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In memoria di Mario Dalmaviva

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Un'intervista a Mario Dalmaviva e il video di un suo intervento.

Mario Dalmaviva è stato tra le figure più importanti del lungo Sessantotto italiano. Militante dalla formazione atipica come lui stesso amava raccontare, da Roma si trasferì a Torino - la città della grande industria, di Mirafiori e delle lotte operaie - per una "scelta di campo". Aderì a Potere Operaio di cui fu l'ultimo segretario. Imputato insieme a molti altri nel processo del 7 aprile contro l'Autonomia Operaia, la notte scorsa è morto dopo una lunga malattia. Lo ricordiamo con questi due materiali: un'intervista del febbraio 2001 tratta dal volume Futuro Anteriore e il video di un suo intervento in occasione del seminario di autoformazione, organizzato da Commonware, Stili della militanza. Dal movimento operaio a Occupy.

Intervista tratta da Futuro anteriore, febbraio 2001

Qual è stato il tuo percorso di formazione politica e l'inizio della tua attività militante?

Il mio percorso di formazione è stato molto anomalo, perché non avevo né tradizioni famigliari né formazione politica nei partiti, direi che la mia è stata una scelta d'istinto. Io all'epoca facevo il dirigente a Roma e per combinazione con un collega avevamo deciso di andare a vedere il maggio francese, eravamo proprio partiti all'avventura. E quello che avevo visto mi aveva colpito molto, per cui ero tornato in Italia, la mia politicizzazione all'epoca (sto parlando del 1968) consisteva nel leggere L'Espresso, questo può dare un'idea, non avevo mai fatto politica attiva. Debbo dire che il maggio di Parigi mi colpì parecchio. Cominciai a leggere, il primo libro lo ricordo ancora perché mi aveva entusiasmato: era quello di Baran e Sweezy, "Il capitale monopolistico". Ma feci tutto da solo, senza neanche possibilità di verifica perché non ero nemmeno a Torino. E poi vidi delle manifestazioni a Roma, in particolare una che finì dietro il "palazzaccio", in piazza Cavour, dove la polizia pestò manifestanti e passanti: quella in qualche modo credo che fece scattare una molla, per cui lasciai il lavoro a Roma, mollai la casa, feci rientrare mia madre che viveva con me, comprai una vecchia Vespa e venni a Torino. E a Torino andai per così dire a vedere i luoghi dove pensavo che ci fosse il movimento, fondamentalmente il movimento studentesco, ma avendo la faccia da bravo figliolo ed essendo vestito come un dirigente mi presero subito per un infiltrato della polizia, sto parlando dei vari Bobbio, Viale, il movimento studentesco insomma. Frequentai un po' il movimento studentesco che allora era già in crisi notevole, ma debbo dire che non mi ci trovavo molto con quei discorsi, per cui girovagando per Torino finii nella Lega studenti-operai che faceva un discorso che riconoscevo molto di più, che era molto più pragmatico. All'epoca il movimento studentesco, credo soprattutto per l'impasse che attraversava, era molto proiettato sul terzomondismo, mentre invece nella Lega studenti-operai trovai un discorso serio fondato sul salario. Mi ricordo che con loro partecipai proprio alle primissime lotte di Torino di quel periodo, il famoso sciopero perdente alla Lancia che mi sembra durò trenta giorni: sviluppai lì una capacità un po' istrionesca da capopopolo senza però formazione politica alle spalle, che mi facevo via via che andavo avanti con l'esperienza. Lì conobbi naturalmente anche Vittorio Rieser. Qui a Torino c'erano state le manifestazioni davanti al manicomio di Collegno, l'occupazione delle Molinette: lì tramite Vittorio conobbi un operaio delle meccaniche di Mirafiori se non ricordo male. In quell'inverno ci furono poi gli episodi della Bussola. Vittorio ed io ci inventammo questi volantini operai con la sigla che discutemmo un po' se era Lotta Continua, poi io proposi La Lotta Continua, poi togliemmo il La: rimase e nacque Lotta Continua, ma eravamo sostanzialmente io, Vittorio e forse un'altra persona che andavamo davanti a Mirafiori, naturalmente portando il discorso del salario. Dopo di che io mi misi a lavorare con un gruppo di studenti-lavoratori iscritti alla facoltà di Trento, che allora era un po' il punto di riferimento della contestazione in Italia. Conobbi Sergio Bologna a Milano, che mi mise poi in contatto fondamentalmente con i padovani che a Torino non avevano punti di riferimento, perché qui quello che poi diventerà Potere Operaio era assente, c'era solo Emilio Soave che però era Potere Operaio pisano. Naturalmente mi trovai in una sintonia di discorsi con questi compagni e praticamente iniziammo questo lavoro alla Fiat tenendo i contatti e mandando informazioni a Milano e poi successivamente anche a Padova, facemmo un intervento per tutto l'inverno fin quando nella primavera cominciarono a scoppiare gli scioperi. Noi eravamo sempre quattro gatti perché il movimento studentesco era chiuso dentro la facoltà, non si sentiva un discorso operaista, occorreva aspettare che arrivasse Adriano per convincerli a venire in fabbrica. Questo operaio di cui parlavo prima mi sembra che si chiamasse Ottavio, nella Lega eravamo veramente due gatti, non c'è da pensare a grandi gruppi, eravamo 10-20 persone. Io facevo militanza completa, perché vivevo della liquidazione, quindi non avevo uno stretto bisogno di lavorare in quel momento, e dunque facevo militanza 12 ore al giorno, per cui andavo davanti alle fabbriche, facevo i volantini, discutevamo, ciclostilavo, andavo a distribuirli. Fu così che fondammo Lotta Continua, con appunto una componente torinese dell'operaismo: io continuavo a capirne abbastanza poco ma riuscii poi a mettere in piedi le assemblee studenti-operai, e questo fa parte del dopo. L'intervento poi si qualificò come Lotta Continua perché serviva una firma, prima credo che firmassimo studenti-operai perché anche parlare di Lega studenti-operai non aveva senso. Naturalmente c'era tutta la tradizione dei Quaderni Rossi, le inchieste e queste cose qui.
Quindi, questa è stata la mia formazione, molto atipica perché non ero in una famiglia né comunista né socialista né sindacalista: è stata una scelta di campo con un po' di avventura, un po' di superficialità. In buona sostanza, avevo visto che il mondo stava cambiando e non avevo nessuna voglia di stare fermo. Allora io dirigevo la filiale Bolaffi di Roma in via Condotti, ci si figuri, facevo il giovin signore che andava a cavallo a Villa Borghese il mattino: ma lasciai tutto quello senza rimpianto, nel senso che mi ero reso conto, ma non politicamente, direi esistenzialmente, che il mondo stava cambiando e io volevo vedere questo cambiamento. Ero veramente, come scrivono, un capopopolo di poche letture. Oltretutto, non essendoci a Torino una tradizione di Potere Operaio, non frequentando l'università né altro, non avevo neanche (lo troverò poi in Potere Operaio) un milieau intellettuale che in qualche modo si occupasse della mia formazione politica: saranno poi le lotte che mi porteranno pian piano alla comprensione, poco per volta incomincerò a capire qualche cosa dalle poche letture. Perché poi effettivamente io ero un angelo del ciclostile, altro che queste donzelle che si definivano così! Ero io l'angelo del ciclostile, veramente allora per me militanza politica voleva dire 20 ore al giorno di lavoro, perché quando partono le lotte col primo volantino andavamo al turno delle 6, alle 11 eravamo all'uscita del secondo turno, facevamo l'assemblea, sentivamo le notizie, stendevamo il volantino, lo ciclostilavamo e alle 6 andavamo a darlo, la stessa cosa al cambio turno delle 2. Come si può facilmente immaginare il tempo per leggere non c'era proprio. 

