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Relazione di Rita di Leo (31 gennaio 2007)

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Io sono arrivata a Operai e capitale dopo aver passato molto tempo a fare i conti con gli schemi di riproduzione riferiti non alla Fiat ma alle masserie pugliesi, e occupandomi insieme ad altri compagni di plusvalore assoluto e relativo alla Fatme, fabbrica oggi sparita. Sono arrivata a questo testo dopo letture, mirate e approfondite, fatte grazie a Panzieri e a Tronti. Devo anche dire – come nota personale – che ho avuto in mano il manoscritto di Operai e capitale e, dopo aver trovato un compagno che fece il grandissimo sforzo di batterlo a macchina, lo potemmo riprodurre e dare in lettura alle persone che all’epoca ci interessavano. C’è dunque un vissuto di Operai e capitale molto personale.

Io ho scelto di commentare un pezzo del “Poscritto” di questo testo, di “Marx a Detroit”, perché sono interessata a proporre il tema della classe operaia americana nella versione che Tronti ne diede all’epoca e nella realtà di oggi. Fanno da fondo al “Poscritto” la socialdemocrazia tedesca e il New Deal negli Stati Uniti degli anni Trenta e, come contrappunto, Lenin. La prima annotazione è l’entusiasmo provocatorio con cui Tronti presenta l’eccezionalismo della classe operaia americana rispetto a quella europea. Partendo dal fatto che quanto ha avuto il sindacalismo industriale del New Deal non lo ha ottenuto mai nessun partito politico della classe operaia, Tronti scrive: “Marx e il partito sembrano allora aver avuto lo stresso destino. La classe operaia americana ha fatto a meno e dell’uno e dell’altro. […] Una classe operaia forte è capace di utilizzare come forma della propria organizzazione la stessa organizzazione capitalistica del lavoro industriale”.

Dovete tentare di calarvi nell’epoca e nel contesto particolare in cui queste affermazioni venivano dette. Era un contesto dove c’era ancora un approccio corrente egemonico postbellico secondo cui gli operai dovevano sacrificarsi per il bene della patria capitalistica. C’era stato il piano del lavoro, c’erano politiche sindacali che a noi apparivano non antagoniste e contro le quali combattevamo. Riferendosi agli operai americani, Tronti dice: “É una cosa che scandalizza i sacerdoti della rivoluzione: la classe operaia meglio pagata del mondo ha vinto una volta e s’è permessa lo sfizio di godersela con i frutti della vittoria”. Questa provocazione era per noi affascinante, perché appunto vivevamo in un contesto in cui gli operai non godevano, ma dovevano lottare e sacrificarsi per tutti. Infatti, la contrapposizione che più interessa Tronti è quella tra il dogmatismo socialdemocratico, socialista e comunista e lo spontaneismo Usa. “Il capolavoro di quella socialdemocrazia era proprio di tenere insieme le due facce della medaglia, tutte e due le possibili politiche del partito, una pratica quotidiana di azioni mensceviche” – per voi traduco: azioni veltroniane e rutelliane – “e un’ideologia di puri principi sovversivi. […] [Invece] la tradizione di organizzazione degli operai americani è la più politica del mondo, perché la carica delle loro lotte è la più vicina alla sconfitta economica dell’avversario, la più prossima non alla conquista del potere per costruire sul vuoto un’altra società, ma all’esplosione del salario per rendere subalterno il capitale con i capitalisti dentro questa stessa società”, mentre noi avevamo quella ideologia.

L’entusiasmo di Tronti è comprensibile, perché egli scrive alla fine degli anni Sessanta, quando si stava aprendo quel ciclo di lotte operaie che si chiuderà drammaticamente negli anni Ottanta e che ci vide coinvolti. Come una premonizione afferma: “L’America politica di ieri è il nostro presente storico di oggi. Dobbiamo pur sapere che viviamo una vicenda già vissuta”. Ed è su questo che io vorrei intervenire, perché le vicende storiche, si sa, non si ripetono mai e le lotte della classe operaia italiana andranno molto avanti superando per qualità, quantità e maturità politica quelle degli operai americani: in Italia, ad esempio, perdura il contenzioso tra il sindacato Fiom nei confronti della più collaborativa Cgil. È poco, ma ci dobbiamo accontentare. Il contesto americano è diverso. Tronti spiega: “Il capitale, dopo una parziale sconfitta anche in seguito a una semplice battaglia contrattuale, è violentemente spinto a rifare i conti con se stesso, a rimettere in gioco appunto la qualità del suo sviluppo, a riproporre il problema del rapporto con l’avversario di classe non in forma diretta, ma mediata da un tipo di iniziativa generale che coinvolge riorganizzazione del processo produttivo e ristrutturazione del mercato, razionalizzazione in fabbrica e pianificazione nella società, e che chiama in suo aiuto tecnologia e politica, nuovi modi nel consumo del lavoro, nuove forme nell’esercizio dell’autorità”. E questo è quello che è effettivamente avvenuto.

La sconfitta della classe operaia americana, dovuta all’obiettivo posto dai capitalisti, dai loro scienziati e tecnici, è consistita nella solitudine del singolo lavoratore. Come scrive uno scienziato, “finché un uomo mantiene la propria individualità è più o meno protetto contro il sentimento di classe”. Lo sforzo è stato proprio quello di rendere l’operaio americano l’individuo più solo al mondo da un lato, e dall’altro rendere il capitale americano il più flessibile al mondo.

Vorrei ora riferirmi a quattro problemi: salario, produttività, globalizzazione e sindacato, avendo come fonti non le centinaia di ricerche sociologiche o di testi teorici americani, bensì dei pezzi dai quotidiani “Washington Post” e del “New York Times” di questi giorni.

