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Il progetto statale europeo

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Intervista di Francesca Coin, Anna Curcio e Davide Gallo Lassere al gruppo di ricerca EUropa Staatprojekt

Da diversi mesi, il cosiddetto TTIP, il trattato transatlantico di libero scambio tra Unione Europea e Stati Uniti, è finito sotto la luce dei riflettori. Molti giornali inglesi hanno infatti dedicato svariati articoli alla questione. In Germania, invece, vi sono già state due grosse manifestazioni anti-TTIP: due settimane fa ad Hannover, in occasione della visita di Obama - che vorrebbe chiudere i negoziati entro la fine del suo mandato -, e nel mese di ottobre 2015, quando 250.000 persone hanno protestato a Berlino. Per quanto riguarda la Francia, Hollande, sotto la pressione crescente della mobilitazione, sta cominciando ad affermare che le urgenze del governo, in questo momento, sono altre, mentre nelle piazze vengono affrontati i contenuti del Trattato e le modalità di opporvisi. Sabato scorso, a Roma, vi è stata una prima manifestazione italiana: Una volta conclusi i negoziati ancora in corso, si aprirà una fase politica, in quanto Consiglio e Commissione europea prima, e parlamento europeo e vari parlamenti nazionali poi, dovranno ratificare il Trattato. Pubblichiamo dunque un'intervista effettuata da Francesca Coin, Anna Curcio e Davide Gallo Lassere a diversi componenti del gruppo di ricerca tedesco "EUropa Staatprojekt", che ha a lungo studiato il processo di integrazione europeo e la questione migratoria.

 

Negli ultimi anni, il gruppo di ricerca “progetto statale EUropa” ha prodotto diversi articoli, libri collettanei e individuali e alcuni numeri di riviste. Nei vostri lavori cercate di coniugare una teoria materialistica degli apparati statali a uno sguardo attento ai discorsi e alle pratiche che egemonizzano le sfere istituzionali. Ciò vi consente di articolare un quadro complesso delle forze in campo e dei rapporti di potere: tanto dal punto di vista economico e giuridico, che da quello politico e culturale. In che modo tale approccio risulta efficace per descrivere la dinamica pluridecennale del processo d’integrazione europea? E perché parlare, a tal proposito, di “progetto statale Europa”?

Il nostro punto di riferimento teorico è Nicos Poulantzas, il quale non concepisce lo Stato come un soggetto unitario, bensì come un campo di battaglia, o, per dirlo con la sua famosa formulazione, come un “addensamento materiale di rapporti di forza sociali”. Ciò gli consente di teorizzare la realtà materiale degli Stati capitalistici come un insieme eterogeneo di apparati statali, in concorrenza gli uni con gli altri e sprovvisti di logica comune. L’unità di questo quadro deve perciò venir prodotta. Bob Jessop ha ulteriormente sviluppato quest’idea, puntualizzando come l’unità può venir costruita solo a partire da uno specifico progetto politico egemonico, da un progetto statale [Staatprojekt] appunto.

Quanto a noi, abbiamo traslato sul piano dell’UE questa concezione. Il pensiero mainstream discute se l’UE rappresenti un nuovo Stato o sia solo una semplice unione di Stati, un cosiddetto intreccio multi-stratificato, oppure ancora un nuovo Impero. Dal canto nostro, pensiamo che questa impostazione risulti problematica dal punto di vista della teoria dello Stato, siccome considera lo Stato come un soggetto. Se si procede invece da una concezione che tiene in considerazione l’insieme degli apparati statali, allora si può notare come da tempo in Europa tale blocco si sia costituito. Esso è composto da apparati genuinamente europei come la BCE, FRONTEX o la corte di giustizia, e al contempo da apparati nazionali, come per esempio i ministeri delle Finanze e degli Interni. Ogni operatore agisce secondo diverse logiche che corrispondono a precise costellazioni di forze, l’una in conflitto con l’altra. Lo si è visto da ultimo in Grecia: il ministero delle finanze greco ha tentato di provocare una rottura con la politica di austerità ed è incappato in una grossa contesa nell’Eurogruppo con gli altri ministeri nazionali delle finanze, con la presidenza del consiglio e con la commissione europea.