Successivamente c'è dunque il periodo dell'assemblea operai-studenti, la cui fine segnerà la nascita di Potere Operaio da una parte e di Lotta Continua (intesa a quel punto come gruppo, non più come sigla dell'assemblea) dall'altra.

Nasce l'assemblea studenti-operai, noi eravamo in pochi, Potere Operaio manda giù qualche padovano e qualche romano per riportare l'intervento alle porte che sono davvero tante, c'era Mirafiori nord, Mirafiori sud e Rivalta. Ma poi diventa abbastanza determinante il fatto che andando avanti con il suo progetto politico Adriano arriva a Torino, lega con il movimento studentesco torinese come aveva legato a Trento con il movimento studentesco di là, e in buona sostanza spedisce i dirigenti del movimento studentesco torinese davanti alla fabbrica. Io non so del conflitto interno, ma il movimento studentesco (e credo che ci sia anche un documento di Luigi Bobbio che lo dice) nella primavera del '69 cominciava dicendo "le lotte operaie sono finite": ma non ne faccio un grosso torto a Luigi, il movimento in quel momento pensava al Vietnam e al Terzo Mondo, agli operai in Italia no. Adriano fu molto bravo a operare questa riconversione, cosicché arrivò un forte aiuto proprio di manodopera politica davanti alle porte, che era molto utile. In quel periodo forse fu il momento vero in cui i gruppi ebbero una funzione politica, perché il sindacato non si stava ancora ben rendendo conto di quello che stava avvenendo; naturalmente la CGIL aveva ancora a che fare con i cadaveri ingombranti delle commissioni operaie, quindi con un quadro operaio estraneo e molte volte ostile all'operaio-massa che si era formato in fabbrica. Quindi, noi avemmo alcune funzioni determinanti che furono secondo me l'agitazione del tema salariale, una forte battaglia per il discorso degli aumenti salariali uguali per tutti, e poi naturalmente il controllo dei tempi, contro la nocività. Ma direi che la leva salariale fu quella più forte, perché in quello stesso periodo, se non ricordo male, anche il sindacato proponeva aumenti salariali ma naturalmente funzionali a quella che era la sua base, quindi aumenti salariali che riconoscessero le professionalità all'interno della fabbrica. Mentre sicuramente quello che allora non era ancora Potere Operaio, e forse anche Potere Operaio pisano, ma sicuramente Potere Operaio veneto era già arrivato al discorso molto preciso dell'operaio-massa.  Quindi, in qualche modo furono due concezioni del salario che si confrontavano, ma corrette perché ogni discorso salariale era commisurato al referente, uno del sindacato e l'altro nostro dell'operaio-massa, quindi dell'operaio immigrato e via dicendo. Prima che arrivasse il movimento studentesco noi avevamo già formato l'assemblea studenti-operai, io ricordo che facevamo delle assemblee fuori dalla fabbrica, in un bar vicino alla porta 2, con 50-60-70 operai che uscivano dal turno e con i quali discutevamo quello che era successo per fare il volantino e potere avvisare poi quelli del turno successivo. Quindi, avemmo secondo me questa funzione di rottura rispetto alle cautele e alla composizione del sindacato. Potere Operaio aveva un discorso sul salario che naturalmente era politico e non sindacale, sul salario sganciato dalla produttività e quindi era una leva politica formidabile. Un po' per carattere, per il ruolo, perché ero arrivato prima, presiedevo queste assemblee operaie, e lì mi trovavo, pur con la mia ignoranza politica, su un terreno solido che conoscevo: si parlava di quattrini, si parlava di categorie, si parlava voglio dire di argomenti che conoscevo. Però, eravamo ancora in pochi, crescemmo quando vennero quelli del movimento studentesco, e poi c'erano compagni validi come appunto Viale, Bobbio, Negarville, la Laura Rossi e tutta una serie di altri che non ricordo. Noi riuscimmo a coprire tutte le porte, quindi questo meccanismo molto importante di circolazione dell'informazione che prima con tutte le teorizzazioni di Romano, il Gatto Selvaggio, era affidato al meccanismo di lotta, diventava invece un meccanismo esplicito: c'erano cioè dei referenti esterni che comunicavano all'interno di tutta la fabbrica che cosa era successo, per cui magari le meccaniche se si erano fermate le linee capivano il perché e con quale rivendicazione e viceversa. C'era questo universo, si tenga presente che allora Mirafiori credo che facesse 40.000-50.000 operai. Quindi, tutto questo periodo dell'assemblea studenti-operai serviva a noi per imparare molte cose, avevamo un rapporto molto bello con questi operai, e gli operai crescevano, diventavano da persone, cittadini, li si chiami come si vuole, incazzati quanto bastava perché invece che trovare i bei luoghi del lavoro e del reddito a Torino erano torchiati dentro la fabbrica, sfruttati con affitti da fame, isolati socialmente, perché da buoni piemontesi come sempre non si peritavano di dire "non si affitta a meridionali", però chi affittava faceva loro pagare centinaia di mila lire di affitto, e poi ghettizzatti e le solite storie. Quindi, specie i giovani, forti di un individualismo di chi viveva nei paesi del Sud, senza essere organizzato dalla fabbrica, avevano una grande voglia di combattere, perché vivevano una condizione e di fabbrica e sociale molto difficile, con appunto il sindacato che fondamentalmente si occupava di altro. Dunque, nella discussione, che era sempre il rapporto tra obiettivo, forme di lotta, momento della trattativa (perché anche noi nel nostro estremismo ci rendevamo pure conto che a un certo punto occorreva poi trattare), loro crescevano come avanguardie politiche, questa è l'unica scuola reale, e quindi imparavano le problematiche dell'organizzazione, le problematiche delle forme di lotta e della capacità di resistere come forme di lotta, di come trovare forme di lotta che costassero poco agli operai e molto al padrone, come trovare forme di lotta che squassassero l'organizzazione aziendale, in questo favoriti dalla catena di montaggio che blocca immediatamente. Imparavano quindi i meccanismi di comunicazione e poi le forme di lotta concreta, non solo lo sciopero ma il corteo interno come meccanismo di coinvolgimento e di diffusione dentro la fabbrica, e come modo anche per intimorire i capi, allora quella dei capi era una struttura molto poliziesca. Questo grosso modo avviene nella primavera del '69, che è un anticipo delle forme di lotta. Per un paradosso le prime lotte dure avvengono non dove c'è l'operaio-massa ma dove c'è un operaio professionale e vecchio come alla Lancia, dove ci sono questi 40 giorni di lotta finiti in una sconfitta; ma io avevo sentito già il secondo giorno un cinico sindacalista che diceva "questa lotta ce l'abbiamo in culo adesso", perché lì c'erano anche problemi di una proprietà assenteista, la Lancia mi sembra che fosse stata comprata da Pesenti che se ne disinteressava, non mi ricordo esattamente com'era la storia, ma la Lancia non era ancora la Fiat e c'era un padrone che se ne fotteva. Comunque c'era una classe operaia che era dai 50 anni in su, quindi vecchia classe operaia. Quelli fecero 40 giorni di lotta, nonostante i salari da fame, nonostante appunto il sindacato avesse già decretato la sconfitta com'era partita la lotta. Mi ricordo che un giorno andai alle 8 a megafonare (la lotta non era ancora iniziata) con il solito discorso degli aumenti salariali, mi sembra che allora fossero 50 lire uguali per tutti di aumento della paga oraria. Poi i compagni erano dovuti andare via, chi insegnava chi aveva un altro lavoro, ero rimasto lì io con il mio megafono e percorrevo il perimetro esterno della fabbrica dove c'erano le finestre gridando "unitevi in corteo e uscite": mi sono preso uno spavento bestia perché alle 9 questi qua non sono usciti in corteo? Io non sapevo assolutamente cosa fare, naturalmente hanno trovato me come punto di riferimento, sindacalisti non ce n'erano, e io non sapevo assolutamente cosa fare: ho fatto la cosa più semplice, ho portato il corteo sotto il grattacielo della Lancia. Ma mi è venuto proprio il panico, perché ho detto "ma io adesso cosa faccio?", in quanto ero lontanissimo dal pensare che facessero il corteo interno e poi uscissero. Questa era una parentesi per dire che per strani meccanismi la lotta è scoppiata prima in una zona di vecchia classe operaia, tutti invece speravano che scoppiasse a Mirafiori perché la Lancia era già una classe operaia obsoleta e un marchio obsoleto.

