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Quali sono le ultime dal fronte del debito cinese?

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Articolo di Gabriele Battaglia sul vorticoso aumento del debito cinese

Secondo il Financial Times, ha raggiunto un livello record del 237 per cento sul Pil, per una cifra di 163mila miliardi di Renminbi (25mila miliardi di dollari), stima coerente con quella della Bank of International Settlements (BIF), che dice 249 per cento. La ratio è comparabile con quelle della zona euro (270 per cento) e degli Stati Uniti (248 per cento), ma del tutto spropositata rispetto agli altri Paesi emergenti. Ciò che più inquieta è però la velocità con cui è cresciuto il debito cinese: era solo il 148 per cento del Pil nel 2007.

È parere diffuso che l’impennata sia da ricondurre al più grande stimolo economico mai lanciato nella storia del mondo, quei 4mila miliardi di Rmb (586 miliardi di dollari al cambio di allora) che la leadership cinese, spaventata dalla crisi economica globale, gettò nell’economia del Paese nel 2009. Andò soprattutto in infrastrutture e opere pubbliche. Oggi – si dice – quelle scelte presentano il conto.

I governi locali si indebitano per creare infrastrutture, servizi, lavoro, così come le grandi imprese di Stato che producono cemento e acciaio in eccesso; le banche di Stato concedono loro prestiti e svuotano i propri forzieri; la People’s Bank of China, cioè il governo, continua a gettare liquidità nel pozzo senza fondo.

«Tutti i maggiori Paesi che hanno vissuto un rapido aumento del debito, hanno poi subito una crisi finanziaria o un rallentamento prolungato della crescita», dice il FT citando Ha Jiming, di Goldman Sachs. Ipotesi «Lehman Brothers», la prima; ipotesi «giapponese», la seconda.

E se tutti gli economisti internazionali sono più o meno concordi nel dire che la Cina deve porre un freno alla crescita del proprio debito, lo spettro si divide tra chi sostiene sia ormai troppo tardi e chi invece ritiene ci sia ampio margine di manovra.

Un parere parzialmente ottimista è per esempio quello di Yukon Huang, ex direttore della Banca Mondiale per la Cina, secondo cui l’ex Celeste impero «semplicemente non si adatta a quel modello [economie occidentali e/o Giappone, ndr]. Possiede una forte bilancia dei pagamenti, deficit fiscali modesti e tassi di risparmio delle famiglie elevati. Inoltre, le dinamiche di una crisi del debito sono diverse tra i sistemi finanziari in gran parte privati e la Cina, dove la maggior parte dei debitori sono entità statali che si indebitano direttamente o indirettamente con banche di proprietà sempre statale», dice al sito chinafile.com.

«Tuttavia – aggiunge – il peso del debito è aumentato oltre il livello d’allarme e se non verrà stabilizzato entro i prossimi anni, aggraverà le pressioni finanziarie e smorzerà le prospettive di crescita a lungo termine. Inoltre, sono preoccupanti i ripetuti fallimenti delle autorità nell’adottare misure più decise, anche se le previsioni di una crisi imminente sono esagerati».

Come osserva Michael Pettis, professore della Guanghua School of Management dell’Università di Pechino, l’aumento del debito provoca «costi da dissesto finanziario» sui debitori, che determinano una crescita ridotta molto prima del default vero e proprio. Sono costi legati a un sentimento di sfiducia: «I costi da dissesto includono una maggiore tasso di abbandono del lavoro, dato che i dipendenti migrano verso società finanziariamente più forti; costi di finanziamento più elevati per compensare il maggiore rischio di default; richieste di pagamento immediato da parte di fornitori nervosi; e la perdita di clienti preoccupati che una società non possa sopravvivere e quindi fornire tutti i servizi post-vendita», riporta il FT. Inoltre, messe sotto pressione le imprese stesse si concentrano sulla restituzione del debito più che sugli investimenti, la ricerca, l’innovazione.

