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Alla radice della scelta partigiana

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Gigi Roggero recensisce “Un uomo un partigiano” di Roberto Battaglia

0. Sulla Resistenza è stata prodotta una letteratura sterminata. Perlopiù era tesa a una sua beatificazione, fondata sul risveglio di una coscienza nazionale che si riscatta combattendo contro l’invasore. A distanza di qualche tempo, attaccando quel costrutto retorico, il cosiddetto revisionismo storico – fino ad arrivare alla recente immondizia da rotocalco – ha tentato di liquidare, insieme alla beatificazione, le ragioni della scelta partigiana. Entrambe le operazioni non erano rivolte al passato, bensì al presente. La seconda opzione è evidente, nella misura in cui mira a una riscrittura della storia in chiave reazionaria. La prima è, tuttavia, non meno pericolosa, perché utilizzata per mettere fine al significato concreto dell’esperienza partigiana. La beatificazione è andata qui di pari passo con la depoliticizzazione e la pacificazione, funzionale all’accettazione del nuovo quadro liberaldemocratico post-resistenziale. I partigiani, divenuti icona astratta, cessavano di avere parola in quanto soggetti concreti.

Questa operazione è stata guidata politicamente innanzitutto dal Partito Comunista, in una continuazione della “svolta di Salerno” con altri mezzi; culturalmente, dagli eredi intellettuali dell’azionismo, che proprio nell’intoccabilità della narrazione resistenziale hanno il proprio dna. Non è un caso che ogni qual volta sono emerse delle ipotesi storiograficamente eretiche – dalla Resistenza come guerra civile di Claudio Pavone ai partigia di Sergio Luzzato – esse sono state immediatamente stigmatizzate o addirittura ritenute in odore di revisionismo, etichetta usata a mo’ di mannaia e scomunica politica. Del resto, partendo da due poli contrapposti, tra beatificazione di sinistra e liquidazione di destra vi è stata una paradossale convergenza: impedire la riproposizione della scelta partigiana al di fuori della lotta al nazifascismo. Scongiurare dunque una scelta di parte, una scelta rivoluzionaria.

1. Non è forse un caso, allora, che abbia avuto ben poca fortuna editoriale un libretto scritto a caldo e terminato nell’aprile del 1945 (la data posta in calce alla prefazione è di dieci giorni antecedente al fatidico 25). Un libretto scritto da un partigiano che afferma – al contrario della futura narrazione ufficiale – che non si trattava di “un movimento fatto tutto d’eroi o di gente onesta (il che non è mai avvenuto o avverrà per ogni convivenza umana)”. E proprio per questo era un movimento reale, sovversivo, rivoluzionario. Pubblicato nel settembre dalle edizioni U, legate al Partito d’Azione, e presto scomparso dalla circolazione, il volume è stato ripubblicato da Einaudi vent’anni più tardi, infine riproposto da il Mulino nel 2004. Il titolo è Un uomo un partigiano, l’autore è Roberto Battaglia, ricordato principalmente per la sua monumentale Storia della Resistenza italiana.

Alla Resistenza Battaglia ha preso parte nelle formazioni di Giustizia e Libertà, per poi entrare nel 1948 nelle file del Partito Comunista. Un uomo un partigiano nasce dalla sua esperienza combattente, prima in Umbria e poi in Toscana. Ma il libro è molto più di un semplice diario o narrazione dei fatti: cerca di individuare i punti in cui la sua biografia si intreccia con altre biografie, si riconosce, si unisce in “una sostanziale affinità di intenti”, diventa storia collettiva. Le prime righe della prefazione chiariscono con precisione l’obiettivo: “L’8 settembre 1943 ero un tranquillo studioso di storia dell’arte, chiuso in un cerchio limitato di interessi e di amicizie; l’anno dopo, l’8 agosto, ebbi il comando d’una divisione partigiana che ha dato più d’un fastidio al tedesco. Per spiegare questo cambiamento della mia apparenza sociale, se non di me stesso, debbo accennare a quella che era la mia vita negli ultimi tempi del fascismo; per chiarire poi che cosa è stato il movimento partigiano in Italia non posso commentarlo che attraverso ciò che io stesso ho visto o fatto, ossia commettere l’immodestia di parlare in prima persona”.