Dalla primavera del '69 fino a settembre esce La Classe.

Era il giornale che facevamo con lunghissime telefonate in cui Scalzone a Milano redigeva e noi qua dettavamo.

In quel periodo a Torino vengono Daghini, Vesce, quelli che diedero poi vita a Potere Operaio.

Vengono un po' tutti a Torino. Dalla primavera all'inizio dell'estate arrivano a Torino tutti quelli di Potere Operaio, arrivano i romani, arrivano i padovani e via dicendo, arriva Adriano che intelligentemente fa l'operazione con il movimento studentesco. E a quel punto naturalmente l'intervento non solo si dilata, ma funziona il tam tam e la comunicazione con gli altri poli di classe, a Milano la Pirelli, Marghera nel Veneto, la Fatme a Roma. Questi gruppi iniziali usano naturalmente tutti gli strumenti di propaganda che hanno. Si tenga presente che poi nel frattempo c'è la conferenza studenti-operai, c'è il 3 luglio, un altro momento molto importante, e poi appunto la conferenza studenti-operai, allora mi ricordo che ci permettemmo di lasciare fuori Scalfari che non voleva pagare la quota di ingresso. Fu un grosso momento anticipatorio, lì era proprio pieno di quadri operai, c'era la questione del contratto. Infatti, visto a posteriori naturalmente, tutte queste lotte diventano un maglio nei confronti del sindacato, della quinta lega, della CGIL, perché ovviamente non possono più ignorarle, non solo per l'intensità della lotta all'interno che comunque presuppone un momento di mediazione, perché se no il sindacato che ci sta a fare, ma anche per la risonanza che in giro per l'Italia viene data e molte volte enfatizzata; ma noi volevamo fare la rivoluzione.

La Classe era fatta principalmente da quelli che poi daranno vita a Potere Operaio.

Sì, lì era ancora la fase di Lotta Continua in quanto assemblea operai-studenti. Dopo di che Giairo, dentro una sfera di forte antagonismo, ma eravamo comunque tutti compagni, si ferma a Torino per fare Lotta Continua, cioè dà una mano lui per mettere in piedi Lotta Continua: a quel punto l'intervento si spacca, Lotta Continua forma il suo gruppo partendo appunto dagli operai e da questi quadri del movimento torinese, mentre La Classe diventa Potere Operaio. Ciò avviene con una spaccatura forse inevitabile: cosa si può dire a posteriori? A posteriori ci sarebbe da fare una seria riflessione su quanto abbiamo realmente contato e quanto no, però inquadrando i gruppi in una logica non da gruppo, ci sono troppe memorie di gruppi in cui ognuno si autogiustifica o si autocondanna. Secondo me quella parte dell'intervento, la primavera del '69, fu il momento in cui i gruppi, pur non essendo ancora tali, ebbero nei confronti del conflitto, anche degli anni successivi, delle posizioni del sindacato, la valenza più forte, il sindacato era totalmente impreparato, non dico nemmeno del partito, che ce l'avemmo contro da subito. Ma il sindacato ha dovuto fare i conti con una realtà senza mediazioni, il partito poteva mediare attraverso il sindacato, questo non poteva. E difatti le piattaforme poi dei contratti subirono delle forme di influenza, perché il sindacato naturalmente non era fatto di persone stupide, aveva se si vuole la lentezza di tutte le istituzioni burocratizzate e l'ostilità al nuovo loro propria: parlo soprattutto della CGIL e della FIOM, la FIM era più pronta proprio perché aveva quadri meno ideologizzati, sicuramente più estremisti, non doveva rispondere al partito. Infatti, poi i migliori quadri operai che scelgono di entrare nel sindacato se non mi ricordo male in buona parte, anche i più attivi, sono piuttosto sulla FIM che non sulla FIOM.

