trump.

* Sull’immigrazione. La deportazione di immigrati senza documenti durante il periodo di Obama ha riguardato più di 2 milioni e mezzo di persone. Tale cifra è simile alla stima di Trump di chi verrà deportato.

* Sulla guerra. L’esercito degli Stati Uniti è adesso apertamente coinvolto nelle guerre civili in Afghanistan, Yemen, Siria, Iraq, Libia, Somalia come risultato delle decisioni politiche di Obama. Trump sta invocando “una guerra di civiltà” (rispolverando la figura retorica di Samuel Huntington) più o meno contro la medesima lista di paesi a maggioranza musulmana.

* Sulla forza militare. L’eredità militare di Obama è il suo legame con l’assassinio attraverso il drone, con tutte le implicazioni etiche che comporta un simile uso dei droni. Come ha scritto Micah Zenko, “Obama ha autorizzato 506 operazioni che hanno ucciso 3.040 terroristi e 391 civili” (NYT, 12 gennaio 2016), di gran lunga il più ampio uso di droni della storia bellica. Trump, seguendo Obama, ha invocato un diffuso utilizzo di droni. La massiccia vendita di armi all’Arabia Saudita, sotto l’amministrazione Obama, nel momento in cui l’Arabia Saudita stava bombardando lo Yemen, e il silenzio di tutti i democratici durante la campagna elettorale rispetto al piano del Pentagono di rinnovare tutte le armi nucleari, per un costo di mille miliardi di dollari, indicano ancora una volta come la distanza tra due amministrazioni per ciò che riguarda l’uso della forza militare sia minore di ciò che sembra.

* Sul controllo capitalistico dell’economia. Obama ha esplicitamente riconosciuto che il capitale ha lo stesso potere dello Stato attraverso la sua sponsarizzazione del TPP e del TTIP e la loro istituzione dei fondi dello Stato-investitore che risolve le controversie. Trump ha eliminato questi quadri rituali e ha reso l’amministrazione il negoziatore diretto con il capitale. Ma il suo programma “tutto il potere al capitale” non è più audace della sostanza degli accordi di libero commercio proposti da Obama, che danno un potere assoluto al capitale internazionale, permettendo alle imprese di bloccare ogni iniziativa, a qualsiasi livello statale, “limitando il libero commercio”, vale a dire il taglio dei profitti, così come il potere di forzare i colpevoli a pagar loro pesanti risarcimenti.

* Sugli omicidi dei neri da parte della polizia. Di fronte all’omicidio di Michael Brown a Ferguson Obama ha detto che non ha “nessuna simpatia per quelli che distruggono le loro comunità”. Trump contrappone Black Lives Matter con Blue Lives Matter.

* Sugli investimenti in infrastrutture da parte del governo federale. L’amministrazione Obama ha ideato l’American Recovery and Reinvestment Act del 2009 con un investimento superiore agli 800 miliardi di dollari in infrastrutture. Trump sta “promettendo” altri mille miliardi in infrastrutture.

Su tutti questi temi, sebbene l’approccio retorico di Obama sia stato sottile e di basso profilo mentre quello di Trump è esuberante e bellicoso, i risultati sono simili, se non identici. Ci sono noti aspetti della politica di Trump che giustificano la sua etichetta di “anormale”. La sua posizione misogina, il suo sostegno ai gruppi di suprematisti bianchi, la sua istigazione alla violenza razzista sono stati da tempo respinti come inaccettabili nel discorso politico. D’altro canto, Trump sta portando sulle nostre coste il trattamento finora riservato alle persone in altri paesi – Iraq e Afghanistan tanto per cominciare – che il governo americano negli ultimi decenni ha conquistato e colonizzato, con persone che sono state torturate, incarcerate, caricate su voli segreti di consegna, separati dalle loro famiglie attraverso raid di deportazione, messi in prigioni private di confine. Chiamare “anormale” il comportamento di Trump non segnala che l’immensa sofferenza e degradazione causate da queste pratiche è all’interno della norma?

Una risposta di classe “anormale”?