Dopodiché ci siamo chiesti, a cosa assomiglia il progetto statale che fornisce una coerenza, seppur precaria, a questo assieme di apparati statali. Esiste di già, come perlopiù negli Stati nazionali, un progetto statale consistente – come si è per esempio espresso con il fordismo e con lo Stato assistenziale? Secondo Poulantzas, tale progetto deve esistere al fine di rendere possibile l’unità degli apparati, la quale è di fondamentale importanza per la riproduzione capitalistica. È questo progetto a garantire in primo luogo una coerenza politica che orienta le differenti frazioni del capitale verso un progetto comune e che prende in considerazione gli interessi contrari dei subalterni, cooptandoli al suo interno. La nostra tesi è dunque la seguente: poiché il progetto statale europeo è ancora relativamente debole e frammentato e il processo di ricerca in tale direzione è altamente conflittuale, gli elementi che caratterizzano questo progetto statale rimangono spesso disuniti e isolati. Ciò è particolarmente vero per quanto concerne le linee giurisprudenziali della corte di giustizia europea a proposito dei diritti sociali per i/le cittadini/e Europei/e non-lavoratori/rici, oppure a proposito della contraddizione sussistente nella volontà di creare una moneta unica senza una politica fiscale – e ancora meno sociale – comune.

La fragilità, consustanziale all’UE, si mostra in modo ancora più acuto nella crisi: un parapiglia inaudito di apparati statali concorrenti con logiche molto divergenti che conduce a una destabilizzazione radicale, in cui manca completamente un progetto di sviluppo comune.

Ciò che risulta dalla vostra prospettiva è la non linearità del processo d’integrazione europea, la sua costante incompletezza e, sotto molti aspetti, la sua fragilità. Questi fattori dipendono senz’altro, come mettete in luce, da un lato, dal suo stretto intrecciarsi con le tendenze e le fasi di sviluppo del capitalismo globale e, dall’altro, dall’importanza che continuano a rivestire le specificità degli assetti statali e dei rapporti socioeconomici nazionali. Senza appiattire il politico sull’economico, il rovesciamento della crisi economica in crisi politica pare strutturalmente legato alla forma stessa che l’UE si è finora impressa. Tenendo in considerazione questo insieme di elementi, come leggete i negoziati in atto da parte della Commissione europea – e la probabile ratifica (perlomeno da parte del Consiglio europeo) – del Trattato Transatlantico (TTIP)? Che ruolo gioca questo trattato nel processo d’integrazione? Si tratta di una tappa di consolidamento di una dinamica di media durata oppure ci troviamo di fronte a una svolta significativa?

Dobbiamo innanzitutto ammettere che in questo campo non abbiamo compiuto ricerche approfondite. Possiamo perciò solo tentare di inquadrare tali trattative in un processo che parte dall’Atto Europeo Unico e da Maastricht e arriva fino alla gestione attuale della crisi, passando per il Trattato di Lisbona. L’accordo TTIP e la condotta poco trasparente della Commissione Europea si inseriscono nella storia di questo sviluppo. Il TTIP non comporta altro che un indurimento ulteriore delle politiche neoliberali, la creazione di un “costituzionalismo neoliberale”, come ha scritto il sociologo canadese Stephen Gill. Vengono aboliti degli assunti centrali delle giurisdizioni nazionali, mentre viene rafforzata la posizione dei gruppi di interesse transnazionali nei confronti delle rispettive popolazioni.

