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À bas l’état, les flics et les patrons!

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Articolo di inchiesta militante di Matteo Priorelli dentro il movimento francese

0. Da quasi tre mesi ormai tutta la Francia è infiammata da manifestazioni contro la Loi Travail che si susseguono di settimana in settimana, e seppure sembrasse che si stessero affievolendo, dal primo maggio in poi sono ripartite e sono continuate a proliferare, espandendosi nei blocchi di pochi giorni fa a raffinerie, porti, depositi di carburante e centrali nucleari.

Ma perché da una petizione partita su internet le mobilitazioni sono passate quasi immediatamente dal piano virtuale a quello reale? Cosa ha spinto milioni di persone a opporsi a questa legge sul lavoro? Non è sufficiente come risposta affermare in modo deterministico che sono scoppiate come fossero una reazione naturale alla legge, e si limitassero di conseguenza solo alla sua abolizione. Ma non basta nemmeno dire che sono scoppiate spontaneamente da un giorno all’altro senza alcun motivo, anche se così può sembrare dalla loro forma esplosiva, caratteristica peculiare della storia francese; se ci si ferma solo all’apparenza si viene tratti facilmente in inganno.

Nessuna protesta nasce mai dal nulla, ma dipende sempre da condizioni storicamente determinate, di cui le proteste sono solo il culmine. Infatti la proposta della legge è avvenuta in un particolare contesto di continua precarizzazione del lavoro e smantellamento del welfare (forse l’unico rimasto in tutta Europa) e, proprio per questo, di accumulazione e sedimentazione di odio contro la politica istituzionale. Non si riparte mai dal centro: ogni mobilitazione, per quanto piccola che sia, è un passo avanti, lascia sempre un solco nelle soggettività, che difficilmente scompare, ma anzi si accumula col tempo.

Semmai queste proteste sono quindi da vedere come la goccia che ha fatto traboccare il vaso di un sistema marcio fin dalle fondamenta, e si può comprendere facilmente dal fatto che queste vengono viste solo come un pretesto; ma non in senso negativo, per usare la solita connotazione dei media del black bloc che va dove si può far casino, ma in senso interamente positivo, come un casus belli, come per dire “ecco, finalmente una buona scusa per fargliela pagare di tutto quello che ci hanno fatto passare in questi anni!”.

Le manifestazioni francesi, pur con tutte le ambivalenze, sono anzitutto proprio questo: una ventata di aria fresca in un paese che nell’ultimo anno stava respirando solamente fumo tossico; e non il fumo dei proiettili contro Charlie Hebdo, né delle bombe del Bataclan, ma quello dello stato d’emergenza imposto subito dopo, che aveva immobilizzato la società obbligandola a spostare il discorso sul pericoloso attacco alla civiltà occidentale, rendendo impossibile criticare chi sta realmente sfruttando la popolazione qui e ora; perché, si sa, quando c’è una catastrofe bisogna lasciar da parte i fastidiosi lamenti di un bambino viziato e unirsi tutti insieme per tornare alla normalità. Ed è tuttavia la normalità il vero nemico da combattere, normalità di uno sfruttamento troppo reale per essere sopportato.

1. Non è nostra intenzione soffermarci troppo su cosa è Nuit Debout e su quali sono i suoi limiti. Quello che ci interessa qui è cercare di capire chi sono i diversi soggetti che animano la piazza, cosa pensavano prima che iniziassero le manifestazioni e cosa pensano ora man mano che le proteste vanno avanti: capire insomma che peso hanno avuto queste mobilitazioni nelle singole soggettività, e che processo di controsoggettivazione le ha modificate e continua a modificarle.

Ammettiamo francamente che ora come ora non conosciamo per nulla i nuovi soggetti in campo, né i loro bisogni né i desideri, che sono completamente diversi da quelli di venti anni fa: la soggettività non è un oggetto statico, che basta studiare una volta e il gioco è fatto, ma è in continua trasformazione, e se non partiamo da questo presupposto perdiamo inevitabilmente la possibilità di anticipare i processi di produzione di soggettività del capitale e di piegarli a nostro vantaggio.