È un debito che aumenta soprattutto a livello societario. Ma in gran parte, si concentra nel ristretto sottoinsieme delle imprese immobiliari e delle costruzioni, nei settori delle materie prime e dell’energia, dell’acciaio e del cemento. I casi più eclatanti sono le grandi compagnie di Stato che, spesso, necessitano di consolidamenti e fusioni. Lasciarle fallire significherebbe infatti provocare problemi sociali, cioè destabilizzare la società cinese. Un bel grattacapo per un Partito che ha scommesso tutto sulla xiaokang shehui, «società del benessere moderato».

Così, grazie alle sue enormi riserve Pechino inonda il sistema bancario di denaro contante di modo che i prestiti vengano continuamente riconcessi. Ricapitalizzazione del sistema finanziario, il solito metodo.

Per esempio, la battaglia contro il debito inesigibile (bad debt) è stata recentemente rilanciata con un programma prestiti-per-bond: le banche offrono crediti a breve termine alle imprese legate ai governi locali in cambio di obbligazioni con scadenze più lunghe. Il budget complessivo a disposizione era di 120 miliardi di dollari a inizio marzo, divenuti 220 miliardi a fine aprile: 100 miliardi di differenza nel giro di due mesi, numeri che fanno pensare a un vero e proprio mini-stimolo. Un altro programma da 152 miliardi di dollari prevede invece uno swap tra debito e obbligazioni: le banche sono tenute a cancellare i crediti inesigibili in cambio di partecipazioni in aziende traballanti. Lo riporta Caixin, una delle più autorevoli testate economiche cinesi. I media scrivono anche che per il 2016 è stato approvato un budget da 4mila miliardi di Rmb per programmi del genere.

Se i governi locali e tutto l’indotto traggono un respiro di sollievo, gli swap piacciono molto meno agli analisti, secondo cui costringere le banche a diventare azioniste di imprese «zombie» (jiangshi qiye), incapaci di fare profitti e di restituire il debito, non è esattamente il modo migliore di rafforzare il sistema del credito.

Questo dibattito trova un’eco all’interno del potere cinese dove diventa lotta politica. Diversi osservatori ritengono ci sia in corso un conflitto sommerso tra il presidente Xi Jinping e il premier Li Keqiang, il numero uno e il numero due. L’attuale Commissione permanente del Politburo, la stanza dei bottoni, è composta da sette membri: sei fanno parte della fazione dei «principini» (Taizidang), cioè gli eredi della «nobiltà rossa» dei tempi di Mao. Tra questi, c’è anche lui, il presidente Xi. Uno solo dei leader viene dalla fazione della Lega della Gioventù Comunista (Tuanpai), cioè il premier Li, che nella sua carica è responsabile dell’economia cinese.

Ebbene, dato che i mini-pacchetti di stimolo promossi da Li non avrebbero finora ottenuto risultati e, anzi, avrebbero procrastinato i problemi strutturali che genera l’impennata del debito, Xi Jinping avrebbe parzialmente esautorato il premier e preso in prima persona il controllo dell’economia. Attraverso la creazione di «gruppi centralizzati» posti al di sopra di ministeri e agenzie governative e guidati da lui stesso, sembra che Xi Jinping stia assumendo un ruolo sempre più marcato nel dettare l’agenda economica oltre a quella politica.

I media cinesi sono pieni, ultimamente, di richiami alle «riforme sul lato dell’offerta» (supply-side reforms) invocate da Xi, che curiosamente riprende un termine coniato da Ronald Reagan. Ai tempi dell’imposizione della dottrina neoliberista negli Usa, si intendeva soprattutto il taglio delle tasse e lo smantellamento dei diritti sul lavoro; nella Cina odierna, non si è ancora ben capito dove si vada a parare, a parte un generico richiamo a una maggiore efficienza.

[Su queste riforme va per altro senz’altro letto il paper del già citato Pettis Will China’s new “supply-side” reforms help China?].