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Relazione di Brett Neilson (31 gennaio 2007)

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Che cosa vuol dire leggere Operai e capitale alla prova del presente? Questa è una domanda su cui ho una prospettiva diversa, dato che il testo di Tronti porta il peso di una tradizione rispetto alla quale io sono cresciuto. Si tratta di un libro che non è mai stato tradotto nella mia madrelingua, l’inglese, oltre che di un libro che non si trova facilmente nella città in cui sono cresciuto, Sidney. Ciò però non vuol dire che si tratti di un libro di cui io non ho mai sentito parlare, o di cui non ho letto capitoli importanti, anche se non ho difficoltà ad ammettere che l’ho letto da cima a fondo solo recentemente, dopo l’acquisizione lunga ed episodica della lingua italiana. Questo significa che la mia lettura di Operai e capitale non può essere altro che alla prova del presente e al tempo stesso alla prova di un altrove.

Quindi, vorrei soffermarmi sulla ricezione del libro nel cosiddetto English-speaking world,ma non solo. È certo impossibile leggere Operai e capitale senza accorgersi di come i suoi concetti e la sua metodologia abbiano una forte relazione con le lotte operaie che si sono dispiegate in Italia negli anni Cinquanta e i primi Sessanta. Il testo si situa infatti in un contesto reale, la fabbrica, e non fornisce tanto la base di una teoria contro le coordinate di una pratica, quanto piuttosto un nuovo modo di praticare la politica, o meglio un nuovo stile politico.

Nelle prime pagine del libro sono scritte queste parole: “Ecco dunque uno dei compiti politici di oggi: ripetere nel passo della ricerca, delle esperienze, delle scoperte, il senso, la forma di un cammino; dare a questo cammino la forma di un processo”. Il messaggio è chiaro. Il compito della politica è dare forma alle esperienze fra questi due poli; l’esperienza è forma politica che l’argomento del libro spiega. E l’organizzazione viene proposta come ponte tra le due. Ma le esperienze a cui Mario Tronti si riferisce in Operai e capitale sono le lotte operaie in Italia, perché è in questo campo che l’operaismo è nato, e credo che questa nascita non potesse avere luogo altrove. D’altro canto, se si legge questo libro è chiaro che la lotta operaia in Italia assume un’esemplarità che si confronta continuamente con un’altra realtà oltre il caso italiano.

Ancora due frasi dal testo: “L’Italia offre oggi non a caso alla ricerca teorica operaia un terreno ideale [...] Proprio perché sta in mezzo allo sviluppo capitalistico nella sua portata internazionale [...] Se è vero che è urgente e forse preliminare a tutto rimettere in piedi una strategia internazionale della rivoluzione, dobbiamo capire che questo non si farà finché continueremo a giocare con questo mappamondo per bambini inventato dalla geografia politica borghese e per sue comodità didattiche diviso in primo, secondo e terzo mondo”. Voglio soffermarmi sul tema dello sviluppo capitalistico: nonostante il fatto che quest’ultimo rimanga incastrato nel gergo dell’internazionalismo, si esprime un desiderio radicale di ridisegnare un mappamondo, di generare una nuova cartografia globale che non riproduce il modello dei tre mondi, o – il che è lo stesso – la dialettica tra centro e periferia nella teoria del sistema-mondo. Vale quindi la pena leggere Operai e capitale non solo per il suo intervento nel contesto italiano negli anni Sessanta, ma anche per questo ridisegno del livello globale: soprattutto, c’è bisogno di tener conto della connessione tra questi due livelli, e del modo in cui il nodo locale-globale incide sulla questione del passaggio fra esperienza e forme politica.

Nel saggio intitolato “Lenin in Inghilterra” si legge: “La forza-lavoro operaia nasce già storicamente omogenea sul piano internazionale e costringe il capitale – entro un lungo periodo storico – a rendersi altrettanto omogeneo”. Questa cosiddetta omogeneità non è tanto della classe operaia, del soggetto operaio, bensì della forza lavoro che non è, come sosteneva Marx, una semplice merce in circolazione come le altre, ma anche e soprattutto una categoria astratta di potenzialità.

È questo che fornisce il luogo comune a partire dal quale si può capire la diffusione del pensiero operaista attraverso contesti linguistici e culturali diversi. Si tratta insomma di qualcosa di più di quello che Edward Said ha chiamato la travelling theory, la “teoria che viaggia”. La forza lavoro diventa il sito in cui le operazioni del capitale e la politica delle differenze culturali e geografiche si toccano e deflagrano. Si badi bene: la posta in gioco è ben altro che l’impatto dell’analisi delle lotte operaie nei suoi vari contesti storici e geografici, perché questo approccio offrirebbe solo una critica parziale del capitalismo.

