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Dopo il Brexit, verso il referendum: note sulla lotta dei risparmiatori

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Articolo di Antonia Alia su crisi bancaria e lotta dei risparmiatori

Una crisi di sistema

Attorno alla crisi delle banche si sta giocando una partita decisiva non solo per il futuro del governo Renzi ma con molta probabilità per quello dell'intera Unione Europea. Non c'è bisogno di essere degli economisti per capire che si tratta di una crisi sistemica su scala continentale che, a giudicare dall'attenzione che la stampa nostrana ed europea continua a dedicarle, terrorizza i governi e le istituzioni sovranazionali. Non è solo l'importante fenomeno dei crediti deteriorati ad indicarne la portata ma anche l'andamento di alcune tendenze più generali. Per quanto riguarda le seconde è sufficiente ricordare un dato riportato da il Sole24ore di domenica 7 agosto che fotografa in maniera chiara e sintetica la grave situazione in cui versa il sistema bancario italiano: tra il 2007 e il 2015 per le prime 12 banche italiane i margini derivanti dall'erogazione del credito si sono ridotti da 92,94 miliardi di euro a 48,68 miliardi a fronte di un incremento dei ricavi sulle commissioni di poco più di 1 miliardo, da 25,67 a 26,70. In una prospettiva di lungo periodo, questo drastico ridimensionamento dei ricavi segnala inequivocabilmente la cifra strutturale della crisi del sistema bancario. Non è però un problema solo italiano, la crisi riguarda le banche di tutto il continente, come suggerisce un altro articolo pubblicato sullo stesso numero del giornale confindustriale, significativamente intitolato “La bassa redditività che tocca tutta Europa”.
Secondo molti analisti finanziari[1], la causa di questa condizione è da rintracciare nella politica del tasso zero delle Banche centrali che sta letteralmente travolgendo il settore, ulteriormente minacciato dai costi per garantire la tenuta del sistema difronte alle crisi degli istituti (secondo il Sole24ore del 7 agosto il conto tra il 2015 e il 2016 per i salvataggi bancari ammonta a 9 miliardi circa) e dai nuovi livelli di accantonamento di capitale che i regolatori pubblici richiedono dopo lo shock causato dal fallimento della Lehmann Brothers. La crisi economica ha fatto il resto, bloccando l'estrazione dei profitti dall'economia dei territori e costringendo le banche a rivolgersi al mercato dei titoli tossici per risollevare la loro redditività.
Per quanto riguarda invece le sofferenze bancarie (Non Performing Loan – Npl)  qui è sufficiente ricordare che in Italia rappresentano tra l'11% e il 12 % del totale degli impieghi per un totale di circa 200 miliardi lordi, pari al 18% del pil nazionale. Un vero record nell'area euro le cui banche hanno accumulato complessivamente un ammontare di 900 miliardi lordi di npl. Contrariamente a quanto si potrebbe pensare i crediti deteriorati delle banche italiane sono riconducibili solo in minima parte alle famiglie (56,6 miliardi su 200). Il peso maggiore è rappresentato invece dalle imprese (143,4 miliardi). Molto significativi sono i dati resi pubblici poco tempo fa dalla Cgia di Mestre: al 31 marzo 2016 il 70% delle sofferenze era concentrato nelle classi di credito sopra i 500.000 mila euro e al primo 10% della clientela migliore, quella che riceve i prestiti di importo maggiore, è riconducibile più dell'80% dei npl. In buona sostanza, per lo meno in Italia, sono soprattutto i grandi gruppi aziendali ad ottenere le quote maggiori di credito e a non restituirle.