L’autore comincia subito con il rompere un’altra verità ufficiale che sarebbe servita come autogiustificazione per gli accademici e l’intellighenzia italiana. Gli intellettuali, ci dice Battaglia, “non sono stati mai costretti a dare le loro energie alla causa delle camicie nere, pena, in caso contrario, la perdita del pane quotidiano o il carcere”. Qualcuno aderì con convinzione al fascismo, altri vi amoreggiarono più o meno alla lontana, altri ancora continuarono i propri studi “senza sentir il bisogno di parlare del dittatore”, ma tutto ciò senza che ci sia mai stato “un vero ‘ultimatum’ del fascismo alla cultura”. L’impulso all’interruzione di quel comodo rifugio è – in pochi casi – avvenuto in modi specifici; l’autore rintraccia un evento per lui cruciale nella morte di un caro amico in Jugoslavia, ucciso da un nemico che – gli aveva confessato – aveva ragione. Ciò si combina al rapido succedersi degli eventi dopo l’8 settembre, dello sfasciarsi degli schemi prefissati con cui aveva guardato il mondo, dell’insopportabilità per le piccole cose dopo aver tollerato i grandi soprusi, di un radicale smarrimento trasformato nella ricerca di una nuova strada. A quel punto le giustificazioni crollano: “Il comodo ‘alibi’ della dittatura che tutto avrebbe imposto dall’alto soffocando ogni coscienza individuale poteva difenderci dagli altri, ma non da noi stessi, non poteva giustificarci, di fronte alla coscienza, della freddezza o della rassegnazione con cui eravamo arrivati alla catastrofe. Sentirmi e dichiararmi colpevole cominciò allora ad essere per me l’unico modo per non disperare completamente, perché già c’era in questa ammissione la possibilità d’un riscatto o d’una rinascita”. La scelta di parte nasce quindi, prima ancora che dall’adesione a una prospettiva, dalla necessità di una rottura: con il mondo circostante e con la propria forma di vita, dall’andare contro il nemico e contro un nemico che si è radicato in noi stessi.

2. Battaglia lascia Roma e l’istituto culturale nel quale lavorava e va in Umbria, dove avviene il suo primo contatto con l’embrionale formarsi di una realtà partigiana. Prima ancora, fa qui esperienza dell’incontro tra la popolazione locale e i prigionieri evasi dai campi di concentramento dell’Italia settentrionale. È nelle case contadine che si produce un internazionalismo primitivo, senza ideologia, nella condivisione del pane e nella ricerca delle armi; un internazionalismo quasi istintivo, mai liscio e pacificato, con attriti e conflitti che, senza sparire una volta per tutte, si ricompongono nell’odio per il nemico. In questo crogiuolo di esperienze, tra italiani e slavi, russi e greci, i ribelli divengono partigiani, la fuga sui monti si organizza in guerriglia, per entrare con forza nell’immaginazione collettiva.

Battaglia ritorna per un certo periodo a Roma, dove rimane fino alla “mancata insurrezione”. Quali sono le cause? Varie: l’accettazione del Cln del governo luogotenenziale, il peso del pontefice, le direttive degli Alleati in arrivo verso una soluzione legale e controllata, ossia priva di tumulti popolari. Ma c’è una ragione, sopra tutte le altre: “La popolazione di Roma, nella sua massa non aveva nessun desiderio spontaneo d’insorgere, perché, altrimenti, nessuna limitazione o considerazione avrebbe potuto fermarla. Essa era in quel momento lontana da ogni desiderio rivoluzionario e l’angosce e i timori, che aveva subito durante il governo nazifascista, erano stimati nel cuore di ognuno già come il massimo contributo che egli potesse dare. Si nutriva soltanto di una ansietà di pace e d’ordine, troppi dolori e troppi pericoli s’erano passati per accrescerli ancora una volta di propria volontà all’ultimo momento. Ed è ancor oggi questa la caratteristica principale della situazione italiana: trovarsi più stanchi e più disorientati proprio quando occorrerebbe maggior decisione e spirito di sacrificio; caratteristica per cui è facile la condanna, non altrettanto facile provare che non se ne è in qualche modo responsabili”. Senza lotta e disposizione al sacrificio, non vi è desiderio rivoluzionario. Battaglia non dimenticherà la lezione.

