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Contro la Loi Travail e il suo mondo

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Due letture di Maurizio Lazzarato e di Christian Laval del libro di Davide Gallo Lassere “Contre la Loi Travail et son Monde. Argent, précarité et mouvements sociaux” (Eterotopia-France, 2016)*

Soggetti imprevisti, guerre civili, nuove modalità di rottura

di Maurizio Lazzarato

Il bel libro di Davide Gallo Lassere mi sembra una buona occasione per una discussione sui “compiti dei comunisti” in questa fase (penso al convegno C17, visto – anche se poco – sul web). Un libro bello perché pone domande pertinenti. È a partire dalle risposte possibili che vorrei impostare un dialogo, piuttosto che scrivere una recensione tradizionale.

Davide si domanda come sia stato possibile, dopo una stagione di vittorie culminate negli anni ‘70, aver subito una sconfitta strategica come quella che ci ha inflitto il neo-liberismo. Aggiungerei che occorre capire quali siano le ragioni delle più recenti sconfitte: quella subita dalle mobilitazioni contro la loi travail non è che l’ultima di una lunga serie.

È proprio dai concetti di “lavoro” e di “produzione” che vorrei partire. In realtà essi non sono concepibili (a partire dalla conquista delle Americhe) senza il lavoro degli schiavi nelle colonie, né senza il lavoro di riproduzione delle donne, cosa che il marxismo ha ignorato o difficilmente integrato politicamente (e comunque mai nella sua teoria del “valore”). Inoltre, mi sembra che le divisioni di classe, di razza e di sesso costituiscano la “natura” non solo economica, ma politica del capitalismo. Le gerarchie di classe, le gerarchie di colore e le gerarchie fondate sull’eterosessualità, comprensibili soltanto dal punto di vista dell’economia-mondo, sono anche quelle su cui si esercita la governamentalità e sulle quali il potere costruisce i suoi modelli di assoggettamento.

Queste divisioni sono in realtà tre diversi modi di condurre la guerra civile. In tutti i tournant della sua storia, il capitalismo riprende l’iniziativa politica “innovando”, ristrutturando, distruggendo uomini e cose, ma l’innovazione, la ristrutturazione e la distruzione sono sempre filtrate da queste divisioni. Quando tutto ciò è politicamente in pericolo, il capitalismo non esita a incoraggiare e a foraggiare forme di reazione che si manifestano e si consolidano a partire precisamente dall’affermazione di queste gerarchie e di queste “guerre civili”.

Il passaggio di cui parla Davide a proposito del neo-liberismo – dalle “armi della critica” (la “Societé du Mont Saint Pelerin”) alla “critica delle armi” (la rottura del compromesso fordista che porta il capitale a considerare il proletariato come un nemico da battere senza più mediazioni) – va inteso dunque fuor di metafora.

I prodromi della guerra civile che si stanno scatenando negli Usa (una guerra civile che attraversa ormai anche le elite economiche e amministrative) sono fomentati dai neo-fascismi che designano il nemico di classe nel rifugiato, nell’immigrato, nel musulmano (i “negri” del post-colonialismo) e che vogliono ristabilire le gerarchie eterosessuali (la supremazia maschile).

L’intensità delle guerre civili in corso dipenderà solo dall’intensità dello scontro di classe. È solo la debolezza politica dei movimenti che permette a Trump di aggiungere un altro strato di neo-liberalismo (questa volta dalle tinte post-fasciste) a ciò che era già in corso. Roosevelt, invece, era stato obbligato, di fatto, a decretare l’eutanasia del “rentier”.

Il capitale non corre nessun vero pericolo, perché non c’è niente che assomigli, oggi, all’organizzazione politica e sociale, all’immaginazione politica delle lotte XIX secolo e all’esperienza della Comune di Parigi che chiuse quel ciclo. Ho avuto occasione di far notare a Christian Laval che la solidarietà e l’organizzazione del “comune” del mutualismo ha tutta un’altra portata politica rispetto a quella implicita nel logiciel libre (open source), in wikipedia e in altre mirabolanti dispositivi tecnico-scientifici. E non c’è nulla che possa rimandare al livello di autonomia e indipendenza affermato dalle rivoluzioni della prima metà del XX secolo. Le élites esitano contro Trump, non perché siano democratico-cognitive (la Silicon Valley), ma solo perché non hanno un vero nemico di fronte. Se ci fosse una capacità di critica reale, come quella sviluppata dalla composizione de classe “non cognitiva” tra il XIX e il XX secolo, i diversi poteri avrebbero già scatenato una “produzione della distruzione” paragonabile a quella che ha portato ai fascismi, alle guerre, civili o meno, e alla bomba atomica. Se è successo una volta, può succedere ancora, diceva Primo Levi, e la storia non ha mai insegnato niente a nessuno.

