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Bastonare il cane che affoga

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0. Il 18 brumaio preventivo di Matteo Renzi è fallito, seppellito da una valanga di No con biglietto di accompagnamento, lo stesso che ai primi exit poll è rimbalzato su tutti i social: #CIAONE. Il fatto che nella vicenda specifica né di tragedia né di farsa ma di avanspettacolo si debba parlare, nulla toglie alla portata del risultato. Come direbbe lui, le chiacchiere stanno a zero e il voto, per dimensioni e percentuale di votanti, è divenuto un combinato disposto da knock out.

Le avevano messe in campo tutte, senza ritegno per l’intelligenza di chi chiamavano a votare e per la moderazione nell’uso di canali distributivi e media. Il ricatto e la paura (la sanzione dei mercati e la fuga degli investitori), frustri calembour retorici (siamo noi gli anti-casta), più prosaici saucisson (contratto statali, benefit a lobby varie), trucchi da gioco delle tre carte (i 360 euro alle partita Iva, prelevati dalle loro pensioni) e banfate da piazzista di provincia, non sappiamo se consigliate dagli spin doctor americani di cui Renzi si è circondato. Quando il gioco si è fatto duro e il mood del paese aveva reso esplicita l’impossibilità di un esito plebiscitario, Renzi ha incassato tutto il sostegno possibile dall’establishment politico-economico mondiale, europeo e nazionale: valgano come esempio il soccorso ad una finanziaria che gli ultrà del rapporto deficit/pil hanno trangugiato controvoglia (cfr. endorsement di Schauble) e il rinvio del dossier su banche e crediti deteriorati. Ma anche uno schieramento compatto della “società politica” italiana, di quasi tutta la stampa, degli opinion maker e del servile mondo della cultura e, va da sé, dei portatori di interessi più solidi, il mondo degli affari, il nocciolo di ciò che resta dell’industria, il management bancario, gli stessi corpi intermedi da Renzi ripetutamente sbertucciati, alla ricerca di non si sa quale riconoscimento.

È avendo in mente tutto questo che l’esito del referendum, nelle dimensioni più ancora che nel risultato, ha (in apparenza) dell’incredibile. Senza girarci intorno, il progetto di una stabilizzazione bonapartista della crisi è stato sconfitto. Ampliando lo sguardo e l’orizzonte, per quanto nel capitalismo di irreversibile non ci sia niente, esce da questo voto confermata una frattura nel breve difficilmente recuperabile tra le classi subalterne e le élite economiche, sociali e culturali dei paesi a capitalismo maturo. Nel contempo, decenni di retoriche sul primato della comunicazione e sul linguaggio performativo del marketing, come più volte accaduto in questi anni, vanno a farsi benedire insieme ai loro strapagati imbonitori. Senza questi dati, che ci sembrano difficilmente confutabili, qualsiasi riflessione successiva non avrebbe ragione di esistere.

1. Ci siamo schierati per un No sociale e militante, consapevoli che il voto avrebbe ecceduto il “merito della riforma” per acquisire una valenza generale anche se giocata sullo specchio deformato della consultazione referendari e che il cleavage decisivo sarebbe stato quello di “classe”, sia pure nel mero senso sociologico del termine. E questa volta non dobbiamo affannarci a spiegare il voto, poiché la lezione è riconosciuta dagli stessi editorialisti che sostenevano la riforma. Sono loro a scrivere che “a dire No sono state le famiglie del ceto medio impoverito dalla crisi, i giovani senza lavoro, gli operai e gli stipendiati a cui le entrate non bastano più”. Per questo hanno già scaricato il saltimbanco di Rignano: il mandato era chiaro, catturare dall’alto il furore dei giovani, dei declassati e dei vulnerati scaricandolo contro la casta di cui esso stesso era parte, e procedere ad una stabilizzazione che depotenziasse i populismi presunti (copyright loro) attraverso un rimedio (questo sì) genuinamente populista. Mandanti come sempre cinici: se il killer manca il bersaglio, a pagare è lui. Non crediamo sia azzardato prevedere, almeno nel breve periodo, una marginalizzazione di Renzi e del suo giglio magico, forse anche all’interno del suo stesso partito.