Sistemati al sicuro i familiari, decide allora di partire in direzione della Toscana: paracadutato dall’aviazione alleata nella Garfagnana, finisce in una banda partigiana diversa da quella prevista. Nella tumultuosità degli eventi, il caso gioca il suo ruolo; ma lo fa dentro una scelta di parte, partigiana appunto. Battaglia vi arriva nutrito da vaghe idee liberal-socialiste, o in quanto “comunista senza saperlo” come lo definiva un suo compagno. Soprattutto, vi arriva con la “irrequietezza per la distruzione di un mondo che avevo già creduto definitivamente stabilito in me stesso”, che incontra i giovanili impulsi verso l’avventura della guerra su un unico piano: “quello della convinzione di dover ricostruire non soltanto noi stessi, ma la stessa società in cui vivevamo, combattendo, di non restare come spettatori sulla sponda, ma di gettarsi nella corrente”. Ecco qui un’invariante delle forme storiche della militanza rivoluzionaria: è il contro che produce il per, la “torbida e accanita energia della distruzione” che mette in moto la possibilità della creazione, l’odio per il nemico che accomuna amici mai conosciuti prima.

3. È il settimo capitolo il cuore del libro: “Chi sono i partigiani”. A questa domanda, cruciale, Battaglia ci fornisce risposte dettagliate, a partire dalla composizione del movimento là dove lui ha combattuto, per arrivare all’importanza del contesto specifico e delle tradizioni, quelle locali e quelle di origine dei partigiani. Se nella Lunigiana le bande sono costituite in gran parte da operai di Massa e Carrara, la principale caratteristica dei luoghi della Garfagnana è la figura del partigiano-contadino, impegnato di giorno nelle fatiche dei campi e di notte nello sperimentare le armi piovute dal cielo. Vi sono poi, ovviamente, le appartenenze partitiche e ideologiche, che convivono in modo contraddittorio, determinando un clima di lotta politica all’interno della stessa guerriglia. E tuttavia, in quelle zone, è secondo l’autore “l’ambiente stesso che sembra spiegare quel continuo stato d’insorgenza verso il tedesco, quasi che i suoi abitanti avessero approfittato d’un momento di caos per impugnare le armi e manifestare la propria inclinazione”.

In questo quadro, Battaglia interroga i partigiani sulle motivazioni della loro scelta, riassumendole in alcune risposte ricorrenti: l’ho fatto per sfuggire alla cattura dell’esercito repubblicano, perché i tedeschi mi hanno bruciato la casa oppure uno della mia famiglia è stato ucciso in una rappresaglia, per povertà o per vendetta, perché sono comunista, anarchico, azionista; qualcuno dichiara di essere entrato in una banda partigiana perché vi era già un suo familiare o amico, qualche altro perché era privo di mezzi economici e non aveva altra scelta, altri ancora perché attratti dal sapore dell’avventura. C’è, ovviamente, l’odio per il nemico, la necessità di contrapporsi, l’esigenza di difendersi.

C’è però un motivo per tutti identico e che tutti li riassume: “l’impulso di mettersi fuori legge, per farla finita con un vecchio mondo che era crollato o stava crollando intorno a noi, e il desiderio, nel tempo stesso, di ricostruirne uno nuovo”. L’idea di ricostruzione era più o meno definita, assumendo tonalità e inclinazioni molto diverse; non era in nessun caso rimandata al futuro, ma immediatamente operante e agita nella pratica. La base era invece interamente comune: “l’aspirazione ad una sconfinata libertà da conquistarsi con le armi”. E le leggi?, domandava ieri come oggi il legalitario democratico; “le leggi le faremo, ma giuste, da noi stessi”, rispondeva il rivoluzionario partigiano. La legge consisteva, per esempio, nel convocare i banchieri della zona per costringerli a mettere a disposizione i soldi necessari alla guerriglia, e di fronte ai loro volti impauriti incorniciati da eleganti abiti civili, poter affermare: “Io sono la legge – sì, la legge, o miei banchieri, così stupiti da non esser nemmeno capaci di sorridere cordialmente su quella dichiarazione”.

