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«Il mio amore è una superficie orizzontale, una distesa interminabile»

on .

Marianna Sica recensisce Absolutely Nothing. Storie e sparizioni nei deserti americani di Giorgio Vasta

 “Or tutto intorno una ruina involve,

dove tu siedi, o fior gentile, e quasi

 i danni altrui commiserando,

al cielo di dolcissimo odor mandi un profumo,

che il deserto consola.”

Un viaggio, un sogno “premonitore” di un furto senza oggetto, una jeep, ottomila chilometri attraverso il deserto americano dalla California alla Louisiana. È questa l’esperienza da cui prende le mosse l’ultimo prezioso libro di Giorgio Vasta, Absolutely Nothing. Storie di sparizioni nei deserti americani (Quodlibet Humboldt, 2016), un’esperienza e un racconto che l’autore condivide con due essenziali compagni di viaggio, Ramak Fazel, fotografo americano di origine iraniana che fermerà in immagini il nulla desertico, e Giovanna Silva editore del progetto. Due guide, tra il dantesco e lo sciamanico, senza le quali Absolutely Nothing non avrebbe potuto prender forma: l’una abile organizzatrice, perfetta nel suo infaticabile tentativo di controllo, l’altro personificazione dell’entropia, pura eccedenza, irriverente e a tratti sconclusionata vitalità, personaggio ancor prima che persona.

Immerso nell’abitacolo della jeep Vasta, abbandonato alle sue due guide, alienato, si lascia traghettare nel deserto di Mojave, ora dal disordine di Ramak ora dal controllo di Silva, si smarrisce in quel nulla assoluto, a tratti informe eppure tremendamente ingombrante, indicibile eppure che pretende nominazione. L’assolutamente nulla si mostra e ci mostra l’ineludibile ambiguità, degli Stati Uniti ma anche nostra, le persistenti contraddizioni tra fatiscenza e spettacolarizzazione, il loro non escludersi: la loro coesistenza. Ecco allora aprirsi allo sguardo le ghost town, città sospese tra un passato glorioso e la speranza di un futuro, immobili in un presente mancato, e ancora: laghi disseccati, simbolo di pluriesistenze sommerse e non salvate, cimiteri di aerei che non solcano i cieli accorciando distanze, ma giacciono immobili al suolo senza alcuna destinazione, insegne luminose nel sole solitario del deserto. Piramidi egizie del sogno americano, non ancora o mai più avverato. 

Vasta seguirà, per venti giorni dell’ottobre 2013, l’abbandonato, il disabitato, il mancato, assumendolo come forma di conoscenza, del mondo ma anche di sé.

Ritornato dal viaggio, quella che sarebbe dovuta essere una semplice rielaborazione in forma di guida letteraria degli appunti raccolti diviene opera indefinibile: reportage, fiction e autobiografia assieme. Un oggetto letterario che sfugge ad ogni classificazione, così come il suo autore fugge dalla sua creazione per quasi due anni. Così come appare alienato durante il viaggio, Vasta continua a smarrirsi e a far perdere le sue tracce anche dopo, soltanto nel momento in cui accetterà l’assenza, l’indicibile, l’esistenza di ciò che non esiste – o non esiste più –  allora Absolutely Nothing prenderà forma, la sua giusta forma.

Alla (non) semplice descrizione dello spazio e del tempo del viaggio si affianca allora la finzione, non come elemento accessorio e parallelo, ma come parte essenziale della narrazione stessa, della verbalizzazione di quell’indicibile che una volta nominato esiste, in forma non necessariamente trasfigurata, non univoca né pura, ma in una delle sue possibili sembianze che acquisisce attraverso il linguaggio in relazione al vissuto, al campo esperienziale, alla affettività del soggetto.

Allora, al racconto degli imprevisti che coesistono all’immobile sabbia desertica, delle notti e dei risvegli nei motel più sordidi, dei miraggi, della frutta secca sgranocchiata durante le lente ore passate in jeep, dei treni colorati e infiniti della Union Pacific che coprono e schiudono paesaggi identici ma non finiti, dei volti e gesti di abitanti grotteschi di spazi disabitati, fermi ma non tutti in attesa che qualcosa muti. In questa narrazione di fatti “reali” – ma non per forza tali – irrompe Spike e l’incubo di una famiglia antropofaga che abitano, con la stessa legittimità degli altri disabitanti, questi luoghi divenuti vuoti, lasciati andare o semplicemente mancati. La famiglia antropofaga sarà l’incubo costante di Vasta per tutto il viaggio, misura forse della sua sparizione, della sua agita sottrazione, che prende la forma di una continua sensazione di perdita ma anche di una costante paura di essere fagocitato e di dissolversi così all’interno di un altro, di un altro corpo, di un’altra esistenza. Con lo scorrere delle pagine, il nulla dello spazio desertico si intreccia allo smarrimento temporale, la narrazione perde una regolare sequenza cronologica, la linearità si disfa, il tempo perde le proprie dogmatiche coordinate, memoria e immemore si sovrappongono. Nel reportage di viaggio e nell’invenzione fa così irruzione un terzo elemento, che in apparenza scompagina ma infine ordina il viaggio e il senso del deserto di Giorgio: lo sguardo dell’autore su di sé prende spazio, l’autobiografia mobile e in evoluzione dello scrittore si rivela e il nulla acquisisce un senso, uno dei tanti possibili, ma necessario per Vasta in quel momento del suo viaggio. Il cerchio si chiude, l’ambiguità e la contraddizione incarnati durante il viaggio dagli spazi americani rivelano il loro ineludibile legame con l’esistenza e le esistenze in relazione: sono figure di noi stessi, dei nostri mondi affettivi, delle nostre vite necessariamente mancate, ambigue, contraddette. L’incertezza e la provvisorietà le abitano strutturalmente, non si può opporre resistenza ad esse, tentare di scioglierle o dimenticarle, si può solo accettarle, pena la nostra stessa sparizione in un oblio di finzione, o nel nulla. L’absolutely nothing allora diviene l’absolutely nobody: il deserto, il nulla, l’indicibile che restavano sommersi affiorano, divengono materia e nomi, acquisiscono la consistenza di un sogno infranto ma anche di un’esistenza ritrovata, quella di Giorgio.

E se il titolo del viaggio-racconto di Vasta rimanda ad un cartello stradale, collocato austero e indifferente lungo il deserto, «ABSOLUTELY NOTHING – NEXT 22 MILES» il libro si conclude al capitolo Ventitreesimo con l’esortazione-monito proprio di Spike “AH! ANOTHER DAY!”