Queste divisioni cominciano a fessurarsi a partire già dal XIX. Si allargano durante le due guerre mondiali e nel Dopoguerra. Il ‘68 dichiara l’impossibilità di riprodurre la separazione tra Nord e Sud, tra colonizzati e colonizzatori, così come afferma la continuità tra lavoro di produzione e di riproduzione e nega radicalmente la naturalità dell’eterosessualità, minando le basi politiche del capitalismo mondiale. Le soggettivazioni delle “guerre civili” in corso anche in Europa, che da latenti si stanno manifestando apertamente, cercano di ristabilirle.

Questa doppia emancipazione dalla schiavitù, dal patriarcato e dalla norma eterosessuale che rappresenta la rottura delle due forme di sfruttamento e di dominio che hanno preceduto lo sfruttamento del salariato, mi sembra più importante dello sviluppo del General Intellect. O per dirla diversamente: quest’ultimo non può attualizzarsi che attraverso tali divisioni, mentre la sua critica non può organizzarsi che contro la macchina da guerra del capitale, costituita politicamente dalle gerarchie suddette. Sarebbe tempo di tematizzare non la potenza dei media, della rete, degli algoritmi (questa fantastica “bufala” della loro capacità di governance), ma la loro impotenza. La possibilità di controllo , di previsione, di formazione dei comportamenti da parte delle “piattaforme” si è miseramente infranta (e non da oggi), sullo sviluppo di soggettività post-fasciste, su cui non hanno alcuna presa.

L’energia soggettiva liberata dalla decolonizzazione e dal femminismo è incomparabilmente, politicamente, più potente che quella generata dal General Intellect. Sono due onde lunghe i cui effetti si faranno sentire molto a lungo e con cui è impossibile non fare i conti.

Il “riprendiamoci il denaro”, la proposta finale del libro – che ha senso solo se inteso come rifiuto del “lavoro” – dovrebbe essere articolato all’interno di queste divisioni che spaccano la composizione mondiale della forza-lavoro per poter avere come obiettivo quello di favorire le rotture soggettive contro lo sfruttamento e il dominio del capitale. Il discorso sul “reddito” rischia di diventare una nuova misura bio-politica di controllo della composizione di classe (Hamon), se non è portata avanti e investita dalle soggettivazioni che emergono dalle lotte contro le gerarchie di classe, di razza e di sesso. Non c’è alternativa all’invenzione di una nuova trasversalità di un nuovo internazionalismo.

Davide ha ragione nel porre il problema della critica e dei suoi limiti (ma non capisco che cosa c’entrino Boltanski e Chiappello con la critica, visto che hanno ammesso loro stessi i loro evidentissimi limiti: punto di vista riconducibile a un improbabile operaismo socialdemocratico, centrato sulla Francia, che li ha resi ciechi alla globalizzazione e alla finanziarizzazione!).

I concetti che hanno cercato di rendere conto delle “molteplicità” emerse negli anni ‘60 e ‘70 (le minorités, la “popolazione” della biopolitica foucaultiana, la Moltitudine) hanno un doppio limite: sono troppo generici e troppo vaghi poiché non riescono a qualificare i conflitti, a nominare i luoghi della guerra civile in corso e danno per risolto – o non prendono in considerazione – il problema che dovrebbero tematizzare.

D’altro lato, le divisioni di classe, di razza e di sesso definiscono tempi e spazi di soggettivazioni, ma tra di esse si sviluppa una vera e propria “guerra di soggettività”. Il proliferare delle soggettivazioni che il femminismo ha reso possibile (generando comunque profondi dissensi tra femminismo bianco, black e queer), le soggettivazioni che la decolonizzazione ha partorito (di cui fanno parte anche tutti i neo-fascismi islamici), le soggettivazioni di classe (con i suoi conflitti interni tra precari e lavoratori stabili, in realtà sempre più mobili), non esprimono né gli stessi desideri, né gli stessi interessi. Anzi, all’interno di tali divisioni si sviluppano opposizioni che possono arrivare fino alle guerre civili (quelle che attualmente traversano i paesi musulmani e i paesi sottomessi al potere “estrattivo” post-coloniale).