Il  passaggio dal bail-out al bail-in, ovvero da forme di finanziamento pubblico delle banche in difficoltà al salvataggio attraverso le risorse interne (azioni, obbligazioni subordinate e depositi in mano ai risparmiatori), voluto dalle autorità europee in ottemperanza ai diktat dell'austerity, può assumere dentro questo quadro di crisi bancaria strutturale, una portata esplosiva. Questo nuovo approccio alla risoluzione degli istituti di credito in difficoltà rischia di segnare il definitivo declassamento del ceto medio, se si considera che circa il 46% delle obbligazioni subordinate emesse dalle banche italiane è detenuto dalle famiglie. Nell'era del bail-in saltano infatti le garanzie assicurate dalla finanziarizzazione del risparmio che aveva funzionato come leva di integrazione sistemica. È poco utile tentare di stabilire quale tra i due modelli di salvataggio sia il migliore in termini di giustizia formale. Ciò che conta in questo scenario sono invece le potenziali ancorché ambivalenti opportunità politiche che si dischiudono difronte alle contraddizioni del capitalismo finanziario contemporaneo.
Se queste sono le tendenze di fondo, sul medio periodo l'apertura di un intervento politico attorno alle banche e sul ceto medio ha buone possibilità di essere produttivo. In prospettiva, accanto agli effetti del bail-in due sono le questioni che a questo livello di conoscenza ci sembrano dirimenti: gli esuberi e i licenziamenti che arriveranno per risollevare la produttività, il diritto all'insolvenza.

Mps e l'effetto Brexit

Dopo la risoluzione di Banca Etruria, Banca Marche, CariFe, CariChieti - per mezzo dell'ormai famoso decreto salvabanche - è stato il Monte dei Paschi di Siena a finire sotto i riflettori degli organi europei di vigilanza. La banca senese detiene infatti circa 30 miliardi lordi di crediti in sofferenza, una zavorra che la Bce ha chiesto di ridurre drasticamente. Tuttavia, rispetto alle prime 4 banche Mps ha ricevuto da parte del governo un'attenzione particolare. Come denuncia un comunicato dell'associazione Vittime del Salva banche, “se il governo avesse impiegato un decimo dell’impegno profuso verso il Monte dei Paschi di Siena avrebbe potuto risolvere la vicenda delle 4 banche senza danni ai risparmiatori e senza umiliarli ulteriormente con il rimborso forfettario o l’arbitrato.” Infatti, il piano di salvataggio della banca di Siena - orchestrato dal governo - prevede insieme ad una serie di altri strumenti, una valutazione delle sofferenze molto più alta (pari al 33%) di quella che è stata attribuita ai npl delle 4 banche (17,6%), nonostante siano paradossalmente di qualità inferiore, come sottolinea sempre lo stesso comunicato dell’associazione di risparmiatori. Non è una differenza da poco. Nel caso delle 4 banche infatti l’eccessiva svalutazione dei crediti deteriorati ha comportato l'applicazione anticipata del bail-in (il decreto salvabanche è del novembre 2015 mentre il bail-in è entrato ufficialmente in vigore solo l'1 gennaio 2016). Con la cartolarizzazione delle sofferenze di Mps si vorrebbero invece - il condizionale è d'obbligo - ottenere quote consistenti di risorse per la ricapitalizzazione della banca, in una misura sufficiente ad evitare il sacrificio dei risparmiatori. A rendere però ancora più paradossale questa differenza di trattamento è stato il ministro Padoan che sul caso Mps non ha escluso l'intervento pubblico, scartato invece a priori per le 4 banche quando la direttiva europea sul bail-in, che lo limita fortemente, non era ancora entrata in vigore.

Le ragioni di questa disparità di trattamento e di una maggiore – ancorché solo paventata - flessibilità nell'applicazione della normativa europea sul bail-in al caso Mps non sono tecniche ma squisitamente politiche. La crisi della banca di Siena sopraggiunge in una fase politica particolarmente complicata per l’establishment neoliberale europeo, si inserisce dopo il Brexit e prima del referendum renziano sulla costituzione, a cavallo della batosta elettorale subita dal Pd alle ultime amministrative.

Con la mobilitazione in corso dei risparmiatori espropriati dal decreto salvabanche - una “tempesta politica” secondo l'editoriale dell'Economist del 9 luglio-  un altro bail-in potrebbe danneggiare Matteo Renzi e “infrangerebbe la sua speranza di vincere il referendum”- scrive molto esplicitamente il settimanale finanziario. Dopo il Brexit, la sconfitta referendaria metterebbe in discussione non solo l'unica ipotesi di governabilità al momento in campo - quella a guida Pd - ma aprirebbe una crisi politica dentro l'UE. “Se gli italiani perdessero la fiducia nell'euro, la moneta unica non sopravviverebbe” scrive ancora l'Economist.