Rispetto alla prassi normale dei processi politici della UE, in questo caso vi è un’acutizzazione aggiuntiva delle modalità poco democratica e della mancanza totale di trasparenza. La peculiarità di queste trattative consiste nel fatto che avvengono a porte chiuse, all’insaputa dell’opinione pubblica, frammentate in innumerevoli gruppi di lavoro. Le reali istanze politiche perdono così il loro tratto distintivo e sono trasformate in mere questioni burocratiche. Tutto ciò è perfettamente in linea con la logica neoliberale in cui non sono ammessi interrogativi di natura politica, ma la sola ricerca di bestpractices. Nemmeno la composizione dei venti gruppi di lavoro sul TTIP è di dominio pubblico. Alla fine del processo, i parlamenti accettano o rifiutano l’accordo senza potervi apportare alcuna modifica.

Come sempre più spesso accade, tali decisioni cruciali vengono avvallate senza discussione nei parlamenti, poiché ai deputati e alle deputate mancano gli strumenti minimi per valutare i relativi documenti con la dovuta serietà. Una volte che le decisioni saranno state prese, dovranno infine passare alla fase attuativa a livello nazionale, cosicché sarà di nuovo troppo tardi per una discussione pubblica nella società civile sui pro e sui contro di queste misure. Per quanto riguarda il TTIP, dovranno votare sia il Parlamento Europeo, sia quelli dei singoli stati. Le istituzioni democratiche continueranno dunque a sussistere, ma saranno una volta ancora completamente depotenziate nella loro facoltà di intervento. I/leparlamentari non hanno nemmeno il diritto di visionare i documenti delle trattative, per non parlare poi della possibilità di pubblicarli e sollecitare una discussione pubblica in merito. In diversi casi, però, si è riusciti a sollevare un po’ di scalpore rispetto a questa forma di politica a porte chiuse. La particolarità del TTIP è che i movimenti sociali e le ONG sono riusciti a evitare che rimanesse nascosto in una mera dimensione burocratica. L’importante campagna anti-TTIP sta trascinando la questione all’attenzione dell’opinione pubblica, rendendo di fatto impossibile la sua de-politicizzazione. Questa esperienza – ancora agli esordi – rappresenta un ottimo esempio di come le lotte contro la ridefinizione autoritaria e statalista della UE e anche dei singoli Stati possano avere successo e di come ci si possa realmente opporre alle politiche neoliberali che hanno sempre più luogo a porte rigorosamente chiuse.

Tale esperienza dimostra inoltre che l’egemonia neoliberale si sta via via indebolendo e frammentando. Molti dei progetti politici neoliberali non hanno infatti più la forza di convincimento di qualche anno fa, non sono più in grado di organizzare il consenso e dipendono perciò totalmente dall’approvazione istituzionale. La Commissione Europea si trova dunque costretta ad affrontare un dilemma: da un lato, dovrebbe rendere pubbliche le trattative per ritrovare credibilità, dall’altro non può farlo poiché l’esito di tali rivelazioni – per sua stessa ammissione – rischierebbe di compromettere il processo.

Avete fatto riferimento alla campagna anti-TTIP… Durante le “trattative” di quest’estate con la Grecia, nelle quali i falchi dell’establishment tedesco hanno svolto un ruolo determinante, le voci che si sono sollevate in segno di protesta non sono riuscite a raggiungere una consistenza qualitativa e quantitativa particolarmente degna di nota. In ogni contesto nazionale, paesi della periferia inclusi. In Germania – come altrove – abbiamo sentito dei rappresentanti del mondo di “sinistra” criticare duramente le proposte greche. Nei mesi di agosto e di settembre, invece, la crisi dei migranti è sembrata poter indicare degli spiragli di segno opposto. Il 10 di ottobre, poi, sono scese in piazza a Berlino circa 250.000 persone per protestare contro il TTIP e di nuovo altre 150.000 ad Hannover qualche giorno fa. Quali sono le componenti della società tedesca che hanno partecipato e costruito questi momenti rilevanti, per i migranti e contro il TTIP? E che significato possono assumere rispetto al silenzio di giugno/luglio? Sono ravvisabili, secondo voi, dei legami materiali o simbolici in questa triangolazione di eventi?