Queste manifestazioni hanno avuto la capacità di coinvolgere non solo i classici ambienti militanti, ma già fin dall’inizio si sono allargate per coinvolgere studenti, precari, disoccupati, intermittenti dello spettacolo, anche coloro che non avevano mai manifestato in vita loro.

Più che ai militanti già formati è quindi importante anche dar voce a quelle centinaia di migliaia di persone che non avevano mai tirato un sasso alla polizia o spaccato la vetrina di una banca, per capire qual è stata la trasformazione nel loro modo di pensare. Se si rimane nei propri luoghi di riferimento si rischia troppo facilmente di interpretare la realtà con vecchie categorie e rimanere intrappolati nella marginalità politica.

Per approfondire la questione e comprendere quali fossero le motivazioni e gli stati d'animo che muovevano il popolo francese, abbiamo voluto guardare con I nostri occhi le mobilitazioni parigine e ascoltare le tante voci che le percorrevano recandoci a Parigi dal 26 al 30 aprile, nei giorni a cavallo della manifestazione generale del 28 contro la Loi Travail.

2. La prima tappa è l’Odeon, uno dei teatri centrali di Parigi occupato da pochi giorni in segno di protesta. Qui abbiamo modo di parlare con un intermittente dello spettacolo che ci racconta la situazione.

“Beh, sono 3 giorni che ci sono una 50ina di persone tra intermittenti, artisti, tecnici dello spettacolo, disoccupati e studenti che sono riusciti a entrare nel teatro, e sono 2 notti (questa sarà la terza) che dormono qui. Effettivamente il movimento Nuit Debout ha cominciato a diramarsi in città e anche in Francia. Cominciano a occupare i teatri, c'è una convergenza di lotte (tutti si uniscono, dunque è per questo che attaccano gli artisti). Lo scopo ieri era quello di fare un’assemblea generale non a République ma qui, dentro il teatro, ma i CRS ce lo hanno impedito. Noi siamo stati pacifici, non abbiamo fatto niente di male, abbiamo solo spinto un po’ le barriere e immediatamente ci hanno picchiato e ci hanno gasato. È nuovo il presidio qui, così come si sta creando un nuovo presidio alla Comédie Française che hanno occupato da ieri, e così come al Theatre National de Strasburg. È sostanzialmente nuova l’occupazione di teatri. In più sono iniziative autonome, nessun sindacato, nessun partito. Qui è esattamente come a Place de la République. Ci sono molte persone che vanno lì, ma il flusso di persone si sposta, cambia di luogo. Ci sono degli appelli durante la giornata per discutere di diverse cose e ognuno chiede sostegno. L'obiettivo è di occupare il maggior numero di spazi pubblici. La situazione è logorante, noi fatichiamo, fatichiamo e fatichiamo e c'è gente che poi se ne va, ma secondo me il punto è proprio questo, non andarsene, ma restare, perché più si è in questi posti più lo Stato ha paura. Più loro saranno male organizzati, più noi saremo uniti e organizzati. La risposta popolare è globale, è molto globale. Ciò che ha dato inizio al movimento è stata la lotta contro la Loi Travail, ma poi andando avanti si è visto che non si tratta solo di questo ma di un malessere generale e diffuso, che la gente ha bisogno di esprimere, perché bisogna farlo, perché qui niente va come deve andare e ci siamo stufati.”

3. Proprio questo malessere generale, il fatto che sono tutti stufi di essere presi in giro in questo modo, è il punto fondamentale che più spesso ricorre nelle parole delle persone con cui parliamo. E infatti le proteste non si limitano solo al ritiro della legge, come auspicano i sindacati; molti giovani non conoscono i contenuti della Loi Travail, e nemmeno parlano di politica al bar, perché la politica per loro è cosa da padroni; si sono semplicemente stufati di vivere una “vita di merda” a causa di un 1% che pensa solo alla propria pancia.