La stessa preoccupata valutazione arriva da George Soros secondo cui Matteo Renzi “perderà il referendum se non riesce a risolvere la crisi bancaria per tempo”, riporta un articolo de Il Sole24ore che spiega l'atteggiamento accomodante della Germania guidata dalla Merkel in questo modo: “l’establishment tedesco teme che una sconfitta del premier Renzi possa mettere a rischio la stabilità politica italiana, scatenare nuove elezioni dall’esito incerto mentre nella zona euro non mancano i fattori di instabilità. Ha senso da parte di Berlino indebolire il presidente del Consiglio sul fronte bancario in una fase così delicata? La risposta è no”.

È dentro questa congiuntura di potenziale instabilità politica nazionale ed europea che la lotta contro il decreto salvabanche – all’incrocio tra crisi bancaria e questione referendaria- diventa strategicamente importante. Toccherà ora ai gruppi, ai comitati e alle associazioni che stanno caparbiamente portando avanti la mobilitazione cogliere l’opportunità aperta dal Brexit e che nell’autunno precipiterà sulla battaglia referendaria. Sarà compito loro farsi protagonisti di una ampia mobilitazione per il No sociale al referendum renziano. In ballo non c’è solo la spallata al governo del Pd ma la possibilità di arrestare il progetto europeo di socializzazione delle perdite bancarie. Sul breve periodo si tratta di una fondamentale occasione politica su tutti i livelli. Di fatto il Brexit, con tutte le sue ambivalenze, ha creato nuove condizioni di possibilità per la lotta contro l’austerità neoliberale. Ha riaperto una partita che dopo la debacle del governo Tsipras sembrava definitivamente conclusa.

Cartografia della mobilitazione

In politica non ci sono vuoti. È un principio a cui bisogna tenersi saldi sia per comprendere le istanze che smuovono la composizione di classe, sia per intervenire su di esse. Che la crisi produca lotte radicalmente spurie e ambivalenti è un’affermazione che aiuta ad afferrare il senso dei processi sociali e politici in una fase di profonda instabilità. Senza questi due punti cardinali sarebbe difficile  orientarsi all’interno delle mobilitazioni dei risparmiatori che offrono in maniera esemplare l’estrema variabilità delle tonalità politiche che una stessa istanza rivendicativa può assumere a seconda dei contesti.

In Toscana, una delle regioni più colpite dalla crisi del sistema bancario, quella che ha dato il via alla mobilitazione contro il decreto salvabanche, la lotta dei risparmiatori non si è solo sviluppata in radicale opposizione al Partito Democratico ma è stata in grado di tutelare una profonda autonomia sia organizzativa che di indirizzo di politico dalle forze politiche di opposizione, tentate dalla possibilità di capitalizzare la perdita di consenso nei confronti di Renzi e del suo partito. Con molta probabilità sarà il Movimento 5 stelle - la forza parlamentare che sulla questione bancaria dentro le istituzioni si è opposta maggiormente al governo - a raccogliere gli effetti della crisi politica che ha colpito il Partito Democratico in uno dei suoi territori elettorali più importanti. Tuttavia in termini organizzativi, di sviluppo e di sedimentazione del percorso di lotta, il M5S non ha avuto nessun ruolo. Sembra quindi che il radicamento territoriale – con i meet up - che aveva caratterizzato il movimento grillino della prim'ora si sia definitivamente esaurito, lasciando ampi margini di manovra alle forme di autorganizzazione che hanno l'opportunità di raccogliere e ribaltare l'ormai inscalfibile retorica anticasta. In maniera simile, la debolezza delle forze politiche che si ispirano ad un populismo di destra e che ha impedito alle ambivalenze della mobilitazione –  ad esempio la critica radicale al capitalismo della rendita tradotta in termini giustizialisti o ancora l'opposizione all'UE trasformata in una rivendicazione di sovranità nazionale – di scivolare in una direzione problematica, ha aperto lo spazio a processi di ricomposizione. Esemplare in tal senso è stata la giornata di contestazione a Renzi che si è consumata a Pisa il 28 aprile scorso, movimentata dal protagonismo dei risparmiatori, dei precari e degli abitanti dei quartieri proletari.  L'apertura degli spazi di ricomposizione non ci consegna però, meccanicamente, nessun processo di ricomposizione: tra la potenza e l'atto in mezzo ci sono le forme della militanza.