In questo senso ci sono rinvii significativi anche nel testo di Davide. Il più importante, a mio avviso, è quello relativo agli endocolonizzati: le lotte contro la loi travail, “gli arabi e i neri” francesi le hanno per lo più guardate, pur costituendo la parte più povera del proletariato. “Tutti lavorano” diciamo come un mantra. Ma io sono un lavoratore bianco, tu nero, io un lavoratore maschio, tu una donna. Mi ripeto, ma vista la sufficienza con cui si evitano queste questioni vale la pena di ripetere che il razzismo e il sessismo, non sono fenomeni culturali, ma una delle massime espressioni della guerra civile di classe, come i post-fascisti sembrano capire meglio di noi.

Non saranno sicuramente i lavoratori cognitivi a organizzare queste guerre soggettive all’interno del proletariato. Perché allora ci troveremmo ancora dentro i limiti del paradigma marxista. La “classe in sé” (che lavora, produce, coopera cognitivamente prefigurando già il “comune”) che deve diventare la “classe per sé”. Più interessante e più problematico mi sembra il concetto di soggetto imprevisto di Carla Lonzi. Il soggetto non è già dato, va costruito trasversalmente rispetto ai desideri e agli interessi, anche violentemente contrastanti (questo lo aggiungo io). La macchina soggettiva va organizzata dall’interno delle guerre di soggettività che già ci sono, che già si organizzano. Con l’occasione di qualsiasi movimento di qualche rilevanza questi desideri e interessi divergenti si manifestano.

Subito dopo l’elezione di Trump, i diversi femminismi hanno reagito in tempo reale, con una formidabile manifestazione d’internazionalismo che ha però coinciso con i confini dei vari Nord del mondo, mentre ciò che resta del movimento operaio, chiuso nei confini nazionali, è pronto a qualsiasi compromesso trumpiano pur di garantirsi qualche sempre più improbabile posto di lavoro. I diversi Sud del mondo sono stati a guardare. L’internazionalismo che si sviluppa al loro interno è quello dei deliri neo-nazisti di sterminio per vendicarsi delle efferatezze del vecchio e nuovo colonialismo (non sono io a dirlo, ma Zbigniew Brzezinski).

La critica che Davide formula alle posizioni destituenti (che hanno sicuramente il favore della maggioranza dei giovani “rivoluzionari” francesi) e alle posizioni costituenti, la rimodulerei in questo semplice modo: Chi? Chi, davvero, opera la destituzione o la costituzione?

O non c’è risposta (i destituenti) o essa viene data per scontata (i costituenti)!

“Chi” è anche la domanda che bisognerebbe rivolgere a Laval e Dardot. Chi dovrebbe costruire il “comune”? L’istituzione del comune, a mio avviso, deve darsi trasversalmente alle soggettività che emergono dalla lotta contro le divisioni di classe, di sesso e di razza (che Nuit Debout è stata molto lontana, anche dall’anticipare), altrimenti tutto si risolve in un nuovo e impossibile riformismo.

La citazione di Tronti[1] che apre il libro è sintomatica dell’incapacità del marxismo europeo di cogliere, nel Dopoguerra, le dimensioni dei conflitti di razza e di sesso che il ‘68 avrebbe poi criticato. La prima parte della citazione è semplicemente falsa, perché il punto di vista parziale della classe non permetteva già allora di cogliere il “tutto”. C’era e c’è, e in maniera irreversibile, anche il “punto di vista parziale” del colonizzato (o endocolonizzato) e il punto di vista, altrettanto parziale, della femminista: entrambi vedono in ciascuno di loro un “tutto”, assai differente.

Realtà prontamente verificata, perché, come scrive Rancière, il ‘68 fa esplodere il marxismo. Per Tronti la “grande politica” finisce qui (comincia, in effetti, quella piccolissima del suo partito, quello con cui ha votato il Jobs Act e la legge sulle unioni civili), mentre Althusser, altro grande marxista del Dopoguerra, sarà costretto a schierarsi contro ciò che vede senza poter capire. Di Adorno ha già detto il movimento studentesco tedesco dell’epoca.

