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La soggettività e il potere istituente

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Discussione con Ubaldo Fadini

Commonware si confronta con Ubaldo Fadini che ha da poco pubblicato “Il tempo delle istituzioni”, un libro che con “Il futuro incerto” (2013) e “Divenire corpo” (2015) –  anch’essi editi per i tipi di ombre corte – conclude un'ideale trilogia. Proviamo a concentrarci su tre nodi che attraversano la riflessione di Fadini: l'antropologia politica, la produzione di soggettività e l'invenzione di nuove istituzioni.

Articoliamo questi tre nodi in altrettante domande.

  • Dal costruttivismo spinoziano, passando per la definizione di Nietzsche dell'uomo come "animale non consolidato" si arriva a quella di Deleuze secondo cui l'umano si spoglia della propria specie. Queste sono solo alcune tessere di una genealogia materialista che sebbene alla larga da visioni ireniche sembra riuscire a scongiurare l'antropologia negativa, che pure ci ha fornito spunti molto utili per ragionare su natura/cultura e umano/tecnica. A partire da quale antropologia è possibile immaginare la trasformazione?
  • Nel mondo anglosassone si definiscono "politiche prefigurative" quelle esperienze che cercano di sperimentare nuove forme dello stare insieme, ma come ci ricorda Benjamin non deve esserci differenza tra i preparativi e la festa... e di più, questi esperimenti sono già di fatto figurazioni, espressioni di figure incarnate. Tuttavia, si ha spesso la sensazione di correre il rischio di scadere in un "elogio delle vite clandestine" e di non essere capaci di andare oltre l'articolazione delle differenze. Non è invece necessario che controcondotte e nicchie ecologiche siano il punto di partenza e non di arrivo, pezzi importanti ma non sufficienti di una nuova soggettivazione?
  • Potremmo dire che le linee di fuga devono prendere corpo in un potere istituente, ma come ci ricordano due giuristi mancati, Marx e Deleuze, non è una questione di diritto ma tutta politica. Come pensare e inventare nuove istituzioni?

Cerco di tenere insieme le questioni poste. Si potrebbe sostenere che oggi abbiamo bisogno di una nuova antropologia filosofica, all'altezza dei processi di trasformazione/metamorfosi della soggettività contemporanea, in quei suoi determinati assetti che ci restituiscono la combinazione, in termini foucaultiani, di pratiche di soggettivazione e dinamiche di assoggettamento. L'antropologia “negativa” – penso ad Arnold Gehlen e, su altri piani di sviluppo, a Günther Anders – ha avuto il merito di mettere a tema la produttività di uno squilibrio dovuto alla “carenza/mancanza” istintuale (che a me piace però sempre indicare come l'altra faccia di un “eccesso pulsionale” che vale come concreto fattore di creatività a livello “antropologico-culturale”). Sono note le ricadute di tale attenzione a livello di antropologia e filosofia della tecnica oppure all'interno di settori avanzati di filosofia sociale e di indagine sociologica. Ci sono spesso ritornato sulle “effettuazioni”, per così dire, di tali ricadute, a partire addirittura dai primi anni '80, con un occhio di riguardo per un motivo che nel nostro presente mi sembra ancora più significativo, anche criticamente rilevante, vale a dire quello delle istituzioni. Ma su questo ritornerò in seguito.

Quello che può risultare interessante qui è il rimando ad una tradizione di ricerca, quella dell'antropologia filosofica di lingua tedesca, che negli anni '20 del secolo scorso, dopo i disastri della guerra e nel pieno degli sconquassi economici, riparte da una questione “classica” (mai scontata, però...), quella del che cosa sia l'essere umano (la sua “natura”, la sua “essenza”): la risposta, delineata attraverso un impressionante confronto non soltanto con teorie filosofiche ma soprattutto con indagini di ambito biologico (penso qui a Jakob vonUexküll ma non unicamente a lui, altri nomi dovrebbero essere indicati), è che l'uomo sia un essere appunto carente e, insieme (!), eccedente, eccentrico, in definitiva dotato di scarso equilibrio. Rispetto a ciò, un rimedio (Odo Marquard dirà “compensazione”) lo si può avere appunto a partire dalla valorizzazione dello squilibrio, visto come motore sofisticato di artificializzazione di tutto ciò che ha a che vedere con quell'umano che oltretutto si rivela essere – e non può che essere così vista la sua concreta esistenza/sopravvivenza –  una dimensione a sua volta “naturalmente artificiale”: da qui l'attenzione alla “tecnica”, alla cultura materiale “e” simbolica, e,  in fondo…  all'istituzione.