Tanto per saltare subito ad un'analisi, passando il tempo io mi sono abbastanza convinto (e ciò non lo capivo allora) che era tale la forza messa in campo dalla classe operaia nel '69, nel '70, nel '71, che aveva bisogno di un referente adeguato come forza a quella che esprimeva lei; noi eravamo lì a dire "noi siamo rivoluzionari, voi non lo siete". Cioè, in definitiva mi rendo conto a posteriori che abbiamo fatto tanta ideologia e poca politica, molta politica in pochi momenti, il resto è tanta ideologia che, come ben si sa, se non fa i conti con la dura realtà delle cose diventa una fuga dalla realtà, come in buona parte è diventata nei gruppi. Non è un problema di entrismo o di non entrismo, il problema è secondo me, come i consigli operai dimostrano, che su quel livello di forza di classe i gruppi, i gruppetti, quelli storici, quelli nuovi, ma neanche tutti assieme potevano rappresentare un referente significativo per quel movimento di classe. Io ricordo alcune manifestazioni a Roma, non mi colpiva il fatto che fossero 50.000 o 100.000, quello secondo me era solo un dato quantitativo, la cosa che mi colpiva è che erano presenti le fabbriche con 10-15 operai dei consigli, e quindi i 100.000 erano 10.000 fabbriche, ognuna con 10 persone: era questo che ti dava un'idea dell'estensione e del movimento messosi in moto. Noi eravamo proprio pochissimi, quasi nessuno, era un bel gruppo di intellettuali, faceva il discorso secondo me più avanzato, ma eravamo poco politici, politici abituati alle dimensioni del gruppo e del movimento studentesco. Adesso, pensandoci a posteriori, abbiamo avuto questa funzione di leva molto forte perché abbiamo capito le cose addirittura tanti anni prima, Potere Operaio teorizzava proprio questa nuova composizione di classe fin dal '62, piazza Statuto, le magliette a strisce di Genova, i primi scioperi nelle aziende elettriche. Quindi, era arrivato preparato a questo, preparato da un punto di vista teorico, ma da un punto di vista pratico eravamo quattro gatti, e il discorso non cambia molto neanche con Lotta Continua, che fu sicuramente il gruppo più numeroso in Italia. Cioè, mi sono abbastanza reso conto che, se vuoi, più che un'intelligenza di classe, che pure c'è, c'è una necessità politica di classe, che è la necessità per un movimento così vasto di trovare poi l'interlocutore adeguato, non solo come forza ed estensione ma come capacità poi di mediazione istituzionale: e lì era soprattutto il sindacato, che in quegli anni fu secondo me fu il vero partito di classe, il Partito Comunista era lontano, mediava, era la mediazione istituzionale, ma la vera forza rivoluzionaria è stato il sindacato in quegli anni. Anche se noi l'avessimo capito, e non lo capimmo o non lo potevamo capire perché eravamo rivoluzionari, il processo avvenne secondo me in maniera così rapida ed estesa, cioè questa nuova composizione di classe divenne una fucina di avanguardie politiche così estesa e così di massa che noi non potevamo comprenderlo. Avremmo dovuto avere una testa più lucida con noi, ma occorreva un grande politico, e non lo erano né quelli di Potere Operaio né quelli di Lotta Continua, troppo abituati alla dimensione del gruppo. Voglio far capire, perché non voglio far gongolare Romolo Gobbi, che questo non è un discorso entrista, non me ne frega niente e non sono mai stato un entrista e chi l'ha fatto, ben altrimenti che Romolo, parlo di Tronti e delle grandi teste, non hanno cavato un ragno dal buco. Fa parte se vuoi di questi ritardi storici tra l'avanguardia politica e i movimenti di massa, per cui quando leggi Lenin poi dici "che bravo!" e subito dopo "che culo!", perché ci fu una coincidenza storica, i quadri, la formazione, le batoste, il nucleo del partito, poi con l'ingegno di Lenin per l'organizzazione, ma poi la guerra, la sconfitta e tutto quanto, fu un mix e un amalgama incredibile. Sì, Tronti aveva scritto "Lenin in Inghilterra", ma aveva scritto questa teoria assolutamente fasulla che proprio i fatti si sono incaricati di smentire della rivoluzione nel punto dello sviluppo: molto intellettuale, molto affascinante ma non ha funzionato.

Dalla ricerca che stiamo portando avanti si viene a configurare un piccolo spaccato che poi può diventare un'ipotesi più generale sul funzionamento dei movimenti e delle organizzazioni politiche. Su un livello superiore ci sono le avanguardie politiche, ossia un numero ristretto di soggetti che hanno un'autonomia di elaborazione, di proposizione e di direzione; in basso c'è una domanda politica che viene dai movimenti, e in mezzo, a fare da cerniera, uno strato intermedio e stratificato composto dai militanti, che intercettano la domanda dei movimenti ricongiungendola con la capacità di direzione politiche delle avanguardie, in una circolarità continua. All'interno della generica categoria dei militanti (e qui riprendo il discorso che facevi all'inizio rispetto alla tua formazione) si possono individuare diverse figure tipiche e vari modi di formazione: c'è il militante di base che assume un determinato ruolo e modo d'essere all'interno della lotta e il cui percorso politico è legato specificatamente ad una certa situazione, al fatto di essere collocato in una particolare realtà, di avere determinate conoscenze, di maturare alcuni presupposti che lo portano ad essere attivo in una certa fase, anche se poi finita la lotta il suo percorso magari si ferma o continua in forme diverse; all'interno della lotta si formano poi le avanguardie di lotta, che non sono le avanguardie politiche ma sono persone che, formatisi in un contesto specifico e ad esso legate, trainano una certa fase di conflitto; poi ci sono i militanti politici che, con un bagaglio di esperienza e formazione loro proprio e al di là degli alti e bassi dei cicli di lotta, continuano a mantenere la funzione di cerniera e di impegno costante.

Sicuramente mi sembra che la partizione che hai fatto rifletta bene le varie figure presenti. Il discorso che faccio io spostandolo un po' in avanti anche nel tempo è, se si vuole, un discorso in cui non è che si neghi la saldatura tra avanguardia di lotta e avanguardia politica, ma per avanguardia politica intendiamo il personale formatosi precedentemente che poi sollecita e va a intervenire nelle lotte promuovendo (nel caso degli operaisti) un discorso salariale e lo fa diventare una leva politica; è ovvio che ci sono questi e poi ci sono gli m-l e tutto il resto, gli operaisti sono una componente, parliamo soprattutto di loro perché era anche la loro teoria che li portava a diventare forza agente nel vivo delle lotte operaie. Ma la mia impressione è che, fatta pure questa distinzione in categorie che aiutano poi a capire i processi reali come si svolgevano, si sia in qualche modo determinato un deficit di potenza: è come se due fenomeni fisici non riuscissero poi a stare insieme perché l'uno ha una massa talmente sterminata che la capacità di attrazione dell'altra che ha una densità molto maggiore ma non sufficiente, per parlare in termini di forza gravitazionale; per cui la massa maggiore deve trovare in qualche modo come soluzione politica, intesa poi come mediazione e modificazione istituzionale, degli interlocutori adatti a sé. Parlo soprattutto di quello che secondo me è il centro poi di tutte queste storie, ossia la formazione dei delegati operai dentro i consigli di fabbrica, se parlo degli anni '70 la stessa lotta armata è il risultato di una sconfitta, anche dove viene proclamata come ideologia: secondo me il fatto maggiore che segna gli anni '70 e che rende unica l'esperienza italiana è la storia dei consigli operai, quello è stato un avvenimento. Quando io sento parlare Ingrao di democrazia mi viene spontanea una domanda: "ma disgraziato, l'unica forma reale di democrazia che si è data negli ultimi cinquant'anni in Italia sono stati i consigli operai e voi come partito li avete distrutti, perché proprio il partito li ha distrutti: cosa vieni a cianciare di democrazia?". Queste sono riflessioni, quando hai un po' di memoria storica in questo paese smemorato e vedi degli interlocutori che parlano pesi le parole sulla base di quello che hanno fatto, e questo è ancora un altro discorso. Ritorno su questo discorso perché ho un "sagrin" (come si dice in piemontese): gli anni '70 sono stati e sono ancora oggi degli anni sconosciuti, perché le forze istituzionali, l'ex PCI in primo luogo, hanno tutto l'interesse a coprire il decennio con questa coperta corta che è il terrorismo, e quindi di conseguenza la lotta al terrorismo, la propria fedeltà allo Stato: e il decennio invece ha tutt'altra storia, che è quella di cui stiamo parlando adesso, quella è la storia secondo me fino al '77, che comincia a mostrare una diversa composizione del movimento.

