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Immobilizzare il PD per poterlo meglio colpire

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di COMMONWARE

Il voto non è quasi mai espressione pura della composizione sociale, non lo era neanche in epoche in cui la rappresentanza sembrava riflettere le classi intese in senso sociologico. Il riformismo operaio si esprimeva nel voto al PCI, ma quanti operai votavano “bianco”? In fondo, di cosa votassero ci è sempre importato relativamente.

Nei primi anni Sessanta i nuovi operai venuti dal Mezzogiorno, alle elezioni sindacali votavano “giallo”, prendevano la tessera della Cisl o della Uil, gli stessi che nel 1962 la Uil la assaltarono guadagnandosi dal PCI la patente di provocatori. Non sappiamo cosa votino i lavoratori delle raffinerie e dei trasporti francesi, né i risparmiatori italiani truffati dal decreto salva-banche, anche se sappiamo contro chi hanno votato a questo giro. Non è qui che dobbiamo ripetere che la riduzione dei proletari a corpo elettorale ha rappresentato una strategia di neutralizzazione della lotta di classe. Dobbiamo piuttosto ricordare che gli operai sapevano usare all’occorrenza il voto per i propri scopi e che il rapporto tra classe e rappresentanza non è mai stato un gioco tra manipolatori e manipolati. È con queste premesse che abbiamo guardato alle elezioni amministrative e ai ballottaggi nelle principali città italiane.

1. Un partito di “classe” in Italia esiste e si chiama PD. Il partito renziano ha sciolto ogni residua ambiguità che l’ex PCI si trascinava dietro. Oggi è qualcosa più che una forza interclassista dal programma neoliberale, è l’espressione diretta degli interessi e del gruppo di potere del capitalismo italiano. Diradati i fumi della rottamazione, si vedono meglio i committenti: banche, fondazioni, gestori di reti pubblico-private trasformate in società per azioni, società energetiche, sviluppatori immobiliari, secondo le varianti locali grandi cooperative, manager di imprese globali, industriali “medi”. Al loro fianco i gruppi editoriali, i baronati universitari e la corte di agenti del consenso che ogni “sistema” necessariamente ingaggia. Qualunquismo? Sarebbe bastato farsi un giro, prima del voto, in una qualsiasi delle sedi citate: difficilmente il PD troverebbe altrove sostenitori più militanti. Nelle città il PD è, da vent’anni il promotore di partnership per la crescita urbana, “bonifiche” dei quartieri “degradati”, folklorizzazione turistica dei centri, attrazione di investimenti e talenti, grandi eventi e grandi opere. Strategia che ha il consenso delle classi medie meno colpite dalla crisi, delle alte professioni e di parte dei giovani con alta scolarità che ci vedono possibili canali di valorizzazione. Gruppi eterogenei, ma “classe” è concetto prima politico che sociologico: il blocco che si riconosce nel PD, si basa sull’alleanza tra élite, frazioni affluenti dei ceti medi, settori socio-professionali che si percepiscono come leading class in formazione. Oltre questo agglomerato, i “pagamenti collaterali” (gli ottanta euro, il regime forfettario per le partite Iva, incentivi per l’innovazione) per tenere agganciati di volta in volta salariati, precari e lavoro autonomo a basso reddito. Simbolicamente a Torino Fassino ha chiuso la campagna inaugurando una specie di autostrada urbana, chiamato a raccolta nell’impresa culturale “di eccellenza” (la scuola Holden di Baricco, già sponsor di Renzi come Oscar Farinetti, altro guru della città always on the move), rinnovato l’impegno per il Tav e promesso un nuovo Centro Congressi.