Un po’ come ora, se mi permettete questo azzardo. Non mi sembra che il (nostro) post-operaismo sia armato teoricamente per cogliere quello che sta accadendo.

Abbiamo bisogno di una “lettura politica”, non economicista e non sociologica come dice la seconda parte della citazione, che deve però essere adattata alla nuova situazione, attraversata e caratterizzata da nuove soggettività. Per certi aspetti, ma soltanto per certi aspetti, la congiuntura contemporanea assomiglia all’epoca a cavallo del XIX e XX secolo. I movimenti politici e sociali, oggi come allora, passavano di sconfitta in sconfitta (di massacro in massacro sarebbe più corretto dire per il XIX secolo). Malgrado una capacità di organizzazione e di “creatività” politica (che i lavoratori cognitivi – con tutto il sapere che hanno incorporato – si sognano) venivano regolarmente e violentemente repressi.

Lenin pensa il partito (sul modello della fabbrica dirà Weber), un tipo di soggettività militante (il “rivoluzionario di professione”) un metodo (la coscienza di classe portata dall’esterno da un’avanguardia) etc., per cercare di porre fine alla serie di sanguinose sconfitte. Due sono i problemi principali, su cui i desideri, i sogni e i progetti di rivoluzione si infrangevano: il potere e la guerra. Lenin una risposta la dà ed è anche efficace: prendere il potere e trasformare la guerra imperialista in guerra di classe.

Ora, tra il 1917 e oggi, c’è di mezzo il ‘68 che ha completamento rimesso in discussione la strategia che aveva aperto il ciclo delle rivoluzioni “vittoriose”. Il partito, l’egemonia della classe operaia, l’avanguardia, eccetera non possono funzionare perché espressamente rifiutate dalle soggettività del Dopoguerra. Dal ‘68 in poi tutti i movimenti hanno rotto con il comunismo e il suo storico successo, come con il suo altrettanto storico fallimento. Ma le questioni del potere e della guerra restano: sono ancora attuali, basta guardarci intorno. Anzi, su questo il ritardo teorico e politico è enorme. Nessuno, negli anni ‘60 e ‘70 è stato in grado di trovare una risposta diversa da quella leninista e, adesso, nessuna sembra neanche preoccupato di cercarla.

La difficoltà dei movimenti contemporanei risiede nell’incapacità di elevarsi al livello dello scontro in corso e di quello che si prepara: la prossima e annunciata crisi finanziaria (tutte le condizioni sono già consolidate, resta de capire cosa farà esplodere le mille bolle che la crisi del 2008 ha fatto spuntare come funghi – Trump, forse?) e le cui conseguenze saranno ancora più drammatiche.

Se l’esperienza europea di Podemos è una risposta alla sconfitta di Syriza, il suo “populismo di sinistra” scoraggia anche i più ben intenzionati, perché non tiene conto né della natura dell’iniziativa capitalista, né della composizione di classe. Alle teorie neo “peroniste” di Laclau, s’è convertita anche Judith Butler, a testimonianza della debolezza del femminismo quando esce dal suo specifico ed è costretto ad affrontare la “lotta di classe” più in generale (vedi anche le banalità raccontate da Donna Haraway e Rosi Braidotti sulla congiuntura trumpista).

La forte mobilizzazione contro la loi travail non esce dai limiti qui velocemente tracciati. Ma nessuna disperazione. Anche il movimento operaio è dovuto passare per una lunga serie di sperimentazioni, di sconfitte e di vittorie parziali, prima di trovare, all’interno delle guerre civili, i metodi e le organizzazioni per resistere e attaccare. È possibile pensare e praticare un nuovo concetto di rottura e di rivoluzione senza i tempi, i metodi e le modalità di organizzazione della “classe” operaia? È realistica la costruzione di una macchina da guerra riformulata dalle “molteplicità” dei conflitti di classe, di sesso e di razza che abbia la capacità di confrontarsi con le nuove dinamiche neo-fasciste del potere e delle guerre? Fuori da qui, non vedo molte altre strade.