Tu hai in precedenza detto che hai capito che il mondo stava cambiando o poteva farlo, e questa è stata la molla che ti ha fatto iniziare un percorso politico. Tronti e altri sostengono che alla fine degli anni '60 quel ciclo di lotte operaie che aveva segnato il decennio era in una fase di riflusso. Tronti usa una metafora, dicendo che si fu vittime di un'illusione ottica perché si era visto il rosso, questo effettivamente c'era ma era quello del tramonto e non dell'aurora. Secondo te alla fine degli anni '60 le lotte operaie erano una fase di apertura o di chiusura? Ma ancora prima, che cos'era la classe operaia e cos'erano gli operai in quegli anni (cosa di cui pochi realmente parlano)? E perché era quella forza capace di far pensare che lì si potesse far leva per cambiare il mondo?

Intanto io devo mettere dei limiti al mio giudizio che sono quelli della mia storia personale, il resto sono cose che ho letto: io comincio a fare politica nella seconda metà del '68, quindi parlo più sicuramente delle cose che ho visto che non delle altre. Per quello che ho visto io non sono d'accordo con questo discorso, trovo che è una lettura molto intellettuale delle lotte. Anche alla luce di quello che ho detto, se c'era un tramonto era quello delle avanguardie politiche e non delle lotte operaie. Come si presentano a questo ciclo di lotte le avanguardie politiche degli anni '60? Frantumate, spezzettate, piene di sconfitte, divise, suddivise, di nuovo suddivise, loro sì, non le lotte. E sì che avevano avuto un intuito, ma secondo me se c'è una carenza è nella teoria politica e non nelle lotte operaie, questo per come la vedo io. Siamo arrivati in quattro gatti quando le lotte esplodono e fanno deflagrare tutti gli equilibri precedenti: ma Tronti cosa fa? Entra nel partito, forse è giusto dal suo punto di vista, ma forse doveva farlo dieci anni prima. Non voglio parlare di Tronti, trovo che sia un grande personaggio della sinistra extraparlamentare anche se è entrato nel PCI. Se devo però dare un giudizio a posteriori, io trovo che le avanguardie politiche sono arrivate lì vecchie: la teoria c'era, l'operaio-massa lo si diceva e tutto quanto, ma nessuno ha forse avuto la forza di capire che la rivoluzione era una cosa diversa negli anni '70 in Italia e con il mondo com'era. Io mi sono accorto di quanto aveva assunto la classe operaia in termini di rapporti di potere sociali, non politici, nel decennio successivo, nella seconda metà degli anni '70: in quei 5-6 anni la classe operaia costruisce una forza e un'egemonia sociale che non sbocca poi nella rivoluzione, ma di fronte alla quale tutti i vari personaggi politici che io ho conosciuto, naturalmente me compreso, erano del tutto impreparati. Se si va a prendere i due giornali si vede che Potere Operaio e anche Lotta Continua partono sulla teoria della lotta armata come una via di fuga demenziale che non riconosce più la realtà delle cose che stanno avvenendo in Italia; ovvero, secondo me riconoscono che chi raccoglie in misura adeguata questo movimento operaio di lotte è il sindacato, che la costruzione dei consigli operai vede la presenza dei gruppi in posizione assolutamente marginale e decentrata, e allora se si leggono i giornali di quell'epoca sono pieni veramente di cose demenziali, la lotta armata, la presa del palazzo d'inverno. Noi ne avevamo forse un esempio in piccolo, Oreste Scalzone, che meno contavamo e più gli articoli diventavano inni, ma in Lotta Continua era la stessa cosa in maniere diverse. A parte le Brigate Rosse, le uniche che dicono clandestinità e via dicendo, gli altri teorizzano il doppio livello. Non era possibile, non c'era nessun'altra possibilità, come poi i fatti successivi hanno dimostrato: il sindacato non era un partito, confinato in un ruolo istituzionale che l'aveva portato a raccogliere questa enorme forza, tutta concentrata sulle conquiste di carattere materiale con questa organizzazione formidabile che nessun partito comunista in Italia ha mai avuto, diffusa, capillare e penetrante, e poi succube del partito senza poter dare lo sbocco politico a questa cosa, che il partito conta poi di dare con il movimento operaio sconfitto nel '75 con le elezioni. Queste cose qui, l'alba, il tramonto, non mi convincono; se rileggo Tronti è un piacere, ma poi si deve separare la poesia dal resto, lui affascinava tutti con questo modo di scrivere bellissimo, eccezionale, è un grande scrittore, sintetico, poi asseverativo, ogni frase è un macigno, "Lenin in Inghilterra" ecc.: ma questa cosa qui è molta autocompiaciuta. Se ci ripenso a posteriori ho veramente un unico rimpianto: sono contento di aver fatto il '68, sono contento anche di essere andato in galera, di essermi fatto tutta l'esperienza che ho fatto, ho un unico rimpianto, quello di aver fatto poca politica. Allora non avevo l'intelligenza e la cultura per capirlo, e forse non era possibile farne di più, perché chi è entrato nel PCI non è che abbia fatto più politica, anzi forse ne ha fatta di meno; ma non abbiamo avuto il coraggio di riconoscerlo.