Tra parentesi, una annotazione biografica e una sorta di rilancio nell'immediato: per me, alla fine degli anni '70, il confronto con il pensiero conservatore novecentesco (e il suo ricollocarsi all'interno del montante neo-conservatorismo) ebbe come sua ragione d'essere l'avvertita necessità di fare i conti con un ripiegamento politico, mettiamola così…  proprio della mia “scena” di formazione, di crescita intellettuale, segnata dalla Teoria Critica e dal marxismo italiano eterodosso, quello dei fuori-parte (come a me piace dire: fuori dagli apparati di partito e dentro, parte, ai movimenti di ricerca, o di co-ricerca, a livello anche di indagine materiale). Da quei “mondi” teorici, compresi quelli oggetto di un confronto per me appassionato anche per il loro carattere “respingente”, ho imparato che l'impossibilità di conoscere il futuro non può che provocare incertezza/insicurezza e che si ha il compito di trattarla, tale incertezza, per ridurne gli oneri: è stato abbastanza scontato allora scivolare in direzione di Niklas Luhmann, il quale pensa proprio in quei termini l'organizzazione, vale a dire in modi non troppo distanti da come Gehlen considerava il motivo dell'istituzione. Gehlen e Luhmann sono quindi per me autori imprescindibili: vale sempre il detto, scusate la banalità, che si impara tantissimo dagli “avversari” intelligenti, anche se considerare Luhmann un “avversario” non fa proprio per me...

Sintetizzando però un discorso che sta diventando troppo lungo e individuando il contesto di mia attenzione – anche oggi – nei riguardi dell'antropologia filosofica, mi viene voglia di dire così: si tratta di una linea di ricerca che evidenzia il valore della relazione, della coniugazione (il mio amico Roberto Marchesini parlerebbe di alterità come rimedio a tutte le devastanti “proiezioni egoiche” che ben conosciamo e che un buon pensiero “anti-soggettivista” non può che allontanare), della composizione/combinazione (e sullo sfondo della “mediazione”, magari non sostenuta dal richiamo a qualche “Sovrano”). Da qui l'attenzione, per me opportuna (vale anzi come una sorta di preghiera del pensiero), nei confronti delle filosofie novecentesche della processualità (da Whitehead a Deleuze, se mi è permesso...) e delle teorie dell'ibridazione, con simpatie spiccate nei riguardi delle avvincenti semplificazioni di Haraway.

Tutto ciò può essere sufficiente per l'antropologia filosofica e la sua “spesa” all'interno della “mia” ricerca (ma non è mai veramente “mia”, cioè non me la sento di riaffermare un senso di proprietà – tutt'altro – in ciò che scrivo, spacciandolo tossicamente per m/io, anche se me ne assumo la responsabilità... sapendola costitutivamente “irresponsabile”), con un'aggiunta, comunque, che rinvia alla “trilogia”, ai testi sul “futuro incerto, sul “divenire corpo” e sul “tempo delle istituzioni”, che considero riassuntivi di una ormai lunga indagine complessiva, e  mi sembra giusto metterla nei termini di una considerazione, di carattere francofortese (soprattutto Walter Benjamin, a cui ho dedicato la mia tesi di laurea, portata avanti anche grazie all'aiuto di un carissimo amico e “maestro” come Ferruccio Masini), della sfera corporea come figura capace di trasformazioni decisive – e non soltanto di segno storicamente negativo, dato l'uso capitalistico della tecnica, dei suoi tratti, a partire da una formidabile – a volte eccessiva/eccedente – capacità di inclusione. Necessaria articolazione iper-materialista del ragionamento, a questo punto, da sintetizzare eventualmente con un rinvio al lavoro di Christian Marazzi sul “capitale variabile” che introietta oggi – viene pure costretto a farlo – elementi di “capitale fisso” (lo sappiamo bene cosa significa nel confronto con gli sviluppi del capitalismo contemporaneo), in una pratica che però introduce nell'assetto odierno del soggetto di lavoro potenziali di dismissione (sosteneva Gorz) degli incarichi di asservimento alle logiche di comando, alle parole d'ordine degli apparati di dominio.