Dopo le grandi coalizioni e i governi tecnici, fallisce dunque anche il bonapartismo preventivo; il voto referendario sancisce l’impossibilità di una stabilizzazione della crisi. Lo stesso scenario dualistico tra progetto di partito della nazione e M5S è oltrepassato dal voto, che azzera i giochi riportandoci al 2013 e dando nuova instabilità. A questo serviva il No: ostacolare il lavoro, creare attrito alla ratifica costituzionale dei rapporti di forza tra le classi, mantenere aperta la partita, sapendo che il popolo non ha amici, ma che le contraddizioni del nemico possono essere usate per la propria riproduzione, anche e in prospettiva (senza nasconderci i problemi) per la formazione di una parte antagonista. Sappiamo fin troppo bene che non vi sono “vittorie” laddove c’è continuità del comando o che ogni sconfitta del nemico è sempre ribaltabile; l’impossibilità di una normalizzazione è tuttavia lo scenario con cui non solo noi, ma la stessa élite finanziaria e industriale, dovrà continuare a fare i conti. L’essere stati parte, anche se molto piccola, di questo, costituisce l’altro necessario punto di partenza.

2. Serviranno analisi meno impressionistiche del voto e della composizione sociale di un furore ad oggi confinato nella consultazione, in cui tuttavia i mezzi della rappresentanza politica sono anche usati come armi per la critica della stessa. Poiché la vittoria ha sempre molti padri, a rivendicare il No oggi sono in tanti, compreso quanti provano a darsi un ruolo che non hanno avuto. I leader politici che se lo intestano sanno bene di essere stati ben poco influenti o indirizzanti, tranne forse in qualche residua roccaforte. È stato il No dell’intelligenza sociale, non dell’accozzaglia rentier della rappresentanza. E non ci sembra di eccedere il bon ton della polemica tra anticapitalisti se diciamo che tra chi si intesta il No, nel nostro piccolo mondo, vi sono anche aree di opinione negli scorsi mesi decisamente titubanti o riluttanti a riconoscersi in questo campo.

Con il rispetto dovuto a quella parte di opinione sinceramente democratica che ha votato contro il “merito della riforma” (e che costituisce una componente non trascurabile del voto), ci pare evidente che il segno politico, il dato sostanziale che ha istruito il nuovo andatevene a casa, non sia da ricercare qui. Naturalmente la difesa della Costituzione, quando il pallino è in mano ai decostituzionalizzatori dall’alto, è argomento da non banalizzare; i gruppi al comando del capitalismo globale concepiscono le istituzioni come bypass senza attriti, organismi di trasferimento del comando organizzati con criteri e produttività tecnico-industriali (cos’altro è il new public management?), e già oggi la politica funziona su queste basi. Il “merito della riforma”, se guardiamo alla geografia del voto e ai suoi presupposti sociali, tuttavia, si chiamava Jobs Act, buona scuola, prelievo sui redditi, scarico sui risparmiatori dei fallimenti bancari. È su questo, sulla figura personale di Renzi, sulle politiche del governo, che si è votato, piuttosto che sui contenuti tecnici di una riforma che pochissimi conoscevano veramente. Anche dall’altra parte.