[1] Che cosa resta del primo operaismo, di cui Operai e capitale è solo un’espressione. Alcune cose le ho dette nell’introduzione dell’incontro di Nanterre: resta il punto di vista parziale da cui guardare il tutto, resta la concezione conflittuale del rapporto sociale, resta la soggettività delle lotte che impone all’avversario il terreno dell’iniziativa. Ma resta, per me, soprattutto la lettura politica della lotta di classe, l’antieconomicismo, l’antisociologismo, l’antideologismo. È quanto mi porta oggi a sostenere questa idea da pensiero estremo: che per abbattere la minaccia della centralità operaia il capitalismo ha dovuto abbattere la centralità dell’industria, con la conseguenza di questa nuova forma di ordine capitalistico basato sul disordine finanziario, dove non è più la crisi periodica che interrompe lo sviluppo permanente ma, al contrario, lo sviluppo periodico che interrompe la crisi permanente. Quando dico questo, vedo gli occhi sgranati degli economisti, neoliberisti, postkeynesiani o pseudomarxisti, che siano. È vera questa tesi? Non è vera? Non mi interessa. Non cerco la verità storica, oggettiva, buona per tutti gli intellettuali disorganici. Cerco un’idea-forza, politica, che mi serva per costruire un fronte di conflitto che vada alla radice delle divisioni sociali attuali.

 

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Pensare strategicamente la lotta contro la Loi Travail

di Christian Laval

Contre la loi travail et son monde di Davide Gallo Lassere è il primo libro che tenta di fare il punto sulla sequenza di lotta sociale della primavera 2016, il “lungo marzo francese”, prolungato da Nuit debout. Il saggio mette in prospettiva storica il movimento primaverile, risalendo al cambiamento del regime d’accumulazione intervenuto negli anni ’70 e iscrivendolo nel processo di cambiamento della composizione del salariato e delle sue forme. Questo saggio rompe con le letture troppo immediate e congiunturali, e, soprattutto, con le letture descrittive e senza concetto. Il libro di Davide Gallo Lassere è dunque molto più di un semplice pamphlet. È al contempo una cronaca della lotta e un’interpretazione teorica del movimento. È per questo che merita che gli vengano poste un certo numero di questioni attinenti alla portata e alle caratteristiche del movimento.

Dell’effetto politico del movimento

La prima questione da porre concerne l’effetto politico del movimento. Il libro, scritto tra luglio e agosto, dà appuntamento a settembre 2016. Come sappiamo, la legge è passata e il movimento si è spento. Non è la prima volta che un movimento fallisce nel far arretrare un governo. Uno degli aspetti più rilevanti della forma di governo neoliberale è che un governo non arretra davanti ai movimenti sociali, non negozia. Thatcher ha fornito l’esempio attraverso il confronto brutale con i sindacati dei minatori. Lo stesso scenario si è presentato in Francia durante le grandi manifestazioni del 2003 e del 2010 – il movimento anti-CPE del 2006 essendo un’eccezione. Ciò che costituisce la novità riguarda il fatto che sia un governo che si reclama “social-democratico” ad aver adottato tale stile autoritario e intransigente, rompendo nel modo più esplicito con tutta la tradizione social-democratica del “compromesso sociale”; quasi come se avesse voluto fornire, nei confronti del potere europeo, la prova per l’ennesima volta della sua adesione piena e integra all’agenda ordoliberale delle “riforme strutturali”.

Ma cosa significa questa “vittoria”? Per il governo, si tratta di ciò che comunemente si chiama una vittoria di Pirro, poiché è in parte corresponsabile dell’impopolarità crescente di Hollande e Valls. L’effetto politico di lunga portata consisterà in un tornante a sinistra del partito socialista, ultimo tentativo di resurrezione della social-democrazia, oppure in un’accelerazione del suo declino come in Spagna e in Grecia? Ad ogni modo, il movimento ha chiaramente posto il problema dell’egemonia del partito socialista sulla sinistra e del rovesciamento del rapporto di forze in favore del capitale da essa promosso. Più in generale, questo movimento non testimonia anche delle forme di radicalizzazione che hanno a che fare sia con la destra che con la sinistra, come l’abbiamo visto alle primarie della destra con la vittoria di un candidato che osa richiamarsi a Margaret Tatcher? La Francia ha davanti a sé degli scontri via via più duri, siccome la destra e il patronato, incoraggiati dalla sottomissione del partito socialista al neoliberalismo, sembrano decisi a portare fino in fondo questa logica neoliberale. Quanto all’estrema destra, si nutre di queste politiche anti-popolari, beneficiando della seduzione del “socialismo nazionale” neofascista presso le “classi declassate”. Infine, se il movimento sociale non si è risvegliato quest’autunno, abbiamo al contrario visto la mobilitazione di un movimento corporatista, animato da poliziotti di estrema destra – fatto che non annuncia niente di buono rispetto alla radicalizzazione politica in seno all’apparato repressivo di Stato.