Prima di tutto il problema del salario, che a noi operaisti ha dato da pensare, ha entusiasmato e fatto soffrire. Dice Krugman, un economista: “Oggi c’è la guerra contro il salario. Noi dovremmo gioire perché il Dow Jones ha avuto un record. È andata così perché gli imprenditori hanno fatto con successo una guerra contro i salari. I profitti sono più che raddoppiati perché la produttività è aumentata e i salari no. Il salario minimo è lo stesso del ’97; il valore del salario, tenuto conto dell’inflazione, è al più basso valore dal 1955”. Per chi non lo ricorda, era l’epoca del presidente Eisenhower. Durante gli anni Cinquanta e Sessanta il salario minimo era circa il 50% della media salario. Oggi è il 31%. Non possiamo fare un confronto con l’Italia, perché qua ci sono i contratti nazionali che in America non sono ammessi. Continua Krugman: “In risposta al discorso del presidente Bush il senatore Webb ha dichiarato che il reddito dei manager, che quarant’anni fa era di quaranta volte maggiore di quello operaio, oggi è cresciuto di quattrocento volte. E un tale osceno risultato non si deve alla mano invisibile di Adam Smith, ma al governo conservatore”.

Passo alla produttività. Dice Bob Elvert: “Una volta c’era un forte legame tra produttività e salario. Fra il 2000 e il 2006 la produttività è aumentata del 18%, i salari dell’1%. È un mistero perché gli operai non si scandalizzino e non si mettano a lottare. In sei anni 93 milioni di operai hanno guadagnato 11 miliardi di dollari. Meno della metà di quanto hanno preso in un anno in bonus aziendali cinque famose società di Wall Street”.

Passando alla questione del sindacato dal 1935, che è l’epoca su cui Tronti scrive “Marx a Detroit”: “Gli operai americani iscritti al sindacato si consideravano protetti dalla legge che vieta ai datori di lavoro il licenziamento per ragioni sindacali. La legge ha funzionato per molto tempo e i sindacati si sono potuti diffondere. Nel ’70 è cominciato un attacco, e nell’80 il licenziamento per chi è iscritto al sindacato ha riguardato un operaio su tre. Oggi che la svolta a destra è avvenuta, i politici stanno intervenendo per togliere ancora più spazio ai sindacati. Gli iscritti sono complessivamente il 12%, ovvero un terzo degli anni Sessanta e il 20% in meno dell’83, quando imperava Reagan. Gli iscritti nell’industria privata sono oggi il 7%. La differenza di reddito tra i sindacalizzati e non è di duecento dollari alla settimana; ciò significa che chi è riuscito a far entrare il sindacato in fabbrica guadagna duecento dollari in più. Gli stati più sindacalizzati sono New York e la California, il meno è il Texas”. In questo quadro c’è quello che Tronti giustamente esaltava: lo spontaneismo americano, l’iniziativa sul campo delle lotte negli Stati Uniti.

Oggi abbiamo l’esempio di un nuovo sindacato creato da Sara Horowitz a New York e che riguarda niente meno di quelli che noi chiamiamo i precari. Dice Sara Horowitz: “La nostra esperienza va avanti perché noi abbiamo convinto gli iscritti a versare una quota di modo che sia possibile far fronte alle spese sanitarie, funerarie e di altro tipo. Il movimento sindacale è passato dalla società del mutuo soccorso ai sindacati professionali fino al sindacalismo professionale. Noi vogliamo fare una forma nuova di sindacato”. Ma a me pare che loro vogliano fare una vecchia forma di società di mutuo soccorso: nel 2006 quello che si considera all’avanguardia in America, è un sindacato che la realtà europea ha sperimentato molto tempo fa.

Tronti dava nel “Poscritto” una parola d’ordine che all’epoca sembrava assolutamente incomprensibile, da lui poi successivamente spiegata in un libro molto contestato, Sull’autonomia del politico. La proposta di Tronti nel 1970 è autonomia della politica dalle lotte operaie. Perché il problema è che “il loro nesso storico – il rapporto lotte-socialdemocrazia – è la premessa storica di una sconfitta sul campo degli operai”. Sconfitta che non riguarda tanto la conquista di un nuovo contratto di lavoro, che sappiamo negli anni Sessanta e Settanta in Italia fece grandi passi avanti, ma riguardava una sconfitta politica perché riportava l’operaio ad una concezione socialdemocratica del suo ruolo nella società. Infatti: “Gli operai hanno vinto la battaglia contrattuale e proprio per questo possono perdere la guerra della lotta di classe su un periodo storico talvolta lungo. L’America, appunto, insegna”. Contro questa visione Tronti aveva un nome, una prospettiva anch’essa provocatoria, tanto quanto l’esaltazione degli undici anni del New Deal. Il nome era quello di Lenin: “Il suo partito non era l’anti-stato; anche prima della presa del potere era l’unico vero stato della vera società”.

Se noi capiamo l’indicazione di Lenin nella nuova politica economica nella Russia del ’21, cioè aprire al capitale perché esso consente il salto in un’economia post-feudale, in tutte le sue contraddizioni, compreso lo sfruttamento della classe operaia, giacché Marx ci ha insegnato che gli operai sono parte del capitale, allora aprire al capitale significa andare oltre lo sfruttamento operaio del capitale che passa anche per lo sfruttamento della forza lavoro dentro il capitale. Io guarderei allora a Marx e a Lenin a Shangai tenendo però presente la Nep di Lenin, che Tronti ha molto utilizzato nel suo pensiero.

 

* Relazione di Rita di Leo al convegno “Rileggere ‘Operai e capitale’”, Roma 31 gennaio 2007.