Per quanto riguarda la traduzione dei vari saggi contenuti nel libro nella lingua inglese, si tratta di pubblicazioni apparse per la maggior parte in piccole riviste, come “Radical America” a New York, o pubblicate da case editrici come Red Notes in Inghilterra. Ci sono due cose da dire: anzitutto, queste traduzioni vengono pubblicate dopo il ’68, precisamente nel periodo ’72-’73, ovvero nel pieno della crisi petrolifera che coincide in America con i primi passi del postfordismo. Se si leggono pensatori come Jameson o Harvey, sono infatti proprio questi gli anni indicati come l’inizio del postfordismo, almeno nei paesi anglosassoni. In secondo luogo, occorre sottolineare che i capitoli di Operai e capitale sono pubblicati all’interno di un mix selettivo dei vari scritti operaisti e del marxismo internazionale; questo fa sì che i disaccordi tra Tronti e i suoi compagni non vengono ben evidenziati nella ricezione fuori dall’Italia. Si può dire che il fatto che i saggi vengano letti accanto ad altri, non in questa linea di condotta di Operai e capitale, significa che la lettura che ne viene fatta tende ad enfatizzare il rifiuto del lavoro e il primato della lotte operaie piuttosto che il tema dell’organizzazione politica o partitica. Ciò per due motivi: da un lato perché le traduzioni vengono pubblicate dopo il ’68, evento a partire dal quale c’è un grande ripensamento della politica; dall’altro, perché si tratta di un periodo tendenzialmente già verso il postfordismo. Non che in Operai e capitale non fosse presente lo scarto fra la strategia del rifiuto del lavoro e la richiesta del potere di partito, distanza che spinge Tronti a sostenere che il marxismo non ha mai avuto una teoria adeguata dello Stato, e perciò introduce il pensiero di Schmitt nella sua ricerca. Soprattutto dopo l’89, anno in cui il mappamondo viene ritracciato, si deve pensare a nuove forme di organizzazione con cui combattere l’attuale capitalismo globale.

Ho sentito dire che una volta Tronti ha confessato che anche se abbiamo mandato Lenin in Inghilterra, tuttavia lui non ha seguito il consiglio e non ci è mai arrivato. Forse oggi sarebbe necessario mandare Lenin o Marx non tanto in Inghilterra o a Detroit, quanto piuttosto in una metropoli come Shangai. Ma cosa vuol dire questo? Che cosa ci dicono queste destinazioni nuove? Questo ci apre le porte a quelle sfide che non sono solo della politica, ma che rimandano al fare proliferazione delle differenze, della cosiddetta comunicabilità delle lotte. Su questo vorrei individuare due piani del problema. La politica di traduzione non è come la politica schmittiana in cui c’è l’amico e c’è il nemico, dove si vince o si perde. Perché quando si traduce quasi sempre si vince e si perde allo stesso tempo. Per questo c’è bisogno di ripensare radicalmente la politica della traduzione se vogliamo avere una comunicabilità delle lotte a livello globale, se vogliamo davvero ridisegnare il mappamondo. Non si tratta di andare da una lingua nazionale ad un’altra; questo tipo di traduzione tradizionale è quella che il filosofo giapponese Naoki Sakai chiama omolinguale, distinguendola da una traduzione che definisce eterolinguale. Tale specifica traduzione si rivolge a persone che parlano molte diverse lingue, dove il discorso è indirizzato ad un pubblico che parla differenti lingue. Per fare un esempio di traduzione eterolinguale, si può dire che essa è quella lingua che indirizza uno straniero ad un altro straniero: pensate alla lingua che una persona romena, per esempio, parla con una persona proveniente dal Senegal sulle strade di Roma. Si tratta di una traduzione che di fatto non passa più per la lingua nazionale. In secondo luogo, il riconoscimento di diffusa precarietà fa sì che la forma-partito e l’operaio-massa non siano più l’architettura principale nella comunicazione e nella pratica dell'organizzazione, a partire dalla famosa produzione in rete ma non solo.

Tuttavia, credo che il problema di come si legge Operai e capitale sia ancora il medesimo di allora: come muovere dalle esperienze a forme politiche. Il problema attuale è di dare forma a esperienze diffuse, non più solamente a quello che succede in una fabbrica o in un paese. Esperienze diffuse, globali, spesso contingenti e contraddittorie: il che vuol dire che non ha più senso trattare l’Italia come laboratorio paradigmatico della politica. Non solo perché è diventato il paese di Prodi e Berlusconi, ma perché nessun territorio nazionale può più diventare uno spazio simile. Parlare della fine della politica, allora, significa abbandonare l’idea di uno spazio politico come un laboratorio di sperimentazione dove la normalità della politica moderna istituzionale gioca un ruolo di neutralità sul cui sfondo si possono controllare gli esisti dell’esperimento. Dire che la metafora dell’Italia come laboratorio politico deve essere archiviata non vuol dire però che non ci sono lezioni davvero importanti da imparare leggendo un libro come Operai e capitale, così come dall’esperienza dell’operaismo.

Allora, chi sono gli operaisti? Per rispondere a questo riprendo un passo di Operai e capitale in cui Tronti traccia un passaggio fra la scoperta del lavoro produttivo dei fisiocratici e l’organizzazione rivoluzionaria da parte dei bolscevichi. Chi sono i bolscevichi?, si chiede Tronti. Sono i nostri fisiocrati, risponde. E oggi possiamo chiederci: chi sono gli operaisti? Io rispondo: sono loro i nostri bolscevichi.

 

* Relazione di Brett Neilson al convegno “Rileggere ‘Operai e capitale’”, Roma 31 gennaio 2007.