Omogeneità o eterogeneità del movimento?

La seconda questione concerne la composizione sociale e politica del movimento contro la Loi Travail e Nuit debout. Il libro di Davide Gallo Lassere insiste sul fatto che il movimento non ha integrato i “gruppi sociali razzializzati”. Certo, ma ciò autorizza veramente a tirare le conclusioni di un’omogeneità sociale e politica del movimento? Il saggio pare postulare una sorta di continuità, persino di connivenza, tra lo “spezzone di testa” [cortège de tête] e il corteo dei salariati condotto o inquadrato dalle organizzazioni sindacali, principalmente CGT, FO e Solidaires. Sottolinea a più riprese il carattere produttivo e offensivo dell’“azione reciproca” tra le differenti componenti del movimento.

Ciò pone un insieme di problemi, a partire dalla convergenza di più forme d’espressione politica. Sembra, a seguire lo svolgimento del movimento nel suo insieme, che quest’ultimo sia stato attraversato da tre logiche differenti e su certi punti inconciliabili. Si potrebbe denominarle così: la logica sindacale che prova la sua forza grazie al numero; la logica della sommossa e dello scontro con la polizia; la logica democratica che inventa e sperimenta nuove pratiche.

La coesistenza di queste forme nelle stesse manifestazioni o nello stesso momento non significa che tendano ad unificarsi. Cominciamo dal rapporto tra le due prime logiche. Affianco, o più esattamente in testa alla manifestazione di massa dei sindacati dove il criterio della forza è il numero dei manifestanti e/o degli scioperanti, si è vista apparire un’altra forma di espressione politica rivoltosa per la quale ciò che conta è l’intensità dello scontro, la visibilità dei danni materiali dalla portata simbolica provocati da piccoli gruppi determinati e distaccati dal corpo della manifestazione. Due logiche vicine, quella del numero e della violenza, ma che non s’incontrano e non convergono necessariamente. L’analisi di Davide Gallo Lassere, senza negare questa eterogeneità, postula una convergenza, meglio una “contaminazione” della logica della sommossa al resto del corteo sindacale. Afferma così che le pratiche rivoltose “sono riuscite a contaminare positivamente dei settori normalmente più restii della popolazione e della sinistra tradizionale a queste modalità di manifestazione del dissenso” (pp. 73-74). Senza dubbio gli esempi del 9 aprile o del 1° maggio a Place de la Nation hanno mostrato una certa mescolanza tra il cosiddetto “spezzone di testa” e i manifestanti rimasti sulla piazza, anche se non erano affatto venuti in massa per scontrarsi con la polizia. Possiamo dedurre un’“azione reciproca” positiva, se le componenti di “testa” e di “corpo” sono rimaste, salvo eccezioni, piuttosto estranee l’una all’altra? Non si può negare che la volontà dei gruppi autonomi era di ingaggiare un confronto di massa con la polizia e che la tattica provocatoria delle forze di repressione durante tutto il movimento li ha incoraggiati. Ma si può anche notare come l’effetto domino non ha avuto luogo.

La logica rivoltosa, facendo della polizia il nemico principale, se non il solo nemico (“tout le monde déteste la police”) non ha cercato di deviare il movimento verso altri bersagli rispetto alla Loi Travail? Non era d’altronde l’obiettivo dell’appello degli intellettuali del 22 marzo (data o quanto simbolica) che relativizzava la Loi Travail e chiamava a un “debordamento”: “ci pare che ciò che bolle nel paese ha certo per fattore scatenante la Loi Travail, ma in fin dei conti ha poco a che vedere con questa legge”, spiegava dottamente l’appello. Frase che risuona in modo piuttosto strano siccome la Loi Travail, in quanto legge neoliberale che colpisce direttamente il salariato, può apparire al contrario come intimamente legata a “ciò che bolle”. Si potrebbe prolungare il ragionamento: questa forma rivoltosa d’ispirazione insurrezionalista, non ha danneggiato il movimento sociale permettendo al potere di criminalizzarlo? Ciò che sembra attestare il girotondo sinistro attorno al bacino dell’Arsenal il 23 giugno. Questo “percorso sindacale” sotto stretto controllo poliziesco con perquisizione dei manifestanti è un fenomeno totalmente inedito nella storia sociale francese.