3. Il progetto di stabilizzazione populista perseguito all’indomani delle elezioni del 2013, presupponeva il necessario corollario di un’uscita sostanziale dalla crisi, che non c’è stato. Anzi, proprio lo sfasamento tra storytelling e realtà esperita, tra i beffardi tweet che accompagnavano i successi del governo e l’assottigliarsi dei redditi e della fiducia (di cui il gonfiarsi dei depositi bancari è paradossale e allo stesso tempo inequivocabile marcatore), ha contribuito a trasformare la luna di miele del 2014 in una condanna senza appello. Non stiamo a ripetere (che lo diciamo a fare) che non c’è linearità tra congiuntura economica, composizione sociale, classi sociologiche ed espressione elettorale. Il ritratto sociale del paese, tuttavia, a due anni dall’inizio della fine della crisi, è quello fotografato in modo fin troppo didascalico dall’ultimo rapporto Censis. Nel Mezzogiorno il No ha raggiunto percentuali bulgare, nelle due isole sopra il 70%, come nei poli della nostra rust belt diffusa, che si chiamino Carrara, Genova o Monfalcone. Ha stravinto tra i giovani (la generazione millenials è già oggi il gruppo anagrafico più povero), tranne in quelle componenti in cui origine famigliare, titolo di studio, ingaggio nel campo dell’innovazione, si combinano dando vita a soggettività rampanti da leading class in erba. E ha vinto nelle tante periferie sociali, in cui tra strati impoveriti del ceto medio, residua operaietà industriale, precariato neo e iper-proletario, sia manuale sia intellettuale, si è dato continuum materiale e risonanza sentimentale. Il No ha fatto il pieno, secondo alcune analisi, tra lavoratori autonomi (61%), casalinghe (62%), operai, commessi e impiegati (67%) e disoccupati (68%) e – in generale – tra i soggetti in condizioni economiche instabili (65%)[1].

Al Sì è rimasta la ridotta della via Emilia (senza Parma, Piacenza e Ferrara – territorio quest’ultimo riplasmato dalla devastante crisi di Carife e dalle lotte contro il salvabanche) e della Toscana (senza però Massa-Carrara, Livorno, Lucca e Grosseto), più Milano città, senza però hinterland e con Sì e No talmente ravvicinati da porre in dubbio anche un certo auto compiaciuto selfie meneghino sulla materia sociale della metropoli cognitara e innovatrice. Sul piano sociale, le frazioni che nella crisi hanno tenuto le posizioni, i detentori di risparmi e patrimoni indeboliti ma ancora in grado di assicurare consumi e tenore di vita middle class, gli strati medio-alti dei knowledge worker che dalla rottamazione si attendevano una chance di mobilità sociale, alcune componenti tuttora solide del lavoro dipendente, soprattutto se avanti con gli anni (quelli che i risparmi ce li hanno sul serio e i cui contributi pensionistici valgono ancora qualcosa). È questo il baricentro su cui si è imperniato il progetto di stabilizzazione populista; al tempo stesso è l’erosione e lo smottamento, geografico, settoriale, anagrafico di questo corpo che spiega le peculiarità dei movimenti politici anti-establishment del nostro paese, sia rispetto alle forze apertamente di destra, sia alle rare “varianti” di sinistra, di altri contesti geografici. Temi sui quali sarà necessario tornare in forma meno episodica, combinando passione analitica e impegno attivo sui territori e nelle città.