In Germania come altrove non è facile parlare della sinistra. Sulla scorta di Jessop abbiamo appunto sviluppato il concetto di progetto egemonico. Questo approccio tenta di riassumere teoricamente e di rendere esaminabile empiricamente la costellazione complessa di interessi contraddittori in campo, ognuno con le proprie strategie, le proprie localizzazioni socio-strutturali, le proprie risorse… ossia i rapporti di forza in vigore. Ci siamo a lungo impegnati in tale sforzo e l’abbiamo ampiamente documentato nel nostro libro “Battaglie sulle politiche migratorie”. In ogni caso, crediamo di poter identificare cinque progetti egemonici che “infagottano”, per così dire, diversi attori.

Questi progetti si articolano a livello europeo nella lotta per la costituzione dell’UE e di conseguenza aspirano a universalizzare i loro interessi particolari, ossia aspirano a diventare egemonici. In particolare, rispetto alla vostra domanda sulla Grecia: in Germania, così come nel resto d’Europa, è il progetto egemonico neoliberale a risultare a tratti dominante, a tratti persino egemonico, stabilendo da oltre vent’anni le politiche. Il suo progetto centrale riguarda il mercato interno, l’Unione economica e monetaria e l’allineamento di tutte le sfere sociali e statali sull’intensificazione della concorrenza imposta dallo Stato. Chiaramente, i gruppi di potere tedeschi giocano un ruolo determinante in questa costellazione. Il governo tedesco è infatti riuscito a imporre la sua rappresentazione della stabilità incentrata attorno al “risanamento” delle finanze statali (risparmio nelle spese sociali, abbassamento delle tasse), ossia sull’economizzare come forma specifica di dominio, la quale ha via via assunto una parvenza di ragionevolezza, fino a farsi senso comune.

Il fatto che il progetto egemonico neoliberale sia egemonico comporta che esso determina le visioni del mondo dominanti, anche per quanto riguarda la “questione greca”. In Germania ciò si manifesta così: non vi è alcuna forza politica, nemmeno la Linke, che per esempio possa intervenire in modo offensivo per un innalzamento del debito. E quando i verdi hanno rivendicato la possibilità di un aumento delle tasse, questa rivendicazione è costata loro, tra le varie cose, la perdita di molti voti alle ultime elezioni. Non vi era dunque da stupirsi: nel momento in cui il nuovo governo greco di sinistra ha segnato una forma di dissenso rispetto a questo discorso ha trovato in Germania solo pochi partner, in particolare nei movimenti sociali, come Blockupy per esempio. I media tedeschi sono rimasti monolitici rispetto a questa questione, non vi è stata alcuna crepa nella visione politica egemonica. Solamente “Neue Deutschland” ha apportato un magro supporto, soprattutto nell’area alternativa. Ci pare dunque chiaro che con sinistra non si possa intendere la socialdemocrazia tedesca, in quanto questo partito ha contribuito attivamente alla nascita di una situazione così ermetica: l’SPD non è soltanto attraversata dal progetto egemonico neoliberale, ma è piuttosto interamente dominata da esso. Non bisogna dimenticare che è stata la coalizione “rosso-verde” sotto Gerhard Schröder a portare a compimento il rinnovo neoliberale in Germania, attraverso l’introduzione di Harz IV, per esempio, che ha facilitato l’abbassamento dei salari e la discriminazione dei poveri. Sicuramente sussistono tutt’ora delle pulsioni di sinistra nell’SPD, ma sono ormai completamente marginalizzate. Durante il periodo del cosiddetto governo rosso-verde in centinaia di migliaia hanno abbandonato il Partito.