La questione dell’omogeneità concerne ugualmente il rapporto tra movimento sociale e Nui debout. Abbiamo assistito a una sequenza inversa rispetto alla Spagna del 2011: il 15M comincia con un’occupazione delle piazze, la quale si accompagna ad una sperimentazione politica di grandi dimensioni, seguita dalle “maree” sociali che implicano dei salariati di differenti settori dello Stato, e si prolunga infine con una ricomposizione politica tanto su scala locale che nazionale. In Francia, all’inizio vi è un movimento di salariati piuttosto classico che in parallelo vede nascere un tentativo di reinvenzione democratica con Nuit debout. Se vi sono effettivamente state delle intersezioni puntuali tra i due, non è avvenuta una vera e propria fusione. Le organizzazioni sindacali hanno guardato senza dubbio con distanza, può darsi persino con diffidenza, lo sviluppo di un modo di espressione politico che resta loro estraneo. Ciò non è per forza vero per molti dei manifestanti, di cui alcuni sono potuti passare dall’una all’altra di queste forme politiche senza iati. Ma ciò supponeva delle disposizioni particolari per superare la posta in palio immediata della lotta (il ritiro della legge) e interrogare l’insieme dei dispositivi neoliberali, e aldilà, per tentare di praticare una “democrazia reale”. Constatiamo che uno dei grandi limiti del movimento attiene al fatto che Nuit debout non sia riuscita ad attirare la grande massa delle persone mobilizzate contro la legge. Ciò non vuol dire che tutto è svanito. Al contrario, si può legittimamente pensare che ciò abbia rappresentato una prima fase d’apprendimento di nuove pratiche che germoglieranno in altri movimenti.

Quanto alla logica della reinvenzione democratica di Nuit debout, non si armonizza facilmente con la logica rivoltosa e insurrezionalista dello “spezzone di testa”. Vi è tra di loro una contraddizione che il libro non sottolinea forse a sufficienza. Nuit debout obbedisce a una logica radicale il cui principio è l’uguaglianza concreta tra tutti. Nessun esperto, nessun capo, nessun rappresentante. E soprattutto nessuna avanguardia che impone la sua parola e i suoi atti. Ciò ha senz’altro comportato delle difficoltà, ma tutto l’interesse di una pratica utopica di massa sta proprio qui. Al contrario, la logica rivoltosa, aldilà delle intenzioni esplicite di coloro che la praticano, reattiva il grande mito dell’avanguardia auto-proclamata, simbolicamente in avanti rispetto alle masse, a testa del corpo della manifestazione, esercitando una violenza al contempo materiale e simbolica che dovrebbe, si presume, inaugurare il “grande sollevamento”. Non si tratta dell’ultima riedizione, sotto il nome di autonomia, di un’illusione classicamente blanquista, ossia sostitutista? I lazzi e le prese in giro dei “veri arrabbiati” rispetto a Nuit debout (“ricreazione di piccoli-borghesi inoffensivi”, come si è sentito dire) sarebbero sufficienti a mostrare tutto lo scarto tra delle persone che non hanno affatto la stessa strategia.

La contestazione multiforme della primavera 2016 non dimostra forse l’assenza di giunzioni tra le “soggettività ribelli”, fattore che spiegherebbe i limiti del movimento della primavera scorsa? E quest’assenza non tiene forse conto dell’impotenza politica, o piuttosto di una triplice impotenza politica? In quanto né la manifestazione sindacale classica operante sul numero, né la violenza rivoltosa fondata sull’intensità dello scontro con la polizia, né la sperimentazione democratica di Place de la République hanno dato nascita a un movimento politico nuovo e originale. È da venire? Come si attuerà il superamento di questa disgiunzione? È qui che si pone il problema strategico. E l’interesse del libro di Davide Gallo Lassere è di condurci a questo punto.

Quale linea strategica?