Allora, per tornare alla tua domanda, non sono proprio d'accordo, poi non so da che punto di vista parlasse Tronti: secondo me le lotte degli anni '60 si innescano con le lotte della fine degli anni '60 assumendo una dimensione di massa e trovando il referente nell'operaio-massa. E non solo, dentro queste lotte così diffuse e di livello così elevato si forma un'avanguardia di lotta e in parte politica, ma non solo quelli che fanno i gruppi, diventa in parte politica perché i più avvertiti dell'avanguardia di lotta cominciano a guardare fuori dalla fabbrica e probabilmente a capire che se la sono presa nel culo, cioè che uno sbocco politico di tutte queste lotte non esiste. Naturalmente quello che c'è tenta di appropriarsene, il PCI tenta di andare al governo, poi non ci riuscirà, sarà giocato, ma a quel punto il PCI si presenta legittimamente con il fatto di dire "l'unico che può controllare le lotte sono io", e ovviamente con la leva della CGIL. Poi ci sono tutte le storie molto meno lineari, però io non sono d'accordo con questa cosa che dice Tronti: trovo e ritengo che di questo secolo, a parte le storie del '17, ma di questa seconda metà del secolo è forse questo il fenomeno di movimento più significativo che sia avvenuto, per quello che io conosco, nel mondo occidentale, molto più alto di livello di quello che è avvenuto in Francia ad esempio, dove tutto era impastoiato con questo partito comunista retrogrado. Ritengo che il rapporto lotte-movimento-sindacato trovi il suo limite nella funzione istituzionale del sindacato, che non ha la forza di liberarsi e di dire "ma chi se ne frega del sindacato, io sono il partito", cioè di rompere nell'arena istituzionale, questo sì come fatto rivoluzionario. L'avevano tentato attraverso un percorso, i consigli operai che entravano nelle scuole e via dicendo, ma era ancora un tentativo dal basso, di uscire dalla camicia stretta della fabbrica. Probabilmente, sempre a posteriori, forse è una cosa antistorica, lì veramente era il sindacato che doveva fare il partito, cioè "che mi frega che mi chiamo sindacato e del ruolo istituzionale che mi hai dato, io adesso sono il partito". Era l'unica cosa adeguata, il resto erano se si vuole pallidi fantasmi, i gruppi erano proprio dei pallidi fantasmi, molto chiusi; ma in alcuni momenti secondo me del '69, specie la prima parte poi anche la seconda come spinta ulteriore anche nel '70, assolvono una grossa funzione di stimolo e di diffusione delle lotte, ma poi ognuno a occuparsi dei suoi quadri operai nell'assemblea, con una miopia pazzesca, ma che me ne frega se tu hai 20 operai e io ne ho 10. Secondo me mancava, ognuno preso nella sua ideologia, uno sguardo lungo, e forse lo sguardo lungo avrebbe anche potuto dire che non potevano andare altrimenti le lotte, cioè che i sogni rivoluzionari erano appunto sogni; però, ci sarebbe dovuta almeno essere la capacità di dichiarare i fenomeni per quello che erano.

Romano è stato uno dei pochi ad occuparsi di cosa fosse realmente la soggettività operaia, fino ad arrivare agli operai e ai loro vissuti, e quindi di cosa fosse quell'insieme di comportamenti, credenze, bisogni ecc. che sicuramente non erano del tutto antagonisti, però in una certa fase avevano degli elementi di effettiva diversità dal padrone e dalla borghesia. Si trattava di capire da dove venissero le differenze soggettive, i momenti di formazione (non solo esterni, ma interni) di una particolare cultura e soggettività con elementi di antagonismo, di una forza da cui si poteva partire per un processuale percorso politico di ri-soggettivazione e costruzione di alterità.

Sì, forse è vero, ma cos'è una soggettività operaia? E' un insieme di comportamenti, è un insieme di scelte di lotta ma anche scelte esistenziali: non lo so cosa intenda Romano per questa soggettività operaia. Forse è stata poco studiata, noi avevamo sostanzialmente i tempi che la lotta ci concedeva. Devo dire che, tranne poche volte, eravamo molto a rimorchio delle lotte di questa famosa soggettività operaia, anche se sì, facevamo circolare le informazioni, ci montavamo la testa, una volta abbiamo anche proclamato lo sciopero generale, queste "stronzate" veramente da piccoli dirigenti comunisti. Qualche volta le abbiamo azzeccate, il 3 luglio l'abbiamo azzeccata: non eravamo neanche una piccola organizzazione, eravamo una piccola fettina di movimento di avanguardia politiche, ma parlo dell'ordine di 20-30-40 compagni e non di più, che proclama uno sciopero fuori dalla fabbrica, c'era lo sciopero generale per la casa, che porta in piazza 1.000-1.500 operai, una cifra enorme, ma poi incendia due interi quartieri di Torino. E' una cosa secondo me casuale, io quello sciopero l'avevo voluto contro tutti, avevo solo dalla mia Romolo Gobbi, tutti gli altri stavano chiusi nell'università e non si muovevano. Ma è un caso, non voglio venderlo come un calcolo, ma no, è un caso. Perché poi era una scena surreale, su corso Traiano tutti questi scontri tra operai, avanguardie politiche, polizia, è arrivato il battaglione Padova, la gente che partecipava dalle case, tirava giù i vasi da fiori, ci eravamo impossessati di alcuni caterpillar che usavamo come carri armati per bloccare le strade: cioè, una scena dell'altro mondo, e sui due corsi, corso Unione Sovietica e al fondo di via Nizza, la gente che tornava dalla gita fuori porta che tranquillamente scorreva in macchina. E' una cosa che dici "ma che rivoluzione?", rivoluzione per qualche migliaio di noi qui in questo quartiere, la lotta con la polizia, la lotta di fabbrica, e poi centinaia di migliaia di abitanti di Torino che tornavano tranquillamente in macchina in questo afflusso di lunghe code ignorando assolutamente tutto quello che stava avvenendo. Perché dico questo? Cos'è lì la soggettività operaia? Come l'hai raccolta? Allora probabilmente per capirci in questa cosa occorrerebbero proprio delle definizioni di una cosa così difficile come la soggettività operaia. E' un po' come la composizione di classe, se ne parla ma è necessario definirla molto bene. Credo che questa cosa sia vera, io rimango abbastanza legato a questo discorso del rapporto tra movimento, potenza del movimento (torno a usare questa parola) e potenza dell'interlocutore politico in grado di mediare. Cioè, che cosa succede? L'interlocutore Stato in tutte le sue articolazioni o reprime o trova un soggetto che media questa cosa: però deve essere un soggetto adeguato, e in Italia storicamente questi soggetti erano il sindacato e il partito, santi non ce n'erano. Per il resto, se debbo dire, abbiamo a volte avuto una funzione di acceleratore, molte più volte siamo stati in coda, altrettante volte abbiamo fatto ideologia. Le cose sono andate in un certo modo perché non abbiamo capito i comportamenti soggettivi di classe? Ma se noi li avessimo capiti, rispetto al discorso che faccio sulla potenza, qual era poi il soggetto politico? Certo, la composizione di classe da un lato, ma il soggetto politico in grado di trasformare in percorso rivoluzionario questa soggettività dei comportamenti qual era? Quindi, a una domanda rispondo con un'altra domanda.

Ho le idee abbastanza chiare sulla composizione di classe, soprattutto su questa cesura tra l'operaio professionale e questo operaio-massa; anche lì, i comportamenti operai nel corso degli anni '60 cambiano, perché probabilmente è vero che l'operaio del Sud che arriva a Nord intanto scopre la fabbrica, che è un territorio sconosciuto, e non è che scopre la fabbrica e scopre la lotta il giorno dopo, ne deve scoprire tutti i meccanismi, le forme di collegamento, cioè deve capire che cos'è un salario. Secondo me quello ha impiegato (è del tutto un'idea mia) qualche anno per rendersi conto di dov'era; perché non è che il contadino entra in fabbrica e il giorno dopo sa cos'è la fabbrica, sa cos'è un salario, sa che cosa sono le categorie, sa che cos'è uno sciopero: è un mondo così diverso. Io non vedo nessun tramonto, vedo semplicemente il fatto che questa enorme migrazione di un popolo di proletari dentro la fabbrica ha dei tempi fisiologici. Anche perché non è che lì trova le avanguardie politiche, lì le avanguardie politiche facevano le commissioni operaie, erano da un'altra parte, si preoccupavano dell'operaio qualificato, cioè dei propri compagni di lavoro: quindi, questo è abbandonato assolutamente a se stesso, non ha partito, non ha sindacato, è isolato socialmente, cosa fa? Tenta di capire che cosa succede. Dunque, non mi meraviglia che negli anni '60 avvenga questo accumulo di potenziale esplosivo dentro la fabbrica, ma questo discorso dei comportamenti operai secondo me non è un discorso innato, i comportamenti operai derivano dalla conoscenza che l'operaio ha dell'ambiente fabbrica, se per comportamenti operai intendiamo le forme di lotta, le forme di mediazione, quindi è un in progress.