Arrivati a Place de la République chiediamo a un ragazzo cosa ne pensa della politica francese: “Le persone che sono presenti qua” – risponde – “per lo più non credono più né nella sinistra né nella destra. Noi abbiamo un governo di sinistra, i socialisti, Hollande è socialista. Su alcuni aspetti, è peggio di Sarkozy, non su tutto. Non c'è proprio una differenza. Io non credo per niente nel sistema elettivo attuale. Per me non si può rappresentare qualcuno, anche se qualcuno ha delle idee geniali non potrà mai applicarle. Sì è vero, c'è il sistema elettorale, ed il sistema in generale. Come funziona? C'è qualcuno che è eletto ogni 5 anni, altre persone elette all’Assemblea Nazionale ogni 5 anni, dei sindaci, e non hanno nessun conto da rendere. Sono eletti e fanno ciò che vogliono, e questo è un vero e proprio problema. I cittadini non prendono decisioni. Votano per qualcuno. Ogni tanto alcuni votano per un programma e non per la persona, ma non vuol dire niente poiché non viene applicato. Infatti il nostro voto non serve proprio a niente.”

“Quello che penso” – ci racconta un altro ragazzo – “è che le persone sono qui perché sono anni che ci prendono tutti per degli stupidi. Sì, il presidente diceva ‘faremo questo, faremo quello’ ma lo faceva solo per essere eletto, ma alla fine non fa niente, fa solo la sua vita come tutti i presidenti. È così ormai la politica, la gente è semplicemente stanca di farsi prendere in giro. La Loi Travail è ciò che ha innescato la mobilitazione, ma se prima non avessero fatto tutta quella merda oggi non saremo qui. La gente non ce la fa più, la gente è stanca. Qui proviamo a fare qualcosa di diverso, cerchiamo di dimostrare che ci sono effettivamente delle soluzioni e che la gente è solidale. Non possiamo fare altrimenti.”

“A me non piace com’è la politica ora” – ci spiega una ragazza – “Servono altre idee, perché potremmo cambiare la democrazia, ma non vogliamo una monarchia, ecc. Ci vogliono altre idee, forse qualcosa di nuovo che non conosciamo ora. Stiamo provando a cambiarla tutti. E insieme. Cambiando le nostre vite personali potremmo far cambiare qualcosa. Se noi non facciamo niente, non funzionerà. Non è il peggio che abbiamo potuto avere, ma Hollande, per me, non è qualcuno di sinistra. Io non sono né di destra, né del partito socialista. No, non ci sono tanto differenze ora tra loro, è come Manuel Valls, si deve dire chiaramente, è di destra. Ma tutto si mescola. Penso che nessuno sia in accordo totale con un partito politico, con tutte le idee del partito socialista.”

Quando le chiediamo se sia difficile vivere in una città costosa come Parigi, ci risponde che “dipende dalle borse del CROUS [l’ente francese per il diritto allo studio], dipende da chi siamo. Noi siamo ancora studentesse medie, non lo sappiamo ma si vede che è difficile. Anzi con la Loi Travail sarà più difficile sia per gli artisti che per i lavoratori. Non lo sappiamo, però abbiamo paura di ciò che succederà se la legge passa, anche se non ci riguarda direttamente.”

4. Girando per Place de la République si nota subito che questo malessere generale non si trasforma per nulla in uno spirito di rassegnazione, in un elogio della sconfitta, in un godimento della propria posizione di subalternità. Seppur nessuno sappia bene dove porteranno le manifestazioni, tutti sono convinti che la forza per opporsi alla legge in questo momento c’è. Troppo facile essere ricattati quando si è soli davanti al capetto di turno, ed essere portati a pensare che quest’ultimo sia solo una mela marcia di un capitalismo in fondo umano; ma quando si scopre che le singole storie di ordinario sfruttamento, per forza di cose diverse, fanno invece parte di un sistema che di tale sfruttamento si nutre, le carte in tavola cambiano e si arriva alla convinzione che lottare è necessario e che solo insieme è veramente possibile cambiare qualcosa. Dal discutere in piazza allo spaccare la vetrina di una banca, i rapporti sociali recisi da anni di politiche di impoverimento e di declassamento si ricostruiscono.