La lotta dei risparmiatori assume sfumature radicalmente diverse nel Veneto di Luigi Zaia. Il leghismo veneto, seppure in una scomoda posizione difensiva, conserva infatti un'ampia legittimazione tra i risparmiatori colpiti dalla crisi della Banca Popolare di Vicenza e di Veneto Banca, indotta dalla trasformazione delle banche popolari in Spa, voluta dal governo. Una crisi che ha causato l'azzeramento del loro valore azionario in mano a decine di migliaia di piccoli azionisti (119 mila per Bpvi, 88 mila per Vb) per perdite dell'ordine di miliardi di euro, che probabilmente segna un punto di non ritorno per il capitalismo del Nord-Est. Alla manifestazione del 20 luglio scorso a Treviso - organizzata dal Coordinamento Banche Don Enrico Torta, la più partecipata dall'esplosione dell'affaire banche: circa 1500 persone – sono state molto rare le espressioni di malcontento nei confronti del presidente della regione e dei sindaci leghisti presenti in piazza. Il discorso di Zaia, interamente pronunciato in dialetto, è stato contestato un'unica volta, quando ha chiesto alla platea di avere fiducia nella magistratura.

Al contrario, le istanze secessioniste erano non solo largamente testimoniate dalla partecipazione dei movimenti indipendentisti veneti ma pure ampiamente utilizzate dagli stessi organizzatori della manifestazione. La crisi e il successivo salvataggio delle due banche per opera del fondo Atlante, operazione che ha determinato un cambio di proprietà, vengono per lo più interpretati –  paradossalmente se si considera che fino all'esplosione della crisi il controllo era in mani locali – come una forma di depredazione della ricchezza prodotta dalla locomotiva d'Italia, ad opera delle istituzioni nazionali e del grande capitale.

È sicuramente singolare che un partito di governo come la Lega, che è stato il fulcro della governabilità in Veneto e nel resto del Nord-Est non sia travolto come il Partito Democratico in Toscana – in questo senso la differenza tra due territori entrambi caratterizzati da una forte connotazione politica regionale è abissale - dall'impatto dell'enorme impoverimento causato dalla crisi bancaria. E tuttavia è un dato politico materiale. Il leghismo veneto, che forse bisognerebbe distinguere dalla Lega, che raccoglie la tradizione democristiana, i sentimenti di sfiducia e odio nei confronti della casta e delle istituzioni nazionali e in parte le diffuse istanze secessioniste regionali - spesso in aperta polemica con il nuovo corso lepenista di Matteo Salvini – definisce il contesto di una qualsivoglia iniziativa politica. Lo spazio sembra saturo. Probabilmente come appariva qualche decennio fa nel Veneto bianco della Democrazia Cristiana che tuttavia è stato teatro di straordinarie lotte di classe. Oggi come allora è la capacità di calarsi dentro le ambivalenze - talvolta le problematiche ambiguità della composizione di classe – che conta, se non si vuole ridurre l'iniziativa politica ad inutile testimonianza.

A Ferrara - in un territorio di confine come l'Emilia Romagna tra la Toscana e il Veneto, dove il partito di Salvini tenta da tempo di incalzare l'egemonia del Pd - è stato sicuramente il lavoro organizzativo militante, ad impedire la capitalizzazione leghista della lotta contro il decreto salvabanche. A differenza della Toscana, dove  la dimensione scandalistica della crisi bancaria - per via dei rapporti tra Banca Etruria e la famiglia Boschi – ha favorito l'identificazione della controparte nel Pd renziano, nella città emiliana la mobilitazione dei risparmiatori nella fase iniziale ha avuto un atteggiamento molto più moderato nei confronti del partito del primo ministro, concedendogli lo spazio per neutralizzare le istanze più radicali. 