Romano infatti approfondì da dove venivano i comportamenti soggettivi, collettivi e perfino individuali, antagonisti e non, nella lotta e non, formati dall'esterno o dall'interno. Parlò ad esempio di spontaneità organizzata, il che era una grossa e nuova questione.

Ma tutto questo richiede tempo, perché secondo me anche il formarsi della spontaneità (intesa come comportamenti spontanei di lotta) richiede del tempo, perché questo operaio è come trasferito su Marte. E' una città in cui capisce poco, è preso dalla sopravvivenza. Le mie sono considerazioni, sono tanti anni che discuto poco di queste cose.

Come si configurava Potere Operaio a Torino? Dopo il '69 i poli più forti di PO furono sicuramente altri.

Potere Operaio a Torino si forma quando si forma Potere Operaio nazionale, e rimane sempre una sede debole, probabilmente in parte per incapacità mia che la dirigevo, ma in parte perché sostanzialmente il personale politico di movimento si riconosceva in Lotta Continua. Nella quasi totalità, tranne appunto alcuni "vecchi" che avevano un percorso nelle storie di Quaderni Rossi e via dicendo, il personale politico che si era poi qualificato ed erano stati riconosciuti come dirigenti politici entrano in Lotta Continua. Io non ero in grado di fare altrimenti, non so se ne avevo le capacità, i dirigenti di Potere Operaio di allora erano sicuramente Toni e Franco; per scelta loro o non lo so, non hanno fatto come Adriano che è stato molto bravo e ha effettuato questa cucitura (muovendosi lui da Trento, passando per Milano e arrivando a Torino), di queste che erano avanguardie, cioè serviva forza-lavoro politica, quadri politici e via dicendo. Perciò la storia di Potere Operaio a Torino è proprio una storia minoritaria. Io faccio un'operazione, per quello che riesco a fare, per trovare quadri nuovi sugli studenti-lavoratori di Trento, e lì effettivamente trovo alcuni quadri che rimpolpano un po' la sede di Torino. Dalla scissione di Lotta Continua nasce Potere Operaio e la sede torinese di PO che continua l'intervento; con Lotta Continua comincia un'escalation che poi vista anche questa a posteriori è demenziale, perché, salario noi e salario loro, diventava difficile differenziarsi, loro con questa componente che poi pagava in termini numerici e con una maggiore attenzione secondo me a quelli che erano i comportamenti e le esigenze individuali, e questo pagò sul piano della militanza. Noi invece eravamo tutti asceti della politica, per cui ci ritenevamo un'élite, era questo leninismo mal digerito per cui è meglio essere in pochi ma i migliori, tutte balle, a Torino eravamo proprio molto pochi. Eravamo molto pochi di fronte a una realtà di classe che invece richiedeva un intervento significativo, poi sono convinto che noi più Lotta Continua contassimo ancora ben poco, ma LC metteva i cortei in strada, noi ci abbiamo provato qualche volta e ci abbiamo rinunciato perché, se non riuscivamo a coinvolgere qualche scuola, eravamo proprio in quattro gatti. Però sostanzialmente, rivedendola a posteriori, se penso ai discorsi di concorrenza tra i gruppi, poi nei fatti noi facevamo il non pagamento degli autobus, non paghiamo più i biglietti, non paghiamo più l'affitto, non paghiamo più la luce, abbiamo fatto anche delle lotte significative, Lotta Continua poi tirò fuori "prendiamoci la città" che era semplicemente questa cosa. Nel '69 qui avvenne, e quello fu un dato interessante, una riunione tra i pochi quadri di Potere Operaio torinesi e un gruppo di dirigenti giovanili del PCI, come Magnaghi, che allora occupavano le case a Nichelino, avevano fatto anche loro un'azione eversiva con l'occupazione di case nel comune rosso, e poi entrarono in PO anche loro con un grosso appoggio perché Alberto è un formidabile quadro politico. Però, sempre in pochi eravamo.

Qual è stato il tuo percorso successivo?

Il mio percorso è stato legato a Potere Operaio sostanzialmente; quando poi PO è finito ci fu quest'ultimo patetico tentativo di rianimazione ma lo scontro politico e il confronto storico tra le due anime di Potere Operaio, Piperno e Negri, ormai non aveva più senso, il gruppo non aveva più incidenza politica. Io venni nominato segretario a Rosolina, che nella buona sostanza segnò la fine di PO, nel senso che continuò a vivere, nessuno ebbe la forza di chiudere la luce, ma con una diaspora, smembrato e via dicendo, con le sedi sempre più in difficoltà; la mia fu proprio una segreteria fantasma, perché ormai eravamo tutti consapevoli che eravamo stati sconfitti. Nel frattempo su tutta una serie di militanti di Lotta Continua e di Potere Operaio la sconfitta cominciava ad essere trasferita nel discorso lotta armata, fu la genesi di Prima Linea e queste cose qui. Lotta Continua fece ancora il tentativo nel '75 di presentarsi alle elezioni e prese una batosta. Continuammo a fare l'intervento firmandoci, non mi ricordo se nel '75, studenti-operai come molti anni prima, ma la storia era ormai finita. Non era finita la mia attività politica perché io mi ritirai tra il '75 e il '76 a vita privata come si diceva, ma il 7 aprile del '79 fui obbligato a ricominciare a fare politica. Quindi, in pratica per una specie di senso calvinista io continuavo ad andare davanti alle fabbriche per sentire come stavano le cose, ma era una testimonianza, eravamo proprio quattro o cinque persone, fra l'altro era un lavoro inutile perché le notizie filtravano sempre meno e poi fra l'altro nel '74-'75 molte avanguardie si licenziarono. Se si vuole, l'esperienza di formazione di avanguardie di lotta e in parte di avanguardia politica, compresi i quadri dei gruppi, ti portò al fatto che quando passò il processo di ristrutturazione da parte della Fiat, e nello stesso tempo la stretta del sindacato che nei fatti castrò i consigli operai, molti di loro se ne andarono, cioè uscirono dalla fabbrica; stavano nella fabbrica solo fino a quando questa dava loro un ambiente politico in cui muoversi, nel momento in cui la fabbrica tornava ad essere linea di montaggio e fatica ne uscirono. Per cui questa è la mia storia, io praticamente nel '75-'76 cesso di fare politica attiva e poi mi succede questa storia del 7 aprile.