2. Da un’altra prospettiva, innovazione urbana significa trasferimento di ricchezza verso l’alto e più disuguaglianze: il PD diviene qui partito degli sfratti, dei trasporti pubblici dimezzati, delle tariffe e tributi aumentati, della desertificazione delle periferie. Un’idrovora di redditi, risparmi, beni collettivi. Chi è andato a votare, questo il punto, non si è fatto ingannare dall’argomento puerile della differenza tra voto amministrativo e politico. Gli strati colpiti dalla crisi, la maggioranza impoverita, i precari, o non hanno votato (i più) o se hanno votato hanno scelto gli avversari del PD, sapendo che fare male al partito di Renzi era la priorità: il continuum tra governo urbano, Jobs Act e riforma costituzionale, tra bail in, privatizzazione dei servizi e Italicum, chi ragiona in soldoni lo coglie al volo. Intelligenza popolare, dispersa e frammentata quanto si vuole, ma non fuorviata da cervellotici tatticismi. Chi taglia salari e redditi, ti fa spendere di più per curarti (in 11 milioni nel 2015, dice il Censis, hanno rinunciato a farlo per problemi economici), ti toglie i risparmi per salvare le banche, non può non essere il nemico. La consonanza semantica e di immaginario tra amministratori locali e governanti ha consentito di individuarlo con chiarezza, il nemico, e di esercitare l’esile ma non per questo velleitario potere di destituire: per aprire contraddizioni nelle fila avverse, “guadagnare tempo”, impedirgli di accelerare e attrezzare il campo a suo vantaggio.

3. Per queste ragioni, la sconfitta del PD, a Napoli dove non ha neanche giocato, a Roma dove era prevista (ma non di queste proporzioni), a Torino dove era inattesa e per questo si è caricata di valenze eccedenti il dato locale, ci dice qualcosa di importante. Voto contro o di cambiamento è tema che non può appassionare chi sa che essere contro è passaggio di qualsiasi costruzione politica; per costituirsi in parte, occorre individuare l’altra, il nemico appunto. I candidati sindaci sostenuti dal partito di governo nelle grandi città (tranne a Trieste) hanno vinto, comunque di misura o al fotofinish, quando avevano di fronte il centro-destra. Quando è andata cioè in scena la rappresentazione che per venti anni ha definito i confini della rappresentanza politica. Nel confronto tra le due “destre” della seconda repubblica, la destra tecnocratica (di cui il PDS-DS-PD era azionista di riferimento) ha sempre contato, grazie al sempiterno richiamo “fermiamo le destre”, sul puntello degli elettori di sinistra, condannati senza speranza ad un ruolo subalterno. Anche oggi, forse, senza il soccorso “arancione” o “civico”, il PD non avrebbe vinto il ballottaggio di Milano e nella stessa Bologna avrebbe trovato difficoltà. Per questo il Pd ha bisogno del gemello “di destra” in cui rispecchiarsi. Il bipolarismo è un minuetto, questo era il Patto del Nazareno, questa l’incauta scommessa dell’Italicum.

4. Il PD viceversa ha perso dove la contrapposizione “ideologica” (cioè, tra “idee”, nella sostanziale convergenza dei famosi “programmi”) che scomponeva l’elettorato in due blocchi interclassisti con baricentro nelle classi medie (una di “mercato” ma protezionista, l’altra a ridosso del pubblico e delle professioni intellettuali ma “liberista”), ha lasciato spazio ad una che, con tutte le semplificazioni del caso, sembra ricomporre blocchi in cui le fratture sociali, anche se non si presentano in forma pura, contano più del conflitto simbolico. Per banalizzare, tra chi sta in alto e chi sta in basso, o se si vuole tra dominanti e subalterni. Il voto che ha sanzionato, spedendoli a casa, i candidati PD a Napoli e Roma (al di là delle differenze di offerta politica, il voto al M5S e a De Magistris hanno la stessa chimica) e in maniera più evidente a Torino, è stato stilizzato come voto delle “periferie”. È scritto nelle grandi testate, non c’è bisogno di scoprirlo qui, la stampa di regime non sempre ha bisogno di mentire. Nel sostanziale sdoganamento delle nuove amministrazioni M5S si scorge, oltre che l’astuzia di chi è certo che a Rodi non vi sarà alcun salto ma una goffa caduta, l’esortazione ad assumere fino in fondo un ruolo istituzionale, di accompagnamento del “rancore sociale” con cui né il centro-destra, né il PD sanno interloquire (essendone i primi artefici, sarebbe difficile).