Nessun partigiano affermerà, ci dice Battaglia a dispetto dei vecchi ideali nazionalisti, che l’ha fatto per amor di patria. Non poteva emergere un Garibaldi, perché i capi stessi, spontaneamente accettati, erano parte della massa ed erano destinati a esserne riassorbiti appena il loro compito fosse cessato. Né le retoriche patriottiche e tardo-risorgimentali potevano spiegare “quella necessità quasi febbrile che invadeva i partigiani di gettarsi sul nemico, [...] in modo talvolta frammentario e inconsulto e tale da costare i più gravi sacrifici e le più dure rappresaglie, quell’ansia di far giustizia violenta e immediata di tutti i collaborazionisti col nemico”. E non potevano spiegare il così scarso ascolto delle direttive del Comando alleato, “quasi si conducesse una guerra per proprio conto e le vicende di quella ‘ufficiale’ si verificassero in un diverso pianeta”.

Agli “eroi” che sarebbero stati consacrati ex post dalle retoriche resistenziali di cui sopra manca la chiarezza delle intenzioni, l’eleganza di un Goffredo Mameli o dei fratelli Bandiera; “emana da loro, spiacevole e offensivo, piuttosto il disumano clima della guerra civile”. Battaglia sembra qui presentire l’agiografia che si sarebbe abbattuta sul movimento partigiano, quel termidoro storiografico consistito nel celebrare i martiri rivoluzionari per mettere fine al processo rivoluzionario. Alla purezza dell’eroe da celebrare, preferisce l’odore acre della guerra civile; ciò che è sgradevole per i palati fini dei salotti borghesi, è il carburante di ogni movimento reale.

4. Rompendo ex ante la celebrazione, dunque, Battaglia ci permette di analizzare quella del partigiano come figura specifica della militanza rivoluzionaria, con le sue peculiarità e le sue costanti. È mossa dall’odio, accomunata dalla contrapposizione, unificata dalla scelta di mettersi fuori legge. È la libertà conquistata nella lotta ciò che costruisce una nuova società, ovvero un nuovo modo di stare insieme, nuove norme e leggi. Non vi può essere separazione tra il prima del conflitto e il dopo della politica, perché è il conflitto a diventare forma imprescindibile della politica. Ecco quindi come si forma un “desiderio comune”, quali ne sono le basi materiali, quali le condizioni di sviluppo; con buona pace delle retoriche postmoderne, sacrificio e disciplina sono parte del desiderio, ne costituiscono le infrastrutture concrete. Qui le storie individuali diventano storia collettiva. Lungi dallo sparire, al contrario è proprio a questo livello che le singolarità trovano la loro massima possibilità di espansione: “Nella vita comune hanno imparato per quotidiana esperienza che cosa significhi vivere gomito a gomito con altre dieci o cento persone non imposte da nessun organico militare, ma con cui ci s’è spontaneamente incontrati e uniti in quell’idea che tutto il mondo si debba rifar da capo e che spetti proprio a noi rifarlo, hanno constatato tutte le piccole e grandi difficoltà che incontra ogni gruppo d’uomini prima d’ordinarsi in una nuova legge. Nella stessa vita hanno sviluppato al massimo, come forse non capiterà loro mai più, le loro attitudini, gli impulsi del carattere e si sono sentiti tanto più giovani e lieti di vivere quanto più la presenza della morte si insinuava un po’ dovunque anche durante quei riposi sereni”.

La scelta della militanza rivoluzionaria è sempre una scelta di parte, contro l’interesse generale. È irriducibile allo schema democratico, della maggioranza e della minoranza, della legalità e dell’illegalità. Perché verità e giustizia non appartengono mai a principi astratti, ma a pratiche concrete. I partigiani di Battaglia ci ricordano, infine, che libertà e vendetta si accompagnano mano nella mano, che la liberazione è “il momento in cui faremo pagare all’invasore tutti i loro stenti e i loro lutti”. Dall’alto di questo cumulo di esperienze rivoluzionarie grandi e tragiche, riuscite e fallite, assumendole tutte e fino in fondo, l’angelo della storia militante ci sorride e rinfocola il nostro odio di classe.