È stato il costante e paziente lavoro politico e militante a permettere l'espressione di una netta rottura con il Partito Democratico, offrendo a quelle istanze latenti l'infrastruttura organizzativa necessaria. A Ferrara la mobilitazione è riuscita a sperimentare con successo e probabilmente per la prima volta una battaglia sul diritto all'insolvenza che per il futuro prossimo, apre promettenti spazi di lotta.

Soggettivazione e prospettive

È la lotta che produce la soggettività. Se si guarda da vicino e retrospettivamente la mobilitazione dei risparmiatori - dalle prime manifestazioni in Toscana, a Laterina e Pontassieve, all'ultima contestazione al ministro Boschi durante la festa dell'Unità di Santomato, si noteranno gli enormi salti qualitativi che è riuscita a compiere. Questi intensi mesi di lotta hanno permesso di accumulare un preziosissimo bagaglio di competenze organizzative e comunicative, di affinare l'intelligenza politica nella definizione degli obiettivi e nell'identificazione delle possibilità di azione, hanno consentito di sciogliere molte delle ambivalenze presenti. L'iniziale atteggiamento accomodante nei confronti delle Istituzioni, che spesso ha limitato le potenzialità conflittuali della manifestazioni di piazza, in poco tempo si è trasformato in smaliziata ostilità: la differenza tra le prime manifestazioni – quella di Pontassieve è esemplare – e la serie successiva di contestazioni agli esponenti del Pd è radicale. Sono mutate di conseguenza le modalità organizzative. Quando necessario, per accrescere l'efficacia delle azioni, le informazioni circolano esclusivamente all'interno di circuiti chiusi e sicuri; le relazioni tra gli epicentri territoriali della mobilitazione si sono intensificate e orientate verso la strutturazione di funzionali forme di coordinamento; il rispetto della legalità durante le iniziative di piazza ha perso il suo carattere di feticcio. L'esperienza della lotta ha assottigliato la fiducia in una soluzione giudiziaria mentre si è consolidata la consapevolezza della funzione conservativa del giustizialismo scandalistico. Si è appreso cioè che la lotta deve essere portata necessariamente sul più alto piano politico e che i suoi tempi non devono essere dettati dalla controparte - che ha tentato a lungo di utilizzare l'arma del differimento temporale - ma esclusivamente dalle capacità organizzative.

Il tratto che caratterizza maggiormente la mobilitazione dei risparmiatori, in maniera trasversale ai contesti territoriali, è sicuramente il suo spiccato pragmatismo post-ideologico. Vale a dire che la priorità assoluta è attribuita alla pratica dell'obiettivo, che alleanze e forme organizzative sono scelte prima di tutto in base alla forza che riescono a conferire. Dentro questa ambivalenza, che nella misura in cui apre  possibilità di intervento costituisce anche un punto di forza, non c'è spazio per le raffinate sofisticherie teoriche, né per la candida purezza ideologica. Sinistra, d'altronde, tra i risparmiatori in mobilitazione, è soprattutto sinonimo di sconfitta.

È certamente vero che si tratta di una lotta fortemente vertenziale, strutturata attorno al claim – altrettanto radicale – del rimborso totale. Tuttavia, proprio in virtù della forte politicizzazione che ha assunto lo scontro si possono intravedere gli spazi per la costruzione di alleanze sociali e di embrionali forme di generalizzazione. Il primo banco di prova sarà l'imminente battaglia referendaria: molto dipenderà dalla capacità di tenere insieme la dimensione estensiva della lotta con quella della sua intensità vertenziale. Qui sta il lavoro della militanza.


[1]            Sulla crisi del sistema bancario si consigliano gli articoli pubblicati su www.senzasoste.it in particolare: 1,2,3 e l'inchiesta in due parti di Andrea Fumagalli pubblicata su www.commonware.org: i,ii