“Ormai il movimento Nuit Debout inizia a essere ovunque in Francia” – ci raccontano due studentesse – “questo mostra che la gente è convinta per lottare. Forse se riusciamo ad abolire la legge, sarà un gran passo in avanti. La cosa difficile sarà andare avanti e rimobilitarsi dopo. Ma nello stesso tempo, la gente che è presente qua, per lo più non è qua solo contro la Loi Travail, ma anche contro il mondo che lo segue, contro il capitalismo. Il problema è ampio, ma è anche un grande vantaggio perché ci ritroviamo tutti insieme. Ci troviamo con persone totalmente diverse. Persone riformiste che vogliono cambiare solo un po’ la società dal dentro, grazie al sistema di elezione attuale, senza cambiarlo. E poi all’estremo ci sono quelli che i media chiamano i "casseurs" [I “violenti”], che vogliono lo scontro perché è il loro metodo di azione. Tra questi due ci sono un sacco di persone. Già se parliamo di riformisti, comunisti, socialisti, anarchici sono tante persone, più quelli che non hanno per forza un’opinione chiara. È complicato ma è normale. Va già bene partire da una contestazione e poi prendere posizione.”

“Oggi se non è solo per la legge, è anche per riflettere, scambiare idee, condividere, chiacchierare, siamo stufe di essere controllate, vogliamo ritrovarci, dire proprio ciò che il popolo pensa. All’inizio era contro la Loi Travail, ma oggi non è più proprio contro questa, l’ha oltrepassata. Nei cortei, soprattutto con i giovani medi e universitari, è anche tanto contro la violenza degli sbirri.”

5. Violenza degli sbirri: un altro punto che ritorna quasi sempre nei discorsi di chi sentiamo. È durante il corteo che vediamo con i nostri occhi la violenza spropositata della polizia, l’unico strumento rimasto per contrastare le mobilitazioni e spaventare i manifestanti.

“Oggi durante il corteo” – ci spiega una ragazza – “avevamo fatto appena 20 metri che gli sbirri hanno provato a chiuderci. La gente era arrabbiata, perché non andavamo avanti, era un casino, ma non ho visto quello che è successo. La violenza proviene abbastanza dalla polizia. Ma è anche che, secondo me, ci sono parecchi tipi di manifestanti, i manifestanti pacifisti, e i manifestanti che iniziano a essere violenti contro la polizia, e viene lo scontro...”

Una sua amica la interrompe subito: “In proporzione, ce ne sono pochi di manifestanti così. È la polizia che fa sempre uso della violenza.”

Chiediamo quindi se pensano che questa violenza sia giustificabile, e ci rispondono che “non ci sono mai violenze quando non c'è la polizia. Ci sono dei cortei che iniziano con calma, le persone sfilano con calma, è possibile che ci sia un gruppo che va ad affrontare gli sbirri, ed è assai scarso, la violenza c'è da quando gli sbirri intervengono. Non sono per forza gli sbirri che iniziano le violenze, ma sono loro che provocano, che si mettono di fronte al corteo e che bloccano il suo passaggio, lo fanno rallentare volutamente. Teoricamente non possono essere troppo vicini ai manifestanti, ma di recente a ogni corteo sono molto, troppo vicini a noi. Devono essere più lontani, nelle strade.”

“La violenza è fortissima, gli sbirri sono sempre incazzati. Hanno aperto la testa ad una ragazza, picchiano le ragazze, dicono ‘vi stupreremo’, delle parole scioccanti. La violenza applicata dalla polizia è dieci volte più forte di quella che può venire dagli studenti. E con lo stato d’emergenza, la polizia ha sempre più diritti e quindi creano le loro regole. Ero vicina a loro prima, gli sentivo dire ‘sì, che facciamo? facciamo questo, o facciamo questo?’. Non hanno proprio i superiori che dicono loro cosa fare. Teoricamente non hanno nemmeno diritto di entrare dentro l’università, è un luogo di rifugio per gli studenti medi e universitari, non hanno il diritto di entrare, invece hanno fatto cose che non si sono mai viste, sono entrati, hanno picchiato...”

Un altro ragazzo ci dice: “Quello che mi fa più paura è trovarmi un poliziotto davanti. Poi ne possiamo parlare per ore ma a cosa serve, ognuno fa quello che vuole e dice quello che vuole. L'altro giorno c’è stata una manifestazione e siamo stati picchiati dai CRS; se andiamo a manifestare e poi finisce così non serve a niente. Non è lo scopo della gente, veniamo per un motivo, non per farci picchiare dalla polizia.”