5. La geografia urbana del voto è eloquente: fulminante l’istantanea romana del primo turno, con la macchia rossa del Centro e dei Parioli circondata da una marea gialla. A Torino Fassino vince nel Centro-Crocetta, in collina e pre-collina, a San Salvario, Vanchiglia e Cit Turin (insomma, la città dell’alta borghesia, della middle class affluente, della gentrification creativa); perde in tutto il resto della città e nell’ampia periferia Nord – le aree più popolari come Vallette, Barriera di Milano, Vittoria, Falchera – Appendino prende il 65% dei voti. È tuttavia una mappa, quella emergente dai commenti anche di sinistra – che a Torino non mancano mai di citare i 100.000 poveri censiti dalla Caritas – troppo impolitica. Anche se contro Fassino e per il M5S hanno votato persone di ogni ceto, il segno politico-sociale è inequivocabile: è stato il voto degli impoveriti, di chi ha cessato di sentirsi ceto medio, degli operai industriali e dei servizi urbani, dello strato inferiore e/o precarizzato del lavoro cognitivo. Lo stesso mondo da cui provengono i consiglieri eletti, come traspare dal loro curriculum. Sono diplomati tecnici (periti industriali o commerciali), educatori, operatori sociali, artisti precari, impiegati, partite Iva, insegnanti di scuole primarie e secondarie, studenti fuori corso. I politologi dicono che è la lista più votata da operai, giovani e classi anagrafiche centrali, lavoratori autonomi, disoccupati, professionisti. Senza voler spiegare troppo con questa descrizione, il M5S raccoglie oggi, in forma ambigua, il consenso di una composizione sociale priva di riferimenti politici, ma che esprime in questo modo la sua rabbia. Intendiamo dire, non da oggi, che se c’è una prateria secca che potrebbe incendiarsi, è in questa composizione che va cercata. E se anziché fermarci al cursus honorum dei candidati guardassimo ai processi di cui sono più o meno consapevoli interpreti, scopriremmo che sono le stesse dinamiche che fanno vincere De Magistris a Napoli. Spingendoci oltre, diciamo che anche nel voto alla Lega si trova parte di questo humus (a scanso di equivoci, tra gli animatori di questo sito vi sono militanti fieri di aver reso inagibile a Salvini le città italiane), anche se la Lega è stata ridimensionata dal voto.

6. Volutamente non enfatizziamo l’astensione; ad ogni giro il numero dei votanti si assottiglia: al ballottaggio, in media, uno su due, a Napoli uno su tre. Disertare le urne fa parte della nostra storia, ma non saremmo noi a scambiare il non voto per una premessa della lotta. Il dato misura la profondità del fossato tra nuovi proletari e “società politica”, ed è un gap che le élite non sono interessate a colmare. Includere il proletariato nella rappresentanza politica per disinnescarne il potenziale sovversivo era necessario nel Novecento, lo stesso bersaglio è perseguito oggi con altri mezzi. Disertare le urne o votare contro sono scelte eticamente equivalenti; tuttavia non esiste oggi, in Italia, un movimento di classe in grado di affermare l’alternativa lotte-rappresentanza e come noto non c’è, in una società nemica, “la libera scelta dei mezzi per combatterla”. Le nostre armi sono spuntate, il compito è affilarle, ma nel frattempo nella percezione di molti l’arsenale non sembra offrire molto più che l’uso tattico e sanzionatorio del voto.

7. Non abbiamo voluto soffermarci sul voto “a sinistra”; come abbiamo già detto il reiterarsi della farsa ha reso sbiadito il ricordo della tragedia. Non vediamo le ragioni per le quali un precario, un educatore a cui hanno tagliato l’orario, un traduttore pagato un euro a cartella, debba riconoscesi in liste regolarmente ignorate dagli elettori (nonostante i volitivi “questa volta sarà diverso”), se non forse in quartierini, piuttosto separati, dove si coltiva la propria diversità sociale tra coworking, aperitivi a km zero e sciami di biciclette. L’Isola, San Salvario, il Pigneto, il Pratello o Santo Stefano sono i luoghi di questa sinistra, lo diciamo senza acredine verso le forme sociali che li animano. Il problema non sono loro, sono quanti si ostinano a volerci leggere lo storytelling della trasformazione. Fassina, Airaudo, Basilio Rizzo si uniscono alla schiera di aspiranti leader condannati all’oblio (qualcuno si ricorda più di Ingroia?).