Analizzando retrospettivamente i tuoi percorsi hai individuato diversi limiti delle esperienze politiche in questione. Secondo te quali sono i nodi che nell'oggi e in prospettiva futura rimangono aperti da un punto di vista politico?

Francamente io rischio di dire delle "cazzate" perché sono disabituato alla politica e a un ragionamento di natura politica. Qui sta cambiando tutto sotto i nostri occhi e anche molto rapidamente, e non è la banalità di questa progressiva insignificanza della classe operaia rispetto agli assetti sociali complessivi e delle trasformazioni del sindacato che è sempre più un sindacato di pensionati. Il nodo francamente è che, tranne qualche lavoro in particolare di Sergio, per quello che so io, sul lavoro autonomo, questa nuova composizione di classe sembra sfuggire a tutti i parametri. Ora, non è che abbia le idee chiare in proposito, ma se dovessi dire da dove riparte un filo rosso francamente non mi sembra più che parta dalle fabbriche. Il problema è che non saprei dire da dove parte, e neanche che forma prende: tu parlavi dei comportamenti operai, ma chi sono gli operai oggi? Non gli operai di fabbrica, ma gli operai sociali: e questi operai sociali che comportamenti hanno? E questi nuovi comportamenti come si individuano e come si organizzano? Molte domande, nessuna risposta se non abbiamo gli strumenti per capire una nuova composizione di classe; e non parlo di organizzarla che è un problema di là da venire, ma solo per capirla. Qui ritorna di nuovo il discorso dei comportamenti di classe. Le fabbriche non è che non ci siano più, ci sono ancora naturalmente, però fra l'operaio sociale di oggi e l'operaio di fabbrica di oggi c'è qualche legame, c'è qualche rapporto? Non lo so, non ne ho idea, sarei già contento se leggessi (e qualche volta mi capita, ma di rado) delle cose intelligenti in proposito. Ma mi sembra che ci sia tutta l'attenzione spostata sul capitale, sul mercato, e sono delle emerite "stronzate", mentre sono pochi e discontinui i tentativi nell'altro senso. Anche questo discorso della conoscenza sociale o come diceva il nostro amico il general intellect, che cos'è oggi? Come si riappropria questo operaio sociale? Io sono a volte esterrefatto, la conoscenza intesa appunto come general intellect è cresciuta enormemente, la produttività è cresciuta enormemente, e invece siamo ancora ai catorci politici di una volta che consentono una distribuzione di ricchezza paradossale, è incredibile. C'è qualche piccolo e insignificante tentativo del sindacato di grattarne via un po', di salvaguardare qualche cosa delle conquiste, ma niente in confronto a quello che è successo negli anni '80 e '90. Qual è la forma di nuovo che può affrontare il problema della distribuzione sociale della ricchezza? A questo discorso del rifiuto del lavoro, geniale intuizione che vive nei comportamenti dei giovani, ma come autoemarginazione e non come conquista politica, come dai di nuovo un senso? Sono pieno di interrogativi, queste sono le cose di cui bisognerebbe discutere, chi se ne frega di Casini, Buttiglione e Rutelli? Quelle sono storie altre dalle nostre.

Questi interrogativi sono fili non dico neanche da riannodare, ma che si tratterebbe di tirare per vedere la maglia dove e in che punto risponde: se non trovi il filo non capisci la trama e l'ordito, il filo lo devi trovare e lo devi tirare, allora la maglia si increspa e cominci a capire che hai tirato il filo giusto. Uso questa metafora, visto che prima abbiamo parlato di quella dell'alba e del tramonto. Ed è difficile trovare addirittura tavoli di dibattito, per cui apprezzo molto la ricerca che state facendo: intanto perché mi dà un'opportunità di chiacchierare a ruota libera, e poi perché sarò curioso dei risultati. Secondo me è molto interessante discutere cosa è successo negli anni '70, vedere le diverse posizioni: poi si prende questo discorso, lo si lascia lì e se ne apre un altro, per poi tentare su un discorso attuale di vedere quali sono i nodi che si ripropongono. E' un contesto in cui tentare dei collegamenti diventa ardito, forse si tratta di vedere se alcune vecchie categorie riprese e rilette possono aiutare a capire qualche cosa in questo gran casino che noi ci troviamo di fronte. Il lavoro autonomo, le nuove tecnologie, come il lavoro incontra le tecnologie, come le usa e come ne è usato, qui stiamo di nuovo parlando di giornata lavorativa di 12 ore, ci si rende conto? E abbiamo un sindacato che meno male che non parla più delle 36 ore, intanto riguarderebbero una frazione piccola e non significativa, qui il problema è di parlare delle 12 ore di lavoro dei lavoratori autonomi. Quindi, un innalzamento di produttività sociale pazzesca, in cui una parte viene rapinata dallo Stato per i suoi fini politici, e una parte diventa profitto e non salario: cioè, com'è la ridistribuzione della ricchezza non normata, e che origine di comportamenti dà? Perché viene accettata? Perché non c'è la disciplina di fabbrica da rifiutare e quindi siamo di nuovo all'autosfruttamento? E ci sono vie intermedie tra questa cosa qui e il rifiuto del lavoro e l'autoemarginazione oppure no? Per cui, siccome so il vecchio "vizio" quanto mai profittevole di Romano dell'inchiesta operaia, penso che sia importante, si tratta di un misto, io non lo so che strumenti ci siano per raccogliere queste cose, ma questa realtà non la conosciamo bene: allora, può essere utile ripensare a quello che abbiamo fatto, ma poi secondo me prenderlo e lasciarlo lì. C'è stata secondo me una grande rivoluzione sociale in Italia, non è diventata come volevamo noi rivoluzione politica, però c'è stata e ha segnato, e ha determinato una reazione feroce della controparte che si è sviluppata in tutti questi anni: questi adesso hanno vinto, ma non sanno non solo dove vanno ma neanche dove sono, il problema è che non lo sappiamo neanche noi. Se si pensa che oggi dire comunista è diventato una parolaccia, uno si chiede se è mai possibile, è pazzesco. Eppure entrano nel discorso dei comportamenti i media, adesso non puoi farne a meno di valutarli. Entrano nei comportamenti sociali, ma i comportamenti sociali non li definisci finché non assumono una valenza politica, ma tu hai bisogno di capirli prima se vuoi dare loro un'interpretazione e una possibilità di anticipazione: e come li vai a trovare? In un discorso dei fili e della maglia, dove sono i fili e dove ti portano? Affascinante, ma ci sarebbe da mettersi lì e fare di nuovo una grande indagine, però avendo prima definito che cosa chiedere, come valutare i risultati, le categorie, e qui siamo ancora indietro secondo me. E i tempi premono, le cose si muovono veloci, ti guardi e dici "che bello che sarebbe se..."


Stili della militanza. Dal movimento operaio a Occupy, aprile 2013