Incontriamo poi una ragazza italiana che studia a Parigi da diversi anni: “È da due mesi che stiamo facendo delle manifestazioni, ci sono stati un sacco di scontri con la polizia, io ho un sacco di amici che si sono presi di tutto, a un mio amico hanno rotto i denti, a un altro hanno rotto la gamba. La violenza della polizia è sempre più forte. Tutta questa repressione è giustificata con lo stato d’emergenza. La gente si abitua a questo clima che diventa sempre più normale, devi vedere tantissima polizia in giro per la strada, ci sono certi riflessi che diventano normali che prima non lo erano, come aprire la tua borsa ogni volta che vedi qualcuno, tutte queste cose sono riflessi che non avevi prima, e che ti limitano. Quello che succede a République non si era mai visto, c’è la gente in piazza e tutto intorno ci sono 300 celerini che controllano se c’è qualcosa che non è fatta come vogliono loro.”

Il giorno successivo apprendiamo del violento sgombero di Nuit Debout che al termine del corteo aveva provato a forzare la mano e occupare la piazza per tutta la notte. Un ragazzo ci racconta quello che è successo: “Verso mezzanotte è successo che ci sono stati dei problemi e ci hanno gasato, e poi la situazione si è calmata per un po’. Verso le 2.30, non so esattamente, io ero seduto da quella parte a suonare la chitarra e a un certo punto ci sono stati degli scontri e hanno cominciato a gasarci, gasarci e gasarci. Ci sono stati dei pestaggi e i CRS sono stati molto violenti e tutta la piazza era piena di gas.”

6. Di fronte all'estrema violenza della polizia, la risposta determinata del movimento non aspetta a farsi sentire. Non c’è niente di più politico nella radicalità senza mediazioni da parte dei giovani, che si esprime nel lanciare i sassi contro la CRS, spaccare le vetrine dei ristoranti di lusso o saccheggiare i supermercati, come non c’era niente di più politico nelle macchine della polizia che bruciavano a Ferguson due anni fa. La forma delle proteste riflette proprio questa situazione di asfissiante controllo e sorveglianza sulla popolazione, e proprio per questo motivo si scaglia anzitutto contro la polizia.

Ma cosa c’è di così raccapricciante nei comportamenti spontanei dei giovani liceali? Solo i democratici di sinistra e i perbenisti dell’ultima ora potevano veramente pensare che le proteste assumessero la forma di una ordinata e pacifica sfilata. O siamo forse diventati così ciechi da consigliare anche al popolo palestinese di lanciare fiori al posto dei sassi? Che tipo di sfilata potrebbe mai realizzare chi quella condizione di sfruttamento la vive quotidianamente sulla propria pelle? Molto meglio venti supermercati saccheggiati o trenta macchine bruciate, che per quanto brutti esteticamente esprimono un totale rifiuto dello stato di cose esistente; rifiuto che non conduce quasi mai a comportamenti autodistruttivi e nichilisti, ma mira a creare qualcosa di nuovo. Più che criminalizzarli, questi comportamenti spontanei vanno invece incoraggiati in modo da riprodursi e allargarsi, tutt’al più vanno organizzati per far più male a chi ci comanda. Basterebbe una semplicissima frase di uno studente a spiegare queste reazioni: “In sé, non è che non è buona. Vuol dire solo che la gente è tanto stufa.”

E non esiste nessuna distinzione tra i cosiddetti “casseurs”, I violenti, e il resto del movimento, pacifista: per quale motivo chi ha paura di mettersi alla testa del corteo automaticamente diventa contro l’uso della violenza? Come ci spiega chiaramente una ragazza: Io non faccio parte di quelli [si riferisce ai “casseurs”] ma li sostengo, perché loro non sono d’accordo e vogliono mostrare il loro disaccordo.Il problema è che le persone che sono nella manifestazione vengono gasate anche se non fanno nulla, e quindi questo crea poca coesione all'interno della manifestazione. La distinzione tra pacifisti e violenti è quello che vogliono mostrare i media, facendo pensare che ci sono dei buoni e dei cattivi. I buoni sono quelli che marciano mentre i cattivi sono quelli che creano problemi. Ed è quello che noi non vogliamo. Alcune persone pensano che sia così, soprattutto chi non ha partecipato alla manifestazione. Ma chiunque vi partecipi si accorge che non è così. Un altro grande problema è che i sindacati non sono affatto solidali, nel corteo della CGT quelli che si fanno gasare e che si scontrano con i CRS vengono respinti. Quindi di colpo c'è una barriera in più, oltre quella dei poliziotti. In questo modo fanno il loro servizio d'ordine e impediscono che tutti siano insieme e che si crei solidarietà.”