8. Qualcosa, però, nell’elettorato di sinistra se non nei suoi ceti politici sembra essersi rotto. Inguaribilmente servili laddove il PD se la giocava contro berlusconiani e leghisti, molti elettori, ma anche intellettuali di area, hanno sdoganato a Torino e Roma il voto per le candidate M5S, che hanno ricevuto endorsement forse inattesi. Lo leggiamo sui social, nei commenti, nelle dichiarazioni personali, anche di chi che fino a due anni fa poneva in guardia contro il nuovo pericolo fascista, la Casaleggio Associati (un’impresa di software scambiata per la Spectre di bondiana memoria), o rintracciava nei meet up gli immancabili “inquietanti” paralleli con i fasci di combattimento o la versione digitale delle S.A. Con nonchalance, hanno cambiato idea.

9. Diversi di noi avevano guardato con interesse all’ascesa del M5S, cogliendone ambiguità e ambivalenze, l’essere ad un tempo espressione di riformismo interclassista e vettore di un radicalismo che intercettava gli strati sociali più colpiti dalla crisi. Non ci interessava speculare sulla posizione del M5S sull’asse destra-sinistra, perché porsi all’esterno di quell’asse consentiva di aprire contraddizioni ad un livello più alto; ancor meno ci interessavano Grillo e Casaleggio, c’è sempre stato un pope o un comico ad alzare una bandiera per ritrovarsi, come nel film di Chaplin, alla guida di un popolo, nelle fasi in cui la classe (come espressione politica) è altrove; e la classe è sempre altrove, non dove si vorrebbe trovarla (poiché non è la proiezione dei desideri della gente di sinistra). Ci prendemmo un bel po’ di insulti, ma pensiamo che fosse la postura metodologica necessaria. Il paradosso è che il parziale sdoganamento a sinistra avviene quando i buoi sono usciti dalla stalla e il M5S ha compiuto parecchia strada sulla via della normalizzazione, selezionato un gruppo dirigente più Ciudadanos che Podemos (per citare due riferimenti impropri, ma esplicativi), si presenta in forma più rassicurante per quello che effettivamente è, un movimento neo-riformista ben radicato nella dimensione popolare, ma anche prigioniero di dilemmi irrisolti. Anziché tentare di dare, quando forse era possibile, una curvatura di classe a questo proficuo caos, per la sinistra c’erano allora brand da consumare, Rodotà e l’Altra Europa di Tsipras.

10. Rimane comunque, il M5S, il veicolo dell’insoddisfazione e della rabbia degli strati impoveriti e neoproletari urbani. Non sappiamo per quanto. Se vediamo bene tra la proposta di Roma, costruita dal Direttorio, e quella di Torino, ci sono le stesse differenze qualitative che attraversano l’intero movimento. La piazza festante sotto il Municipio torinese, ancora incredula nel vedere spazzato il “sistema Torino”, alternava i cori “O-ne-stà” e “la pappatoia è finita”, con “giù le mani dalla Valsusa”. La vittoria elettorale è figlia anche delle barricate No Tav e delle giornate del dicembre 2013 (la rivolta #9D) in cui le periferie si ripresero per giorni la città. Francamente poco ci interessa di cosa riuscirà a fare il M5S a Roma e Torino – presumibilmente poco, se i sistemi di potere sono meccanismi incardinati negli apparati tecnici delle macchine amministrative e della governance urbana. Il problema è se la contraddizione resterà aperta, se il potenziale sanzionatorio che ha colpito il PD saprà salire di livello, per colpire il bersaglio grosso, il governo Renzi. Cosa verrà dopo, dipenderà anche dal segno e dall’intensità di questo processo. Per citare, mutatis mutandis, un fondamentale testo sovversivo del Novecento che nel 2016 ha compiuto cinquant’anni, “nessun operaio che lotta contro il padrone vi chiede: e dopo? La lotta contro il padrone è tutto”. L’occasione ce la offre il referendum sulla riforma costituzionale. La portata dello scontro è evidente. Si tratta di attivare e abitare, con intelligenza tattica e attenzione a ciò che una volta si chiamava “livello di massa”, una mobilitazione adeguata. Se ci rifugiamo nella difesa della costituzione, avremo già perso. Se sapremo trasformare il referendum in un grande “No” sociale al governo Renzi, ce la giocheremo; per citare lo stesso libro, “ricominciare a camminare vuol dire immobilizzare l’avversario per poterlo meglio colpire”. Niente di più, ma anche niente di meno.