Non si può che essere colpiti dal tema della “destituzione” che ha percorso le varie letture interpretative del movimento e che riprende in parte il libro di Davide Gallo Lassere. Questo tema, che sembra provenire da Agamben (e dalla sua lettura di Primo Levi), fa della “destituzione” il nec plus ultra di una certa politica radicale odierna. Si vede così sorgere o risorgere il tema della “sottrazione”, della “fuga” o dell’“esodo”. Che cosa ci dicono tali concetti della politica attuale? In che cosa la destituzione è così seducente per una parte almeno della gioventù colta e radicalizzata? Per dirlo in termini più strategici, come la “destituzione” permette di strappare l’iniziativa dalle mani del capitale e di riequilibrare il rapporto di forze tra capitale e lavoro? Non è questo il luogo per discutere l’apporto concettuale di Agamben. Ci atterremo alla proposta politica centrale di Davide Gallo Lassere. A seguirlo, per congiungere le “soggettività ribelli” bisogna porre un obiettivo politico. A tal riguardo, il “reddito sociale incondizionato” fornirebbe un potere destituente particolarmente potente rispetto al lavoro salariato. Avrebbe l’immenso interesse di permettere la ricomposizione di un soggetto politico. La rivendicazione del reddito sociale incondizionato, scrive Davide Gallo Lassere, “può così costituire il pilastro di una potente ricomposizione di classe, facendo convergere e articolando tra di loro le esigenze differenti di una pluralità di soggettività” (p. 90). Donne, giovani, popolazioni razzializzate vi troverebbe in particolare la base al contempo unitaria e molteplice di un’azione comune, ciò che non sarebbe più il caso delle rivendicazioni tradizionali legate alla centralità del salariato. E questo carattere unitario è dovuto al fatto che il denaro è un equivalente generale. La molla dell’unità nella molteplicità, la composizione della moltitudine, passerebbe necessariamente dall’equivalente monetario legato alla forma-merce della società. L’autonomia individuale apportata dal reddito sociale incondizionato avrebbe una dinamica socializzante più importante del lavoro. Per dirlo in altri termini, il comune passerebbe al contempo dai meccanismi di redistribuzione e dal mercato. Siamo qui ovviamente agli antipodi Marx: il lavoro non è più la base del comune a venire. Il denaro invece sarebbe l’unico in grado di fornire questa base. Solo quando le condizioni dell’autonomia individuale saranno riunite grazie al reddito sociale incondizionato si potrà immaginare la costruzione di una nuova società. L’autore raccomanda così una rivoluzione tramite il denaro: “chi vuole prendere il potere, che cominci col prendere il denaro”.

Questa proposta politica, dal portamento a tratti provocatorio, è innanzitutto degna d’interesse per il fatto che esplicita chiaramente una delle implicazioni della teoria del reddito universale: rimpiazzare il lavoro tramite il mercato come mediazione sociale. L’autonomia individuale, secondo l’autore, è innanzitutto permessa dall’accesso al mercato, non passa dalla socializzazione del lavoro. E ciò è altamente problematico. Perché mai il reddito sociale incondizionato potrebbe sfociare su qualcos’altro rispetto a una società di individui che non hanno tra di loro nessun altro rapporto che il mercato? Tra il lavoro salariato sotto il comando del capitale e l’accesso al mercato al difuori del lavoro non vi sarebbe un’altra via? È possibile isolare una “politica destituente” da uno scopo rivoluzionario di reistituzione della società? Davide Gallo Lassere non lo pensa di certo. Ma come pensare insieme allora questa visione d’insieme e delle rivendicazioni parziali?

Re-istituzione non vuol necessariamente dire ristabilire una rappresentanza dalle pretese sovrane, come non significa nemmeno una sistemazione ai margini del rapporto capitale/lavoro. La politica del comune, della quale la questione del reddito e l’accesso alle risorse non è che un aspetto, non fa del denaro e del mercato le leve principali e ancor meno le uniche di una trasformazione radicale della società. Essa mette in primo piano la pratica democratica istituente, ossia la trasformazione di tutte le attività secondo un principio di co-decisione e di co-obbligazione. È in ciò del resto che la sperimentazione di Nuit debout, aldilà dei suoi limiti, rappresenta un avanzamento. Insomma, la discussione che apre il libro di Davide Gallo Lassere si focalizza sulla transizione verso una società del comune: come articolare la trasformazione della struttura e della natura dei redditi con la trasformazione delle attività stesse? È la risposta concreta che saremo capaci di apportare a tale questione strategica senza false via di fuga né illusioni che condizionerà la congiunzione dei rifiuti, delle rivolte e delle sperimentazioni.

 

* I testi sono pubblicati in contemporanea anche su Effimera.