Un ragazzo che era alla testa del corteo e ha partecipato agli scontri ci dà il suo punto di vista: “Secondo me il corteo è andato bene ma servono azioni più dirette anche se meno legali. Va bene manifestare, marciare, ma camminare non è abbastanza conflittuale rispetto a ciò che succede adesso. Per me non ci sono cattivi, per me è importante che ci siano i pacifisti, perché poi aiutano le persone che non si sentono bene o che sono ferite. Ma è più importante che ci siano quelli che lanciano i sassi, perché è per manifestare il nostro rifiuto che lanciamo cose contro i CRS. È per dimostrare che non siamo d'accordo, che non siamo contenti, non ci vuole molto per farlo.” E ironicamente conclude: “Lo mostriamo e la gente poi si lamenta che abbiamo fatto male ai CRS, ma noi ce ne freghiamo. Perché, beh, i CRS, sono i CRS.”

7. Le mobilitazioni francesi non sono costituite soltanto da Nuit Debout o dai cortei organizzati dalla CGT, ma anche da moltissimi liceali, quel pezzo di composizione all’interno del movimento che seppur non è numericamente più grande, è sicuramente la più forte e vitale e quella che dà la spinta necessaria per andare avanti.

Una liceale ci racconta come “gli studenti in generale sono quelli che permettono ai lavoratori che non vogliono lasciare il proprio lavoro, di organizzare manifestazioni alle quali possono accorrere molte persone. Così i lavoratori che non vogliono andare a lavoro per manifestare non sono soli, ma vengono sostenuti. Gli studenti e i liceali sono molto importanti poiché è un p’' il primo movimento in cui ci sono così tante manifestazioni nei licei. Anche nel mio liceo che non è politicizzato sono state organizzate assemblee dove abbiamo parlato della Loi Travail e delle mobilitazioni. E questo è successo pressoché dappertutto e ciò ha fatto sì che i giovani si rendessero conto del proprio peso nella società, e di capire che è compito loro far funzionare il movimento.”

Una ragazza ci spiega: “Sono i giovani che si scontrano con la polizia, ed è questa la cosa interessante. Persone per esempio da 15 a 17 anni che fanno avanzare veramente il movimento, io penso che se non fosse stato per loro il movimento non sarebbe partito com’è partito adesso. È interessante vedere finalmente queste persone che non hanno tante nozioni di politica, però hanno qualcosa che ti mostra che anche loro se ne rendono conto, e mostra che i sindacati non funzionano più, perché questi ci fanno fare manifestazioni da un punto A fino a un punto B e basta, e non si rendono conto che non è in un quarto d’ora che si può cambiare qualcosa. Per esempio con tutte quelle che abbiamo visto a République, ci sono sempre più manifestazioni che non sono previste, spontanee, e questa secondo me è una cosa che fa avanzare il movimento.”

Come ci racconta uno studente universitario, le manifestazioni hanno bloccato anche moltissimi licei e università: “La mia università è a Saint-Denis, a nord di Parigi, in una banlieue, abbiamo occupato 4-5 piccole aule e un’aula grande. All’inizio c’è l'idea di bloccare l’università perché è un simbolo. Poi questo ci permette di fare un sacco di cose, di recuperare del tempo, perché c’è della gente che si libera del tempo per sé stessa, per permetterci di preparare i cortei, per preparare le azioni, per chiacchierare, o per fare assemblee generali.”

Una liceale ci racconta invece che “da noi ancora non c’è stato il blocco del liceo, siamo in provincia di Parigi e non c’è stato nulla come a Parigi. Ma stiamo provando a fare qualcosa.”

8. Il giorno successivo visitiamo il 19esimo arrondissement, uno dei distretti più poveri di Parigi, abitato soprattutto da migranti. Per quanto si dica che lo stato d’emergenza è servito e serve tuttora per prevenire eventuali attentati terroristi, in questo distretto il cambiamento si è sentito pochissimo, a dimostrazione del fatto che fin dall’inizio è stato utilizzato soprattutto per controllare e reprimere qualsiasi iniziativa che provasse realmente a cambiare qualcosa.