Da tutto questo deriva, a suo rischio e pericolo, una complicazione del costrutto parziale, provvisorio e revocabile, della soggettività, dei “molti” nel nostro quadro d'epoca, che richiede capacità di mediazione raffinata a partire dalla realizzazione di spazi – esterni e interni – di soddisfazione delle tendenze, delle spinte, all'avanzamento/innalzamento dei livelli di quella socialità che assicura tutte quelle “svolte di respiro”, per dirla con Paul Celan, che sono la nostra esistenza. Ecco dunque ritornare alla luce il motivo dell'istituzione, qui filtrato da un interesse concreto al cosiddetto istituzionalismo critico, a ciò che non lega necessariamente le “creazioni collettive”, la potenza dell'immaginazione sociale, al primato della dimensione istituzional-statualista. Si potrebbe anche dire diversamente, richiamando Adorno (spero che sia scusata questa indicazione continua di autori, ma lo faccio soltanto per ricordare alcuni dei “nomi” che per me hanno veramente contato tanto), quando sostiene che pensare l'obbligo è decisivo (noi abbiamo bisogno di obblighi, di misure, sia pure da intendersi nella loro temporaneità, nel loro essere a scadenza ben segnalata), ma dobbiamo prima di tutto pensarlo e realizzarlo non riducendolo, come invece accade, alle modalità dell'adattamento e della sottomissione: nel mio ambito di collocazione “professionale”, si può tradurre ciò nella presa di posizione a favore di una morale “per” la vita (al servizio di, con effetti di moltiplicazione) contro tutte le morali della/sulla vita, con gli effetti di carattere precostituito e di depotenziamento che ne seguono.

Tornando direttamente al tema dell'istituzione: è proprio sul divenire corpo, sulla sfera corporea tecnicamente riformulata, sulla sua irriducibile parzialità di fondo, che si può innestare un'idea differente di istituzione come fattore di reale autodeterminazione di soggettività composite, costitutivamente respingenti le modalità di riproposizione del loro rapporto, sotto veste di “capitale variabile”, con  i movimenti complessivi del capitale, con le sue “logiche”. Tale idea diversa di istituzione l'ho ritrovata proprio in Deleuze, con tutti i supporti tematici indispensabili per far filare al meglio la riflessione, a partire dai suoi primi lavori su Hume e sul nesso di istinto e – appunto – istituzione. E' stato questo il “mio” modo di stare “su” Deleuze e posso arrivare a sostenere che così si può meglio comprendere quello che dico quando affermo che per me Deleuze viene dopo Benjamin (ovvio!) ma che a sua volta Benjamin viene dopo Deleuze (sicuramente meno ovvio...).

Un'ultima annotazione, tenendo in mente il passaggio deleuziano dal diritto alla politica, che è sempre all'ordine del giorno: questo passaggio lo possiamo assicurare non stancandoci di di/segnare arcipelaghi di soggettività, di gruppo, di vincolare al meglio le controcondotte di dismissione dell'abito impostoci (di pseudo-valorizzazione, per quanto ci riguarda), di organizzarci, cioè, anche sulla base della concretizzazione di vincoli e di istituzioni d'appoggio (soddisfacente... à la Nero Wolfe, se mi è consentito lo scherzo) per non fare dell'incertezza il valore di scambio della nostra vita, bensì una risorsa di autodeterminazione e di apertura politica della nostra socialità.