Per quanto riguarda, invece, la crisi del regime dei confini europeo, la costellazione di forze in campo appare di nuovo, ma sotto altre spoglie. Rispetto a questa questione sono le coalizioni discorsive del progetto egemonico sociale europeista e di quello della sinistra liberal-alternativa ad aver ottenuto dei risultati positivi. A tal proposito, basti pensare che persino il progetto egemonico neoliberale – sebbene a partire da dei fondamenti e degli interessi differenti – ha sviluppato una posizione europeista pro-migranti, a favore dei diritti umani… Ciò ha a che fare col fatto che nei decenni precedenti si è affermato in Europa un progetto politico designabile come “management delle migrazioni”. Tale progetto è stato senz’altro largamente definito dal progetto egemonico neoliberale (nel quale si sono materializzate le strategie delle frazioni del capitale transnazionale e delle classi possidenti), e non ha pertanto significato la distruzione della cosiddetta “fortezza Europa”, quanto piuttosto un’apertura selettiva ai/alle migranti “utili” – siano essi/e altamente qualificati/e o meno, a seconda delle esigenze. Questo progetto è riuscito a diventare egemonico, perché gli attori della sinistra liberale erano d’accordo sulla concessione di diritti ai/alle migranti, così come, seppur in modo meno marcato, i conservatori, i quali ponevano l’accento sull’allontanamento dei soggetti “non utili”. Nella lunga estate delle migrazioni del 2015, quando i migranti hanno superato consapevolmente e con determinazione i confini, sostenuti da un grosso movimento della società civile (ossia da attori e simpatizzanti del progetto egemonico della sinistra liberal-alternativa ed europeista), si è prodotta una sterzatura del discorso verso sinistra. Ciò si è mostrato persino nel comportamento sorprendente della cancelliera tedesca. Bisogna però dire una cosa con chiarezza, questa virata a sinistra del discorso è riuscita anche in concomitanza di una correlazione forte con la strategia dell’offerta di lavoro di alcune frazioni del capitale transnazionale, come è stato più volte espresso da diversi rappresentanti del capitale tedesco. In questa nuova situazione, sono arretrati i progetti egemonici conservatore e nazional-sociale, nel quale possiamo annoverare per esempio il sempre più marginale Lafontaine e l’ala Wagenknecht della Linke. Per questo motivo diversi attori, da Pegida alla CSU, hanno reagito in modo così compatto.

Si è innanzitutto trattato di interventi discorsivi. È in quest’ottica che vanno annoverati i vari attacchi alle strutture di accoglienza e ai migranti stessi da parte di segmenti della destra radicale organizzata e vicina al progetto egemonico conservatore, i quali trovano in questo tipo di discorsi delle fonti di legittimazione delle proprie azioni. È pur sempre vero, però, che l’altra parte, l’alleanza europeista, è diventata al contempo più influente di prima. Nei media non vi è dunque alcun discorso così omogeneo come nel caso della “crisi greca”. Certo, la partita non è chiusa, e non si sa come andrà a finire.

Quanto al TTIP, come abbiamo appena accennato, per il momento vi è stata un’ottima e positiva campagna, e in Germania vi sono larghi strati della popolazione che non si sentono più in linea con la logica neoliberale. L’imposizione del neoliberalismo risulta in grande misura dalla produzione di paura, frustrazione, assenza di alternative, e solo in seconda misura dall’organizzazione del consenso. L’importanza del consenso è relativa per il neoliberalismo. E il TTIP mostra ad ogni modo che la strategia della demoralizzazione può essere rotta, e può essere rotta da sinistra.

Un’ultima questione: avete a lungo trattato il ruolo delle migrazioni nel processo integrativo europeo. Ora, sotto la spinta dei cosiddetti rifugiati, è in atto una vera e propria crisi politica: il Trattato di Schengen, pilastro fondante dell’Unione, è apertamente rimesso in causa e, con esso, il diritto di mobilità. Quali considerazioni si possono trarre da questa recente evoluzione degli eventi?