Ho notato che ci sono più poliziotti e militari in giro, ma la vita non è cambiata troppo” – ci spiega un migrante – “Penso che la situazione sia ‘calda’ ed è per questo che Parigi è così sorvegliata.”

Proviamo quindi a farci spiegare cosa sta succedendo in questi giorni, ma dalle risposte si capisce subito che molti nemmeno sono a conoscenza delle mobilitazioni, poiché queste purtroppo sono rimaste confinate nel centro di Parigi e hanno coinvolto maggiormente quei soggetti più colpiti dai processi di impoverimento degli ultimi anni rispetto ai quartieri popolari e alle periferie che invece non sono stati toccati dalla Loi Travail. “Io sinceramente ancora sto studiando e non sono ancora entrato nel mercato del lavoro, la questione della Loi Travail non mi tocca in prima persona.”

Tornati a Place de la République, una ragazza ci spiega che “è difficile fare un’alleanza fra le zone più popolari e gli intellettuali che fanno politica. Però io spero che finisca come nel 2005, quando in tutte le periferie c’è stata veramente una cosa che si è fatta tra periferia e centro, e che però è molto difficile da fare perché siamo completamente disconnessi. Secondo me non cerchiamo abbastanza di andare verso di loro, e questo è un problema. Loro non vengono verso il centro perché è molto più difficile, per noi invece sarebbe più facile.”

9. Questo articolo non vuole essere semplicemente un’analisi della situazione francese fine a se stessa, ma uno strumento da utilizzare soprattutto in altri luoghi. Infatti due sono i rischi a cui si va incontro osservando da lontano le mobilitazioni francesi: il primo è che, pensando solo a quello che avviene là, si venga colti da un’esaltazione acuta, fino ad arrivare a pensare che la rivoluzione sia già in atto; il secondo è che, mettendo in rapporto le due situazioni, si rimanga intrappolati in una depressione cronica, perché là ci sono milioni di persone in piazza, mentre qui non si muove niente. Entrambe le opzioni tuttavia conducono all’impotenza politica.

Bisogna infatti tenere a mente che Francia e Italia vivono due situazioni e due contesti storici differenti, e sarebbe sbagliato tracciare un parallelismo che non esiste. In Italia le misure di austerity degli ultimi anni, fino ad arrivare al Jobs Act di Renzi, invece che determinare una risposta come un rapporto di causa-effetto, hanno anzi reso qualsiasi protesta indesiderabile, producendo tra retorica dell’economia delle promesse e ricatto della crisi inevitabile una soggettività accettante, che pensa più a difendere quello che gli è rimasto piuttosto che conquistare quello che non ha mai avuto. Ma sarebbe stupido pensare che non si muova niente, anzi, forme di microrifiuto di lavoro esistono e ce ne sono molte, ma rimangono troppo spesso confinate nel piano locale, e se non intercettate, oltre a perdersi nel vuoto alimentano la paura che se si rifiuta ciò che c’è può andare solo peggio. Non c’è nulla di strano in questo, è normale che se si lasciano le soggettività in mano al capitale, questo le trasforma a suo piacimento.

Guardiamo le cose come stanno veramente, il problema è anzitutto nostro. Lasciamo una volta per tutte da parte gli assillanti discorsi sul fatto che là è magicamente scoppiata una rivolta mentre qui non succede da anni: inutili piagnistei di una sinistra che ogni giorno che passa rischia di annegare nelle sue stesse lacrime. Nessuno può prevedere quando accadrà, e sarebbe insensato aspettare che le rivolte scoppino spontaneamente, perché quando succederà sarà troppo tardi.

Il militante non è chi va in giro per il mondo seguendo i focolai di rivolta come fosse un giornalista, o chi attende seduto su una poltrona sperando che prima o poi succeda qualcosa, per poi magari salire alla prima occasione sul carro dei vincitori, ma chi parte da ciò che c’è, bello o brutto che sia, e quella rivolta non la aspetta, ma la prepara, la organizza perché arrivi il prima possibile.

 

* Le interviste raccolte sono state tradotte da Claudia Rosati.