4. Per ora, basti dire che la partita si riapre, anche se decifrarne lo sviluppo diventa arduo. Cominciamo col dire che l’ordine del discorso sistemisti-populisti, che pure descrive una parte della storia, è metabolizzato e in futuro potenzialmente utilizzabile dalle stesse élite; o, se vogliamo dirla in altri termini, è più utile per stimolare un sovrappiù di paper universitari che non per districarsi nel contradditorio farsi delle soggettività e di un punto di vista di classe. Siamo lontani dal pensare che l’esperienza della crisi ci consegni un antagonismo tra due parti in conflitto. La crisi e il suo protrarsi ci consegnano piuttosto un campo il cui conflitto e lotta non si danno attraverso la sociazione di corpi e intelligenze. È questa la stagnazione da lasciarsi dietro, quella del furore che alimenta la depressione nell’isolamento, anche se quando si dà la possibilità di esprimerlo con il voto sanziona regolarmente, da anni e un po’ ovunque, le classi al potere. Eppure, come ripetiamo da anni, solo dove si dà soggettività e riconoscimento può darsi contro-soggettività, a prescindere dai veicoli politici che temporaneamente e più che contraddittoriamente la possono incubare. Nel futuro immediato, sul piano istituzionale, le alternative in campo ci sembrano sostanzialmente ridotte a due possibilità. Una riedizione, molto rischiosa per loro ma altamente probabile, di una combinazione tra governo tecnico e larghe intese, da agevolare attraverso una legge elettorale esplicitamente pensata in chiave anti-M5S. O una possibile scelta eterodossa, a cui probabilmente alcune frazioni dei poteri sostanziali inizia a guardare, di una inclusione del campo anti-establishment nel governo della crisi. In pratica, aumentare la pressione proprio sul M5S affinché assuma responsabilità, eventualmente di governo. Ciò amplificherebbe le tensioni tra le diverse anime del M5S, la cui esistenza non deriva solo da personalismi o imperizia nelle tecniche amministrative (altro refrain degli ottimati da talk show e editoriale), ma ci sembrano al contrario riflettere l’eterogeneità sociale del suo elettorato, composto da gruppi che nell’asse destra-sinistra della prima e della seconda repubblica erano posizionati su poli contrapposti. Sarebbe l’extrema ratio di un sistema che non trova più quadrature del cerchio. Come Renzi si è rivelato troppo “piccolo” per il progetto di stabilizzazione populista, tuttavia, il M5S sarebbe troppo piccolo rispetto alle aspettative che ha contribuito a suscitare presso ampi strati della società, la cui domanda e i cui desideri sono incommensurabili. Non ci sembra comunque questa, ad oggi, l’ipotesi più probabile.

5. È dentro questo processo che occorre inserire e ampliare le contraddizioni. La vittoria del No non è certo la condizione sufficiente per le lotte, e tuttavia ne costituiva la condizione necessaria, almeno sul breve-medio periodo. Era cioè indispensabile impedire la chiusura del cerchio della stabilizzazione nel momento in cui soffiano forte gli effetti di un nuovo tornante recessivo della crisi, che in Italia passa anzitutto per la questione bancaria, ovvero per l’attacco a un pezzo consistente del ceto medio e al welfare familiare accumulato attraverso i risparmi.

È questo il campo che realisticamente si apre, molto diverso da come molti di noi l’avevano immaginato all’alba della crisi. Del resto (dobbiamo ancora ribadirlo?) sempre è avvenuto così nella sfasatura tra aspettative e movimento reale, tra l’immagine della lotta di classe e il suo seguire traiettorie in cui conflitto e ambiguità si confondono, si mischiano e possono essere districati solo attraverso la materiale costruzione organizzativa di progetto e direzione politica. Per fare questo, però, è innanzitutto indispensabile indebolire il nemico principale; ora che questo è indebolito, bisogna continuare a bastonare il cane finché affoga. Riteniamo superfluo dover precisare che molti di quelli che ci sono vicini non ci sono affatto amici, o che saranno forse i nemici principali di domani; se pensiamo che la crisi della rappresentanza non sia un dato estemporaneo bensì strutturale, infatti, sappiamo che il campo soggettivo della composizione sociale colpita dalla crisi è del tutto aperto e non recuperabile in forma permanente da nessuno. È questa la scommessa che dobbiamo fare, individuando quali sono le sue potenziali linee di forza su cui giocare la nostra partita, quella della sovversione. Oggi il No ci permette di collocare questa scommessa un passo più avanti, e di far fare un passo indietro al nemico.



[1] Tra le prime analisi del voto, cfr. http://blogs.lse.ac.uk/brexit/2016/12/05/the-brexit-vote-and-the-failure-of-the-italian-constitutional-reform-signal-a-crisis-of-representation-in-politics/