Bisogna affrontare la questione a partire dalla costellazione di forze che abbiamo appena descritto. La politica europea delle migrazioni è ancora piuttosto recente; è solo con l’inizio degli anni Duemila che si è pian piano attuata una vera e propria europeizzazione delle politiche migratorie, la quale si trovava dunque ancora nelle fasce quando è scoppiata la grande crisi. Gli Stati membri sono riusciti a riunirsi solo attorno al minimo comun denominatore, per così dire. È così, per esempio, che si può leggere la creazione dell’agenzia FRONTEX, che non costituisce un’autentica polizia europea delle frontiere, contro la quale gli Stati membri mostrano molte obiezioni in quanto – perlomeno su tale questione – non vogliono cedere i loro di diritti di sovranità. E sebbene rimanga un’agenzia ibrida, il suo bilancio cresce di anno in anno, anche se in principio non rappresenta nulla più che un tentativo di cooperazione tra diverse polizie di frontiera nazionali. La Commissione stessa, come ci hanno raccontato dei suoi funzionari in numerose interviste, parte dal presupposto che ci vorranno ancora diversi decenni prima che la situazione cambi in direzione dell’istituzione di truppe di confine europee.

Ma ciò che forse è ancora più importante è la cosa seguente: i contenuti di questa politica sono contraddistinti dalla stessa mancanza di solidarietà che vige in ambito economico e che connota l’egemonia neoliberale dominante in Europa. Gli Stati membri del Sud e dell’Est Europa sono ormai diventati dei vigilanti di confini, da porre in sicurezza per gli Stati ricchi nord-occidentali, affinché le sofferenze causate dal modo di vita imperiale dell’Europa non giungano al loro luogo d’origine, per dirlo in modo drastico. Ecco quanto stabilito, in pratica, dagli accordi di Dublino.

Tutto ciò è imploso pubblicamente durante la scorsa “estate delle migrazioni”, mostrando in modo acuto le proprie contraddizioni: una sorta di vendetta, per non avere avuto tempo a sufficienza e la capacità di costruire un sistema di solidarietà, in particolare nei rapporti Nord/Sud, tanto su scala europea che globale. Ora, però, l’aggravamento della situazione è tale da porre in pericolo il mercato unico stesso, perno del progetto egemonico neoliberale, il quale si basa in larga misura sugli accordi di Schengen. Se i Tir merci, per esempio, che oggi non stazionano più nei depositi ma circolano liberamente, dovessero tornare ad aspettare giornate intere ai confini, anche il mercato unico verrebbe rimesso in discussione. E questo è problematico per il capitale transnazionale. Da una prospettiva d’emancipazione appare perciò chiaro che si debba sostenere i migranti nella loro battaglia per la libertà globale di circolazione, e assieme a loro e alle forze progressiste tentare di spostare i rapporti di forza in Europa. Ecco allora che, dal nostro punto di vista, bisogna provare a tenere assieme due discorsi paralleli: quello degli attori appartenenti a ciò che definiamo il progetto egemonico della sinistra liberal-alternativa che ritengono prioritaria una strategia basata sui diritti umani e che assumono dunque una posizione antirazzista che combatte contro una rappresentazione omogenea ed organica del popolo, puntando sulla responsabilità post-coloniale dell’Europa nel Sud globale e sul suo stile di vita imperiale; e quello degli attori del progetto sociale europeista, i quali sostengono, dal punto di vista dell’economia politica, che la questione sociale all’interno degli Stati europei debba essere tematizzata in modo rinnovato al fine di contrattaccare la svolta neoliberale.

Ognuna delle due prospettive, da sola, non è sufficiente, in quanto riesce a sottolineare soltanto uno – per quanto importante – degli aspetti. Étienne Balibar parla a tal proposito di “Stato nazional-sociale” e mostra come lo Stato assistenziale abbia realizzato la regolazione della lotta sociale a livello nazionale, quale luogo privilegiato e sacralizzato della comunità. Per portare a compimento un progetto contro-egemonico risulta perciò necessario non solo il rinnovamento in senso antirazzista del modo di porre la questione sociale, ma anche il suo collocamento in una prospettiva post-nazionale al fine, appunto, di tenere assieme le due critiche.