Ci piace credere che se c’è qualcosa di “anormale” nel fenomeno Trump è il fatto che molti lavoratori bianchi hanno votato per lui. Ma anche qui siamo in acque fangose. Chiaramente molto del sostegno a Trump viene dalla profonda tendenza storica tra i lavoratori bianchi sintetizzata nello slogan del “salario della bianchezza”. È anche vero, però, che il voto è stato in parte una risposta contingente all’economia politica neoliberale dell’amministrazione Obama che ha impoverito i lavoratori bianchi, producendo al contempo, attraverso la continua caduta dei salari, disoccupazione e pignoramenti. Tale fattore economico non può essere ignorato nella vittoria di Trump. La perdita di potere economico, la paura per il futuro, una vita ai margini del disastro sono caratteristiche comuni dell’odierna condizione proletaria. Questa condizione è stata descritta in una recente indagine che ha chiesto a un largo insieme di persone se nell’emergenza possono affrontare una spesa necessaria di 400 dollari. A sorpresa il 63% ha detto di no. Questo è “normale”. Anche se la stampa ha insistito molto sulla questione delle email di Clinton, più importante per il risultato delle elezioni è stato l’annuncio, poche settimane prime, dei verticali aumenti dei premi per le polizze assicurative dell’Obamacare. Sì, il razzismo è stato un fattore nella vittoria di Trump, ma non è stato il solo – dopo tutto, molti proletari che hanno votato per Trump nel 2016 avevano votato per Obama quattro anni prima.

È tuttavia straordinario che in tempi di difficoltà economica e genuina disperazione, lavoratori bianchi votino per un miliardario. La vittoria di Trump rivela una profonda crisi nella classe operaia bianca, che sembra non potersi mobilitare se non per una guerra razziale. Trump promette una brutale politica imperialista. Non è un “protezionista della vecchia scuola”, che vuole ritirare il commercio agli Stati Uniti continentali, né è un esponente anti-globalizzazione, poiché la sua ricchezza personale si trova in tutto il mondo. La sua agenda è di rendere il “Capitale americano primo”, in un sistema capitalistico che fronteggia un collasso dei profitti, liberandolo dalle regolamentazioni (ambientali, dei diritti del lavoro, della salute, dei trattati internazionali, dei diritti umani), fornendo un’infrastruttura finanziata dallo Stato, imponendo termini favorevoli al commercio attraverso accordi bilaterali e la minaccia della forza militare. Trump vuole spingere attraverso lo Stato i principali rami della produzione capitalista, vuole rilanciare la produzione manifatturiera attraverso l’imposizione di tariffe selettive sulle imprese che spostano i loro capitali fuori dagli Stati Uniti, invoca un sostegno incessante all’estrattivismo (attraverso il finanziamento e gli alleggerimenti normativi, come vediamo a Standing Rock), sostiene la speculazione finanziaria, vuole che il governo federale dia mano libera agli imprenditori immobiliari. Questi sono passaggi comuni nelle politiche economiche delle recenti amministrazioni, sebbene espressi in un modo non comune.

Come ha apertamente dichiarato alla televisione nazionale nel 2011, riferendosi al petrolio iracheno: “Ai vecchi tempi si sapeva che quando c’è una guerra, il bottino appartiene al vincitore. Vinci la guerra e lo prendi”. Da allora l’ha ripetuto spesso. Ma quello era l’obiettivo principale dell’amministrazione Bush. Per la guerra in Iraq era di privatizzare i giacimenti petroliferi immediatamente dopo la sconfitta di Saddam Hussein e aprire la costituzione in forme che rendessero possibile restituire il petrolio alle grandi compagnie petrolifere globali. Obama si è reso conto che la privatizzazione dei giacimenti petroliferi non sarebbe avvenuta in tempi brevi e ha cominciato a riportare indietro le truppe. Trump sembra impegnato a invertire questo corso, comportandosi nei modi soliti dei nazionalisti patriarcali in periodi di crisi del profitto come quello di cui facciamo oggi esperienza.

 

* Brooklyn, febbraio 2017.